L’accademia è malata

600px-italian_traffic_signs_-_fine_del_divieto_di_sorpassosvgDopo aver monitorato la situazione legislativa riguardante l’Università italiana, GIZMO volge la sua attenzione a un confronto che delinea due opposti progetti culturali e che appare quale necessario presupposto di ogni problematica universitaria. 

Protagonisti di tale confronto sono:

Marco Biraghi, autore della Storia dell’architettura contemporanea 1750-1945; 1945-2008 pubblicata da Einaudi nel 2008

Claudia Conforti, autrice della recensione dal titolo Oggi che senso ha una ‘storia dell’architettura contemporanea’, pubblicata in ‘Casabella’ 778.

Deus ex machina è Pier Paolo Tamburelli, membro di Baukuh, autore del testo Accademici d’Italia: in difesa del senso comune, pubblicato sul sito di ‘Abitare’.

Accademici d’Italia: in difesa del senso comune

di Pier Paolo Tamburelli

1. Ho letto la recensione di Claudia Conforti a Marco Biraghi, “Storia dell’architettura contemporanea 1750-1945; 1945-2008” apparsa su CASABELLA 778. Non credo di poter valutare nel merito il libro di Biraghi, faccio un altro lavoro. Tuttavia credo che il testo di Conforti indichi in maniera esemplare alcune abitudini che contribuiscono ad ostacolare il ricambio della classe dirigente e a rendere scadente la produzione culturale in questo paese. Per questo motivo, l’apparentemente innocua querelle tra Conforti e Biraghi non è una questione che non ci riguarda. Nel suo piccolo, quello che oppone Biraghi e Conforti, è l’ennesimo conflitto tra un’Italia che lavora e un’Italia che vive di rendita. Definire con precisione le caratteristiche di questo conflitto consentirà di evitare alcuni fraintendimenti, ad esempio eviterà di ridurre la questione ad una semplice contrapposizione generazionale.

2. In generale, un sistema accademico può incoraggiare (non “creare dal nulla”) ricercatori intelligenti o ricercatori stupidi, prediligendo ricerche urgenti oppure inutili. Uno studioso intelligente tende infatti ad occuparsi di problemi reali, evidenti, e come tali immediatamente pubblici, immediatamente soggetti all’attenzione e alla critica di altri. Al contrario, studiosi pigri o poco brillanti tendono ad occuparsi di argomenti remoti, deliberatamente inutili, incapaci di suscitare discussione.
L’Accademia italiana contemporanea (perlomeno nel campo dell’architettura e della storia dell’architettura) tende a scoraggiare le persone intelligenti. Questa nemmeno troppo segreta ostilità verso ricerche sensate è funzionale al mantenimento di un equilibrio di potere. Infatti un sistema che incoraggia ad evitare i problemi più urgenti è, inevitabilmente, un sistema che si priva di occasioni di confronto, e quindi di strumenti di giudizio, e finisce inevitabilmente (in assenza di criteri di selezione migliori) per premiare i ricercatori più servili.

3. Occorre riassumere alcuni fatti. Nel 1976 Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co pubblicano “Architettura contemporanea”. Il libro si colloca all’interno del complesso progetto storiografico di Tafuri, probabilmente il più importante storico dell’architettura del dopoguerra, non solo in Italia. Tafuri muore nel 1994. Da quel momento in poi nessuno in Italia, nel campo della storia dell’architettura contemporanea, produce più nulla (di Tafuri, ad esempio, sceglie di  occuparsi solamente Vittorio Gregotti: CASABELLA 619-620, 1995). Appollaiati sul cadavere del grande maestro, gli storici italiani aspettano che il tempo passi, intrattenendosi con i più insignificanti tra i problemi possibili.
Mentre i suoi colleghi trascorrono il tempo oziosamente, Biraghi affronta sistematicamente quelli che, nell’ambito di un mestiere tutto sommato quieto e appartato, appaiono come i problemi più urgenti (e più ovvi). Nel 2001 cura l’edizione italiana di “Delirious New York” (che, dal 1978 in poi, nessuno aveva considerato meritevole di traduzione). Nel 2005, probabilmente preparandosi a scrivere la “Storia dell’architettura contemporanea”, Biraghi discute il progetto storiografico di Tafuri (”Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea“). Infine Biraghi fa quello che ci si aspetterebbe da uno storico dell’architettura contemporanea: scrive un libro di storia dell’architettura contemporanea e conseguentemente lo intitola “Storia dell’architettura contemporanea”.

4. Il testo di Conforti denuncia il tradimento di un tacito accordo. Biraghi ha scritto un libro che non doveva essere scritto. La recensione di Conforti si occupa solo di questo (che razza di libro Biraghi abbia poi effettivamente scritto, poco importa, quel che conta è solo esorcizzare il titolo di questo libro).
La colpa di Biraghi è, semplicemente, quella di aver fatto qualcosa. Questo è già chiaro dal titolo grottesco dell’articolo di Conforti: “Oggi che senso ha una “storia dell’architettura contemporanea?” Conforti considera dubbio il senso del lavoro che essa stessa svolge quotidianamente, e altamente medita: “oggi che senso ha lavorare?”

5. La recensione di Conforti, a suo modo, è un capolavoro, un documento di una tradizione intellettuale italiana che sembra intramontabile, che sopravvive al di là delle più diverse convinzioni ideologiche. Conforti impiega gli stessi toni e le stesse retoriche che avrebbe potuto usare un vescovo del settecento nel ribadire ad un curato di campagna l’obbligo di consegnare la quantità pattuita di maiali, tacchini e sacchi di grano. Al di là del repertorio impiegato, c’è lo stesso uso pretestuoso di concetti presunti alti e la stessa combinazione di paternalismo e disprezzo. Questo disprezzo impedisce a Conforti persino di vedere i limiti reali del lavoro che deve a tutti i costi denigrare. Infatti l’obiettivo del testo di Conforti non è tanto analizzare le ipotesi di uno studioso, quanto castigare un sottoposto indisciplinato e screditarlo pubblicamente.
È opportuno analizzare in dettaglio le strategie retoriche dell’articolo di Conforti.

Anzitutto Conforti si premura di manifestare la sua amicizia (?) nei confronti di Biraghi: “La familiarità accademica che mi lega all’autore, la fiducia che nutro nella sua intelligenza, e la considerazione per l’impegno e la fatica che sottostanno alla stesura di un’opera come la Storia dell’architettura contemporanea 1750-1945; 1945-2008, temperano l’apprensione che provo nel licenziare queste note […]“. La dichiarazione di amicizia serve a introdurre una familiarità e a richiamare un rapporto di sudditanza probabilmente legato alla precedente attività accademica dei due ricercatori. Poi Conforti introduce una non inutile divagazione sulle abitudini dei “giovani ricercatori”, iscrivendo implicitamente (e contro ogni evidenza anagrafica), Biraghi a questa categoria. Conforti introduce l’argomento per assumere lo stesso atteggiamento che è abituata a tenere con quei poveretti: “Premetto che l’assidua frequentazione di dottorandi e giovani ricercatori mi mette quotidianamente in contatto…”
In seguito, vengono attribuite a Biraghi, indistintamente, tutte le colpe possibili: Biraghi è pedante, Biraghi è impreciso, Biraghi è azzardato, Biraghi è timoroso, Biraghi è di parte, Biraghi non è sufficientemente di parte… Di tutto questo basti il glorioso frammento: “del grande veneziano Biraghi tace però la solida preparazione topografica.”
Infine si ribadiscono i ruoli. Biraghi non può essere preso sul serio, proprio a causa della serietà e dell’umiltà del suo lavoro. La sua storia non è una vera “Storia”. Biraghi non può pensare di scrivere una “Storia”, non fa per lui. Avrebbe invece dovuto compilare un manuale, una sorta di utile elenco telefonico: “Naturalmente non poche delle riserve che ho avanzato sono originate dalla natura dichiarata dal titolo dell’opera e ribadita nell’Introduzione della medesima; quella che abbiamo tra le mani, infatti, vuole essere una Storia dell’architettura contemporanea. Altre e diverse valutazioni si imporrebbero di fronte a un manuale: un onesto strumento sussidiario per quanti, studenti e appassionati, desiderano un approccio semplificato e complessivo a ciò che l’architettura contemporanea è ed è stata. Un manuale, infatti, è per definizione un contenitore di nozioni non altrimenti attingibili nel loro insieme; una sorta di utile elenco telefonico; un materiale grezzo sul quale far funzionare, per gradi successivi, l’intelligenza nostra e dei nostri studenti.”

Altre e diverse valutazioni se fossero stati i maiali, i tacchini e i sacchi di grano che avevamo chiesto.
La civiltà è lontana. Facciamoci coraggio.

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Alla recensione di Tamburelli sono seguiti numerosi commenti, apparsi sul sito di “Abitare”:

http://abitare.it/highlights/war-by-words/

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Per completezza, in merito alla questione sopra discussa riportiamo l’articolo apparso su «Casabella» 778, 2009, pp. 96-97:

Oggi che senso ha una “storia dell’architettura contemporanea”?

di Claudia Conforti

La familiarità accademica che mi lega all’autore, la fiducia che nutro nella sua intelligenza, e la considerazione per l’impegno e la fatica che sottostanno alla stesura di un’opera come la Storia dell’architettura contemporanea 1750-1945; 1945-2008, temperano l’apprensione che provo nel licenziare queste note ispirate da uno schietto dissenso rispetto al lavoro che Marco Biraghi ha portato a termine.
Premetto che l’assidua frequentazione di dottorandi e giovani ricercatori mi mette quotidianamente in contatto con attitudini conoscitive iperspeciastiche, circoscritte a un problema intorno al quale si può disquisire lungamente e sottilmente, ignorando con disinvoltura quanto esula da quello specifico, e spesso ristretto, terreno di indagine. Anche per questa ragione ho accolto con interesse e sollievo un libro che programmaticamente, fin dal titolo, dichiara l’ambizione di misurarsi con due secoli e mezzo di storia dell’architettura estesa all’Occidente e oltre. Dopo tante analisi lenticolari, monografie si singoli progettisti o singole opere, finalmente, ho pensato prendendo in mano questo libro, una proposta di ampio respiro e tale da trarre da quelle materiali e riflessioni. Le dimensioni dell’impresa (i due tomi superano le mille pagine), per lo più compiuta da un solo studioso, suscitano un rispetto che però non è stato sufficiente ad assopire gli interrogativi che si sono venuti accumulando mano a mano che procedevo nella lettura.
Il primo di questi interrogativi è tanto ovvio che è lo stesso autore, nell’Introduzione (pp. XVII-XIX) a porselo: «Che senso ha oggi un’ennesima storia dell’architettura contemporanea? Dopo quelle di Bruno Zevi (1950), di Leonardo Benevolo (1960), di Manfredo Tafuri e Francesco Dal Co (1976), di Kenneth Frampton (1980), di William Curtis (1982) e di molti altri ancora?».
Individuando nella natura accentuatamente ideologico-progettuale il carattere dominante di queste “storie”, Marco Biraghi (1959) dichiara francamente di prenderne le distanze. Chiarisce infatti di aver voluto lasciarsi «alle spalle le volontarie distorsioni di una “storia scritta con il pugnale”, per citare Francesco De Sanctis, ma anche la falsa “oggettività” di una storia fatta di pura accumulazione» e di avere voluto pragmaticamente costruire «una storia che adotti diverse “ottiche”, a seconda del soggetto trattato e della distanza dal presente alla quale si trova».
L’assunzione di uno sguardo miope per compiere la perlustrazione storica è irrituale, ma legittima, tanto più se onestamente dichiarata. Coerentemente, in effetti, il primo mezzo secolo (1750-1800) dell’arco temporale da lui considerato viene trattato in un subitaneo sorvolo che occupa meno di venti pagine, intitolate La crisi dell’ordine dell’architettura. A partire delle considerazioni riservate alla (noiosissima) capanna rustica di Marc-Antoine Laugier, viene qui ribadita la metafora di una modernità che erompe e si rivela nell’inconciliabilità tra utile e ornamentale.
Il contrasto tra «funzione tettonica ed elementi semplicemente decorativi» è assunto da Biraghi come una costante di «tutta la storia dell’architettura occidentale – da Roma in avanti». Un contrasto che può assumere anche le spoglie di «colonna versus parete», dunque del divario concettuale tra i due modi tradizionali del costruire: con masse murarie continue (romano e rinascimentale) o per elementi portanti puntiformi (greco e gotico). Poste così le questioni è evidente che ci troviamo di fronte a semplificazioni che se non sono originali, sono certo molto drastiche. Questo contrasto è, in sintesi, il principio concettuale che, diversamente declinato in rapporto alla natura dei casi indagati, dovrebbe esplicitarsi e guidare la galoppata diacronica che, in due volumi, attraversa due secoli e mezzo di architettura.
L’ottica che Biraghi ha adottato non è inedita: canonicamente, dopo le pagine iniziali, egli si occupa degli architetti francesi “visiorari”, già impropriamente detti “rivoluzionari” (Ledoux e Boullée), associandone le opere alle frantumazioni prospettiche e figurali di Piranesi, primo consapevole interprete della crisi della modernità architettonica, per parlare così dei difficili legami che, nel tempo moderno, stringono la storia, l’architettura e il progetto. Del grande veneziano Biraghi tace però la solida preparazione topografica al fianco del Nolli, premessa tecnica (se non culturale) di quelle Vedute e Magnificenze di Roma che registrerebbero, con l’incombere delle rovine, «l’immagine di una crisi rintracciata, presagita direttamente nella fisica, nella meccanica delle sue “cose”». Queste prime pagine fanno seguito a quelle in cui Biraghi dichiara qual è il problema attuale dal quale ha preso le mosse, ossia «quello di una progressiva perdita della memoria storica (perdita di cui la storia dell’architettura rappresenta peraltro soltanto uno dei molti campi d’applicazione), e quello della mancanza di comprensione dei fenomeni spesso sostituita da superficiali “informazioni”».
Procedendo però tra le pagine dei due volumi, viene da pensare che le «diverse “ottiche”» che l’autore invoca, senza mai peraltro esplicitarle o definirle, che dovrebbero fornire una risposta a questo problema più che chiarirlo tendano piuttosto ad accatastare una serie di notizie (soprattutto nel primo volume dedicato al periodo 1750-1945) già sedimentate dai testi canonici, a partire da quello di Nikolaus Pevsner del 1936 fino a quello di Siegfried Giedion del 1941, senza compiere svolte sostanziali né suggerire angoli di osservazione innovativi. A puro titolo di esempio, si veda come Biraghi interpreta in modo corretto e convenzionale l’opera di Gottfried Semper o la Red House di Philipp Webb per William Morris. Ma soprattutto, sorprende, date le premesse di cui si è detto, l’assenza di interpretazioni azzardate, la cui mancanza è soltanto in parte risarcita dalle descrizioni degli eventi e degli accadimenti che nel libro vengono presi in considerazione. In queste descrizioni Biraghi dà prova di un’abilità letteraria non convenzionale, ma anche per questa ragione paradossalmente egli pare ricadere proprio in ciò da cui afferma di voler prendere idealmente le distanze.
Così anche in relazione a quelle «superficiali “informazioni”» da cui, secondo Biraghi, la storiografia sarebbe afflitta e che egli denuncia in premessa non è raro nel libro vederle inopinatamente ricomparire. Per esempio, quando il nostro autore fa riferimento al radicale mutamento introdotto da Ledoux nella logica compositiva tradizionale, indica come indizio «una particolarissima relazione tra tipo edilizio e mestiere di colui cui è destinata la casa». In realtà questa affermazione non fa che riprendere quel principio di convenientia che, teorizzato proprio da Sebastiano Serlio, si attesta in epoca rinascimentale come un’estensione del principio enunciato da Vitruvio quando riferisce la scelta dell’ordine dei templi i tipi di divinità. Quindi siamo in territori del tutto incongrui e anacronistici rispetto alle pretese o alle negazioni “funzionalistiche” invocate dall’autore.
Altrove, continuando la lettura dei due tomi, capita poi di imbattersi in alcuni sedimentati luoghi comuni della storiografia dell’architettura contemporanea, nonostante Biraghi giustamente dichiari di volerli censurare come suggerirebbero anche le acquisizioni cui sono pervenuti gli studi più recenti. Ne è un esempio, naturalmente veniale, il riferimento alla presunta mostra berlinese dell’opera di Frank Lloyd Wright del 1910, che non è azzardato ritenere non essersi mai tenuta, come ha scritto nel 1993 Anthony Alofsin nel suo Frank Lloyd Wright. The Lost Years 1910-1922. Ma il problema non è certo il ricorrere, inevitabile in un lavoro di tale vastità cronologica e geografica, di lacune, sviste, o inesattezze. Sebbene non siano affatto determinanti queste rimandano però alle iniziali questioni di metodo e alla mancata messa a fuoco dei principi sulla scorta dei quali l’analisi dei fenomeni è stata condotta. Per fare ancora un esempio: quando Biraghi propone l’interpretazione di un evento ritenuto cruciale della storia del’architettura contemporanea, egli quasi mai indirizza il riflettore sulle opere, sulle ragioni della loro materialità o dei processi di progettazione e di costruzione di cui sono prodotti – processi che coinvolgono istituzioni, saperi e tecniche, mobilitano uomini, materie e risorse. Tecniche, materiali e cantieri (e committenti, bisogna aggiungere) sembrano essere stati banditi da questa storia del’architettura, come ai tempi di Benedetto Croce.
Allorché se ne occupa, solitamente Biraghi fa precedere una breve descrizione del manufatto a una serie di considerazioni sulla problematicità della sua iscrizione a una determinata categoria. Tali considerazioni in qualche caso finiscono con l’approdare a un sottile, talvolta imperscrutabile, ribaltamento che in realtà utilizza la stessa logica critica preliminarmente denunciata, senza metterne in discussione la legittimità o l’efficacia. In uno dei tre fulminei cenni riservati ai settanta anni di attività di Giovanni Michelucci, per esempio, si cita la Borsa Merci (1948-50) di Pistoia come uno «dei più felici innesti moderni in un ambiente storico italiano», derubricando nella consunta categoria del’ambientalismo (che non viene invocato esplicitamente, ma quello è) uno dei più pionieristici esperimenti tipologici e costruttivi dell’immediato dopoguerra (di cui è anche sottaciuta la precoce distruzione avvenuta nel 1961 – anche questa è storia!). Proseguendo in questa direzione si legga come il libro sintetizza l’incandescente dibattito critico che accompagnò la costruzione della torre Velasca (1950-58), progettata dai BBPR a Milano: «il tema della torre con volume sporgente a coronamento del corpo dallo sviluppo verticale (concettualmente e morfologicamente diverso dal tema del grattacielo) è già presente nella prima versione del progetto, dove la struttura è prevista in acciaio e la regolarità del curtain wall è di chiara marca “internazionalista”; tale idea pertanto precede l’elaborazione di quegli elementi linguistici che fanno imputare di “storicismo” i BBPR. Decisiva per la formazione del senso della Torre Velasca, allora, non sarebbe tanto la scelta linguistica quanto piuttosto la rottura “con la stesura indistinta della città”, cioè a dire con il modo convenzionale, neutrale, di concepire un intervento moderno all’interno del tessuto storico. Da ciò si lascia evincere che “la torre milanese è – anche e non soltanto – una interpretazione paradossale e per absurdum del tema delle preesistenze ambientali; che vengono smentite all’inizio quando gli architetti scelgono la forma a torre, e affermate poi, nel momento critico dell’invenzione di un nuovo linguaggio” [citazioni da Ezio Bonfanti e Marco Porta]». Letta questa pagina viene da chiedersi: siamo proprio certi che l’iniziale scelta progettuale non tenesse in adeguato conto indici di edificabilità, vincoli normativi ed economici stringenti, trattandosi di un’operazione immobiliare di notevole portata, promossa da un committente piuttosto potente che per molteplici e non ovvie ragioni che sarebbe opportuno spiegare aveva deciso di rivolgersi a uno studio professionale di primo piano e non a tre scapigliati sognatori?
La parte conclusiva del secondo volume (poco meno di 200 pagine) è dedicata all’ultimo quarantennio. Misure e giudizi severi, che spesso evidenziano opportunamente l’artificiosità e l’estrema povertà concettuale di alcuni tra i più noti architetti contemporanei, si susseguono senza però entrare nel vivo di una chiara spiegazione di quali meccanismi (che ancora una volta coinvolgono i ruoli svolti dalla committenza, dalle mentalità collettive, dai media, ecc.) rendano purtuttavia vincenti questa denunciata mediocrità. Ci si chiede poi se non sia ancora una volta la sudditanza a schemi interpretativi antiquati quella che ha indotto Biraghi a raggrumare in un unico bouquet nel capitolo intitolato Il dominio della distorsione, i grandi progettisti del cemento armato e del cemento precompresso, da Nervi a Torroja, da Candela a Calatrava, come se la manipolazione di una comune materia (il calcestruzzo), li apparentasse indissolubilmente, indipendentemente dalle profonde differenze espressive, oltre che tecniche e costruttive, che distinguono le opere e le ricerche compiute.
I silenzi che Biraghi riserva a molti architetti attivi nel secondo Novecento, in Italia e non, sono eloquenti. L’elenco dei nomi che a questo punto si potrebbe redigere risulterebbe probabilmente utile per spiegare le scelte critiche di Biraghi ma rischierebbe di apparire eccessivamente pedante per i lettori; questa eventualità mi induce ad ometterlo e a continuare a fidarmi della puntualità delle annotazioni che accompagnano le considerazione che sto svolgendo. D’altro canto è evidente che questo silenzio è il risultato di selezioni legittime da giudicare però in rapporto al contesto in cui sono state operate, ovvero alle attenzioni e alle pagine che Biraghi ha riservato a personalità, soprattutto di area milanese e veneziana, le cui rarissime opere, quando esistono, faticano a configurare un profilo meritevole di attenzioni critiche, ancorché provvisorio. Ma ciò detto questa porzione del libro risulta la più fragrante e anche la più utile, in quanto generosamente tenta di sistematizzare una serie di avvenimenti ancora in fieri, sui quali abbondano le informazioni patinate, ma generalmente mancano riflessioni complessive e riferimenti autenticamente critici.
Naturalmente non poche delle riserve che ho avanzato sono originate dalla natura dichiarata dal titolo dell’opera e ribadita nell’Introduzione della medesima; quella che abbiamo tra le mani, infatti vuole essere una Storia dell’architettura contemporanea. Altre e diverse valutazioni si imporrebbero di fronte a un manuale: un onesto strumento sussidiario per quanti, studenti e appassionati, desiderano un approccio semplificato e complessivo a ciò che l’architettura è ed è stata. Un manuale, infatti, è per definizione un contenitore di nozioni non altrimenti attingibili nel loro insieme; una sorta di utile elenco telefonico; un materiale grezzo sul quale far funzionare, per gradi successivi, l’intelligenza nostra e dei nostri studenti. In un manuale l’uso di formule a scopo didattico è necessario e l’evasività o gli scompensi critici sono giustificati dalle esigenze di brevità e di concisione. La possibilità che anche questo libro abbia una radice nascosta, segretamente manualistica, e tale, quindi, da suggerire come leggerlo, sembra in realtà evocata allusivamente dallo stesso Biraghi quando, riferendosi nell’Introduzione  alla sezione intitolata L’esperimento del moderno (1900-1945), scrive: «Il terzo capitolo ha invece un carattere maggiormente analitico, ma al contempo anche sintetico, vista la difficoltà a offrire interpretazioni che si discostino di molto da quelle che una copiosissima produzione storiografica riguardante il periodo in oggetto ha ormai conseguito al giorno d’oggi».

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Riportiamo di seguito le considerazioni di Guglielmo Bilancioni pubblicate in Moby Dick, supplemento di Liberal, l’11 luglio in merito alla Storia dell’architettura contemporanea di Marco Biraghi:

In ogni nuova Storia vi è il senso del superamento di un’epoca: i differenti registri di interpretazione attivati dalla necessità di scriverla stanno per trasformarsi nelle idee dell’epoca successiva. Anche nella Storia dell’architettura contemporanea di Marco Biraghi si assiste con ammirata apprensione a un passaggio epocale: il mito del movimento moderno viene rivelato come intenzione e discusso nei suoi limiti, e i dettami rigidi come prescrizioni di quel che fu, nel Novecento, la Modernità vengono sottoposti alla revisione critica dell’urgente superamento.

Con molti titoli euristici, come Principi architettonici nell’età del computer, Biraghi sa far vedere il presente nel passato e il futuro nel presente. E sa spiegare lo spirito della materia, che è l’essenza fondamentale dell’architettura. Il procedimento di descrizione, che presuppone una attenta classificazione e misurazione dei fenomeni, mira all’interpretazione, il cui valore didattico (il libro è già un cult fra gli studenti che studiano) è la conoscenza istantanea, quella conoscenza ricca di intuizioni e di connessioni che fa vedere tutto dappertutto: l’importante risultato di un metodo euristico-iconologico.

Storia delle idee, mosaico più che affresco, dalle tessere cluster che si illuminano reciprocamente, quella di Biraghi è una critica produttiva, una sintesi entusiasmante dove scegliere e includere hanno un andamento sinfonico. Poiché, qui, il lavoro della selezione è pari a quello della attribuzione di significato. Si tratta, scegliendo e per questo omettendo, di dire tutto: da Loos che è moderno perché è classico, all’ordine della luce in Mies, e Berlage, «perenne più che antico», e Otto Wagner «che attua una unificazione semantica di Vienna», l’unità che si compie nella frammentazione in Pikionis, il cimitero di Modena di Rossi, «gioco dell’oca della vita e della morte», la torre comunista di Tatlin «gigantesco meccanismo a orologeria», la scuola di Amsterdam che scopre l’individualità della forma, il Rundbogenstil e i silos, il layer e il display, la catena di vetro e il «fiume in piena» di Wright, la «scienza del camaleonte» di Philip Johnson, il soft pop di Ronchamps, i grattacieli, che sono «investimenti a tre dimensioni», il realismo biologico deluxe di Neutra, la technocraft di Piano, la «prestidigitazione» di Koolhaas, fino a Fuksas «apocalittico e catastrofico».

Biraghi sceglie e insegna a scegliere e a studiare. Con una aggettivazione ricercata e appropriata ogni appassionante descrizione delle opere è una mirabile ekphrasis degli edifici. La sobrietà iconografica dei volumi, cui ha collaborato con sapienza Mario Viganò, è il sigillo della potenza della qualità.

Di edifici e città, Biraghi mostra il significato. Con il coraggio delle sue scelte subordina la sensibilità alla verità, e unifica in armonia gli aspetti simbolici, le necessità monografiche e gli impulsi enciclopedici; è capace, come sarebbe sempre doveroso, di mostrare l’arcaico nel moderno e il groovy nell’antico, e di spiegare con semplicità che una fonte non è mai tale se non è oggetto di interpretazione. L’esegesi dell’«oggetto a reazione mediatica», la perdita del valore di eternità delle opere, divenute arbitrarie e mutevoli come le mode, e la sopraggiunta incertezza delle culture, avverano la diagnosi di Biraghi: «la cultura della forma particolare sta avvicinandosi alla fine». Tutto inutile tranne l’intelligenza, allora, in questa instabile contemporaneità che raccoglie e mette in salvo, serba per il futuro. Soltanto così l’illuminazione continua della creazione critica potrà proseguire, e muovere ancora verso molteplici disvelamenti: il significato dell’immaginazione, la persistenza degli archetipi, il nesso fra Cultura e disciplina. La Storia dell’architettura contemporanea di Marco Biraghi è critica dell’ideologia contemporanea, critica del funzionalismo, storia delle idee e delle tecniche per realizzarle, ma, soprattutto, fenomenologia della forma. Un lampo, nel testo, folgora, facendo capire tutto: «formale cioè spirituale».

di Guglielmo Bilancioni