Il dio inattuale di Walter Gropius

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L’autore che parla nei saggi e discorsi raccolti nel volume Apollo nella democrazia (Zandonai, Rovereto 2009, a cura di GIZMO) è un architetto che ha attraversato, tra le due guerre mondiali, l’epopea del Bauhaus, il tracollo della Repubblica di Weimar, il declino degli ideali legati alla social-democrazia tedesca, e che infine, come tanti altri intellettuali europei in fuga, ha trovato riparo e fortuna in America, a Harvard. Walter Gropius è un uomo maturo, poi addirittura anziano, quando in queste pagine – scritte nell’arco di un decennio, tra 1956 e il 1966 – rivede la sua storia professionale alla luce dei principi e dei valori che le sono inestricabilmente congiunti. Gropius rivede lo stile di pensiero che ha orientato la sua opera in duplice senso: lo vede nuovamente, con la distanza critica offerta della nuova situazione storica e sociale in cui si trova a vivere; ma lo rivede poi anche in un senso velatamente autocritico, non senza una vena di amara disillusione. Entrambi i motivi possono essere ricercati nel titolo del libro (l’ultimo, è da dire, pubblicato da Gropius): Apollo nella democrazia, il saggio da cui il volume prende il titolo, è in realtà un discorso tenuto nel 1956 ad Amburgo, in occasione della consegna del prestigioso premio Goethe. Si tratta a mio avviso di una circostanza significativa: lo stile di Gropius presenta infatti quelle profonde affinità alla cultura goethiana che si riflettono in vario modo nella ricerca del bello come armonia delle forme, nel senso dell’arte come manifestazione di una misura e di un ordine immanente, nella funzione dell’estetica come elemento essenziale della formazione spirituale ed etica dell’uomo.


Non mi è noto quanto effettivamente Gropius abbia riflettutto sul pensiero goethiano, ma è facile supporre che come quasi tutta la borghesia della sua epoca egli ne abbia respirato l’ideale estetico, recependone lo spirito apollineo, l’umanesimo, la critica al tecnicismo moderno, allo specialismo, ai risvolti nichilistici dell’industrializzazione. Non occorre dunque evocare Nietzsche per comprendere a quale Apollo Gropius si ispiri. Non solo perché – come ha giustamente notato Biraghi nell’Introduzione al volume – nella sua opera (e persino nella sua personalità artistica) non vi è traccia del tragico e del dionisiaco, cioè della dialettica interna alla genealogia nietzscheana, ma soprattutto perché l’Apollo di Gropius (come quello di Goethe) è invocato come principio estetico positivo, capace di redimere il mondo industriale, di armonizzare l’incontro tra l’uomo e la tecnica, di scongiurare gli esiti alienanti e reificanti del sistema di produzione industriale.


La migliore immagine dello spirito apollineo di Gropius è forse il progetto del Padiglione Werkbund, realizzato a Colonia, nel 1914, insieme ad Adolf Meyer. Ricordo di passaggio che il Deutscher Werkbund (la lega tedesca del lavoro) è stato in realtà il luogo di sperimentazione di un’idea non da poco, poi ereditata dal Bauhaus: saldare la frattura tra industria e arti applicate, conciliare il fare artistico con le prerogative funzionali della tecnica. Ora, per evidenziare il significato simbolico di quest’unione, Gropius e Meyer affiancano al Padiglione dei Motori, da loro progettato, una statua classica e una grande turbina. Il senso di questo stridente abbinamento è la resa plastica di un programma estetico e sociale:  l’ideale (classico) della bellezza deve formare e umanizzare le conquiste del lavoro industriale; ma proprio per questo l’artista è chiamato a un rapporto organico con la struttura produttiva. Dal momento che l’apollineo può sposarsi a un progetto sociale (al progressismo del mondo industriale), il bello ottiene un mandato pedagogico e formativo implicitamente politico. Il suo compito, eminentemente sociale, è quello di emancipare le masse democratizzando le istanze etiche della bellezza veicolate dall’industria. Tutto ciò, come diverrà chiaro nel Bauhaus, implicherà un  duplice sacrificio: quella rimozione del principio di autorialità e di originalità dell’opera (almeno nel senso tradizionale che Benjamin avrebbe associato a questi termini) che in Moholy-Nagy comporta l’esaltazione della riproducibilità tecnica del prodotto artistico, e in Gropius la promozione e la valorizzazione del prefabbricato.

L’unione di questi elementi determina ciò che Gropius, ancora nel ’56, formula come l’idea di democrazia cui la sua opera si ispira: non un tipo di governo politico tra gli altri, e neppure un caso storico di questo tipo (la democrazia greca, tedesca, o americana); ma una forma di vita basata sull’allargamento sociale dei privilegi materiali e intellettuali resa possibile dal benessere sviluppato dalla civiltà industriale (istruzione, sanità, trasporti, diritto di voto e di partecipazione alla vita pubblica). Ora, proprio questo velato richiamo agli ideali social-democratici del Bauhaus risulta nelle parole di Gropius  amaramente inattuale. E’ la stessa società americana, quella che lo ha accolto e salvato, a rendere Gropius consapevole della sconfitta ideologica del progetto sociale del Bauhaus. Come Adorno, Horkheimer, Marcuse, anche Gropius legge infatti nella società americana i rischi della cultura di massa. Se democrazia significa differenza nell’unità, la società massificata oscilla invece pericolosamente tra due opposti estremi: la tirannide dell’organizzazione tecnica (che significa standardizzazione, livellamento di ogni stile di vita e di pensiero, militarismo, spersonalizzazione), e l’individualismo anarchico (che significa egoismo, consumismo, indifferenza al bene comune).

La visione utilitaristica e iper-pragmatista della civiltà dei consumi sacrifica la qualità a vantaggio della quantità, e sviluppa nei cittadini una mentalità astratta, meccanica. Non è difficile avvertire a questo proposito l’influenza di Simmel: basti pensare alla nota tesi simmeliana circa l’equivalenza tra intelletto e denaro, o la critica, di derivazione marxiana, all’alienazione sociale (fu del resto enorme la recezione di La metropoli e la vita dello spirito sugli architetti dell’epoca, specie su quelli, come Mies – che nella sua biblioteca aveva tutte le maggiori opere di Simmel – trapiantati in America). Gropius vi legge forse un preveggente ritratto della società fordista, dove la figura dell’artista creativo perde ogni ruolo sociale, risultando schiacciato da un sistema produttivo indifferente alla forma. Specializzazione, frammentazione, impauperamento dell’uomo sono i connotati di un ordine sociale democratico che Gropius non vuole vedere confuso con quello promosso a suo tempo dal Bauhaus. È in questo senso, ci pare, che Gropius rilancia l’immagine di un “uomo totale” (o “onnilaterale”) che è precisamente l’elemento goethiano che pervade il pensiero antropologico di Marx. Con prudenti accenni (e senza mai nominare Marx) siamo probabilmente rinviati allo sfondo teorico dei Manoscritti, alla critica umanistica di Marx contro lo sviluppo unilaterale, monco, dell’uomo allevato dalla società capitalistica, e dunque all’auspicato recupero della pluralità di significati fisici e spirituali in cui l’uomo onnilaterale potrebbe esprimere, in un diverso ordinamento storico-sociale, la propria piena umanità. Per dirla in termini marxiani, la democrazia dovrebbe per Gropius coltivare la parte “celeste” dell’uomo (quella che appartiene alla cittadinanza), educando e incivilendo la sua parte terrena (quella dove uomo significa bourgeois, individualismo ed egoismo). Certo Gropius non pensa alla rivoluzione politica come premessa per questa rivoluzione culturale e antropologica. Apollo è invece più volte invocato nelle vesti di un progetto educativo di ampia portata e di stampo estetico-pragmatico, ribadendo così la fiducia riformatrice nelle arti tipica del Bauhaus (anche se certe espressioni possono a mio avviso far pensare a Dewey). La figura dell’uomo totale è a sua volta speculare a quella di architettura totale (Scope of a Total Architecture, del 1955,  è il titolo del saggio tradotto in italiano come Architettura integrata), ed entrambe rinviano a un effettivo impegno civile che ha di mira lo sviluppo creativo dell’individuo e della collettività. Vale allora la pena di citare un passaggio tratto da Architettura integrata, se non altro per meglio intendere lo spirito apollineo che Gropius invoca tanto contro il culto moderno dell’Ego, quanto contro un concetto riduttivo di funzionalismo: «Le mie idee sono state interpretate come l’apice della razionalizzazione e della meccanizzazione. Ciò dà un quadro assolutamente errato di tutti i miei sforzi. Ho sempre insistito sul fatto che l’altro aspetto, la soddisfazione dell’anima umana, è importante quanto il benessere materiale, e che il raggiungimento di una nuova visione spaziale è più significativo dell’economia strutturale e della perfezione funzionale. Lo slogan “funzionalità uguale bellezza” è vero solo a metà. Quando diciamo bello un viso umano? Ogni viso è funzionale nelle sue parti, ma solo proporzioni e colori perfetti, in una contemporanea armonia, meritano quel titolo: bello. Appunto lo stesso è vero in architettura. Solo l’armonia perfetta delle sue funzioni tecniche come delle sue proporzioni può sfociare nel bello. Questo rende il nostro compito tanto complesso quanto molteplice. Più di quanto si sia mai dato, oggi nelle mani di noi architetti vi è il compito di aiutare i nostri contemporanei a condurre una vita naturale e sensata, anziché pagare un greve contributo agli dei falsi del pregiudizio […]. Pure la nostra meta più alta dovrebbe essere quella di produrre uomini capaci di concepire una totalità, anziché lasciarsi troppo presto assorbire nei canali angustissimi della specializzazione». E ancora (dalla Premessa a Apollo nella democrazia): «La democrazia novecentesca deve sostituire al mecenate la volontà culturale del cittadino. In essa Apollo diviene il nuovo simbolo culturale, diviene il fattore di compensazione del potere materialistico della tecnica. Siamo tutti chiamati a lavorare insieme alla sua immagine».

In un’epoca come la nostra, dominata dal marketing urbano e politico, dallo specialismo più astratto, dall’idolatria della mera forma e dei suoi creatori, non vi è dio più inattuale dell’Apollo di Gropius.

di Matteo Vegetti

14 gennaio 2010