Gehry, prigioniero dell’architettura

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Mostra “Frank O. Gehry dal 1997”, Triennale di Milano, 27 settembre 2009 – 10 gennaio 2010 

di Edoardo Rovida

Ammetto che, senza aver mai avuto una vasta conoscenza dell’opera dell’architetto canadese, non ho mai nutrito una forte simpatia per il suo lavoro, forse perché non ho mai rinvenuto nelle sue creazioni quelle dottrine e quella disciplina formale che numerosi anni di formazione universitaria mi hanno trasmesso. Forse più dello “stile” vero e proprio, a infastidire lo “studente medio di architettura” è il grande successo ottenuto sul palcoscenico internazionale da opere che, se presentate in un qualsiasi laboratorio didattico, sarebbero tacciate di eresia e rifiutate con ignominia e derisione.

Quale pretesto migliore dunque della mostra organizzata alla Triennale di Milano per sfogare anni di frustrazione, per aggirarsi nelle sale dell’esposizione con aria di sufficienza esprimendo a voce alta (così che i profani possano sentire bene) giudizi da “esperto” che bollano Gehry come “uno che non è capace di fare la vera architettura”, come “uno che non è capace di coniugare forma e funzione”, come “uno che se si presentasse in università con uno dei suoi progetti verrebbe sicuramente bocciato”.

Ed è proprio in tale occasione che è affiorata la volontà di stendere questo articolo, con la precisa idea di scrivere esattamente tutte quelle cose che, da studente, ho sempre pensato di Gehry.

Tuttavia, per rispetto a una carriera pluriennale e alla caratura del personaggio, era assolutamente indispensabile documentarsi e informarsi sulla figura umana e professionale dell’architetto, per poter argomentare al meglio tutte le critiche che covavano da sempre nel pensiero immaturo “da studente”, per potermi sentire tranquillo nel liberare finalmente il fiume di parole che da sempre attendevano l’occasione di essere riversate sulla carta. Ma è proprio durante questo processo di approfondimento che l’ordine dei pensieri è stato sovvertito e che la figura da tempo “ostile” ha visto sfumare i suoi confini aspri e incomprensibili, finendo per far cadere una ad una quasi tutte quelle ipotesi che da sempre supportavano la “grande critica” al personaggio.

Se osservate con il trasporto di un appassionato intenditore una partita di hockey su ghiaccio, è probabile che non notiate nulla di architettonico in ciò che avviene sul campo di gara, ed è forse per questo motivo che non esistono altri architetti come Frank Owen Gehry: le linee sinuose, dinamiche ed affilate che i pattini incidono sulla superficie del rink sono state infatti, per sua stessa ammissione, fonte di ispirazione per la formazione di quello stile compositivo che lo ha reso celebre agli occhi del mondo e che ne ha decretato il successo internazionale.

Originario di Toronto, Gehry non è mai stato troppo legato all’architettura in quanto disciplina, mostrando sempre una certa predilezione per la progettazione “concreta” fin da quando, ancora bambino, si divertiva ad assemblare forme con i materiali di scarto che trovava nel magazzino del negozio di famiglia, e anche crescendo, l’architettura non sembrava essere al centro dei suoi pensieri, occupati piuttosto dall’ambizione di approdare al circuito professionistico dell’hockey americano.

Il destino aveva tuttavia piani diversi per questo giovane talento e, negli anni ’50, in seguito al fallimento dell’attività del padre, la famiglia si sposta a Los Angeles, dove Gehry, tra i pochi indirizzi a sua disposizione, sceglie l’architettura, portando così a compimento questa unione a lungo rimandata.

Molti anni dopo, ormai premiato dal successo, Gehry ricorderà questo momento affermando: “Non sapevo di voler diventare un architetto fino a quando non cominciai a frequentare alcuni corsi di quella scuola”.

Alla fine della sue esperienza didattica, Il giovane architetto conosce Raphael Soriano, un affermato professionista del luogo e precursore dell’architettura dell’acciaio e dell’alluminio: è il primo maestro del ragazzo di Toronto, gli insegna  le caratteristiche di questi nuovi materiali e in pratica fornisce a Gehry il materiale ideale per dar forma alle sue idee; è il primo passo di un cammino brillante, fruttuoso e talvolta controverso che continua ancora oggi.

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Santa Monica Place, Los Angeles

Uno tra i suoi primi progetti a distinguersi nel panorama artistico-architettonico internazionale è il Santa Monica Place (costruzione terminata nel 1980), curato da Gehry per conto dello studio Victor Gruen & Associates presso cui lavorava a quel tempo, e caratterizzato dall’uso del “chain-link”, un materiale solitamente usato per le recinzioni e derivato direttamente dalle esperienze fatte nel negozio del padre e dal sodalizio con Soriano.

Questo progetto, benché non sia tra le opere più celebrate, è fondamentale per capire il pensiero che soggiace al personaggio contemporaneo, e spiega in maniera evidente quale sia (o quanto meno quale sia stato) il suo modo-pensiero di comporre edifici: il “chain-link”, scelto con cognizione dallo stesso Gehry, è un materiale povero, è un materiale che non abbisogna di particolari processi produttivi, di manutenzione esasperata né di manodopera qualificata per il montaggio: è in tutti i sensi un materiale “democratico”, ed è proprio questa la chiave necessaria per poter comprendere il Gehry primigenio, ovvero la “democrazia progettuale”.

«La democrazia dice che ogni persona viene coinvolta nello sviluppo della città, ed io ci credo veramente; è importante e più edificante collaborare con altre persone piuttosto che fare tutto da soli»: questa frase venne pronunciata dall’architetto canadese quando gli venne domandato se non fosse frustrante doversi limitare a progettare solamente alcune parti di città in luogo del tutto, ed altre testimonianze ancora confermano che questo modus operandi è stato per Gehry fondamentale nella sua formazione professionale.

Si confrontava non solo con i suoi collaboratori e con i clienti, ma anche con artisti, investitori, agenti immobiliari e altre e svariate figure professionali, convinto che dal processo di proposta e reazione scaturissero risultati di gran lunga migliori che non da una progettazione individuale, arrivando a criticare alcuni colleghi che secondo lui pensavano di «dover sedurre i clienti con le loro idee e convincerli della validità di ciò che avevano fatto», non accorgendosi invece di «quanto fosse importante parlare direttamente senza cercare di fare apparire le cose come in realtà non sono», sostenendo infine che «se i clienti vogliono giocare con te, non devi essere preoccupato, lasciali giocare e diventeranno ottimi partners per il progetto».

Gehry è dunque in principio un architetto “democratico”, e le testimonianze riportate, tratte da interviste concesse da alcuni professionisti avvicendatisi nelle collaborazioni durante i primi progetti, si sono rese necessarie per “spiegare” gli aspetti più controversi dell’archistar contemporanea, per la gran parte un personaggio costruito in seguito sulla scorta dell’enorme successo conseguito e che ha probabilmente occultato il suo lato più umano.

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Chiat Day building, Los Angeles

Per quanto riguarda invece l’aspetto prettamente professionale, i primi anni di carriera angelena hanno visto Gehry misurarsi con numerose tematiche progettuali: oltre al già citato Santa Monica Place, pregevoli sono anche la residenza personale dell’architetto, la sede della Loyola Law School (costruzione terminata nel 1991), il California Science Center (costruzione terminata nel 1984) ed il Chiat/Day Building (costruzione terminata nel 1991), nei quali è ben evidente la dimestichezza di Gehry nell’uso dei materiali “ereditati” da Soriano e la grande capacità di assemblare spazi dinamici e scultorei, benché questi edifici siano ancora lontani dall’incarnare quella che è probabilmente la sua vera e propria essenza architettonica, che farà la sua comparsa soltanto qualche anno dopo.

Come accennato, le architetture di Gehry sono vere e proprie sculture, dove il dinamismo e la plasticità degli elementi e delle componenti si fondono per creare degli “oggetti” di incredibile varietà e sinuosità, fruibili a 360 gradi nella loro interezza e che portano negli interni questa stessa inconsueta e apparente incongruenza.

Ed è proprio su questo aspetto che si gioca l’intera partita del Gehry architetto: il momento in cui nascono le critiche più feroci e le lodi più appassionate, ovvero il momento in cui l’architetto muta e diviene artista, in cui slega forma e funzione e rompe quella che è, in architettura, una tradizione sacra e antica, interrompendo così ogni comunicazione tra interno ed esterno, portando a compimento quello che probabilmente è sempre stato il suo vero obiettivo e giungendo a fondere ciò che prima d’ora non era mai stato unito, e cioè l’arte plastica della scultura con l’architettura. Gehry non posiziona più gli spazi dove la ragione suggerirebbe, ma assembla le forme come accadeva in un buio magazzino di Toronto quando lui, ancora bambino, sognava un futuro da giocatore di hockey, proponendo al mondo un prodotto che non aveva mai visto, una scultura da vivere, da abitare e da utilizzare.

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Vitra design museum, Weil am Rhein

Gehry “scarabocchia” le sue opere, e già a partire dal Vitra Design Museum (costruzione terminata nel 1989) in Germania si può avvertire che la svolta artistica è vicina: i muri non sono più diritti e l’ortogonalità delle forme è stata sovvertita, le curve non sono regolari e il dinamismo delle forme inizia a essere evidente.

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Weisman art museum, Minneapolis

Il primo edificio che Gehry realizza interamente con la tecnica dello “scarabocchio” è però il Weisman Art Museum di Minneapolis (costruzione terminata nel 1993), che è anche il primo progetto costruito interamente in titanio e vetro, aspetto che rende oggi immediatamente riconoscibili le opere dell’architetto canadese.

Nel Weisman Gehry prova per la prima volta a mostrare alla critica internazionale il suo disegno più originale e sentito, sviluppando inoltre l’esclusiva e irripetuta tecnica della progettazione attraverso il modello anziché su carta, comportamento che prova ancor più l’importanza che la forma riveste per la sua architettura: nel suo studio infatti, si procede in maniera contraria rispetto a quanto accade presso gli altri architetti: è infatti il modello il primo strumento progettuale a cui viene poi adeguata la funzione, cosicché la creatività dell’artista possa liberarsi senza trovare alcun vincolo od ostacolo sul suo percorso.

Ma è il 1997 l’anno che consacra Gehry al Gotha dell’architettura, con l’inaugurazione del Guggenheim Museum di Bilbao, ovvero il momento in cui la creatività e il plasticismo trovano il culmine in una scultura vestita di luce capace di dare nuova vita a un’intera città; è il trionfo della forma e dello stesso Gehry, ed è probabilmente il momento in cui il capolavoro ingabbia l’architetto, in cui “l’allievo” supera il maestro, costringendolo a provare a ricreare più volte la stessa magia senza tuttavia riuscire a ripetersi, o forse è semplicemente il momento in cui Gehry viene implicitamente autorizzato a creare quello che più gli piace, e libero da ogni sorta di impedimento o imposizione si diverte a scarabocchiare le forme che più soddisfano la sua immaginazione.

 

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Sede della DZ-Bank, Berlino

 

Gli edifici del Gehry “maturo” sono opere di figura, sono ballerini, come a Praga (costruzione terminata nel 1995), o teste di cavallo, come a Berlino (costruzione terminata nel 2000), o navi con le vele spiegate che corrono verso l’oceano, e poco importa se i puristi della disciplina sostengono che questa sia l’opera di un folle, l’architettura di Gehry è fatta per stupire, ed è impossibile restare impassibili, sia in senso negativo che positivo, e questo è sicuramente un merito esclusivo di questo artista.

Probabilmente nel Gehry contemporaneo è difficile ritrovare tracce dell’”architetto democratico” degli esordi, o forse il Gehry degli esordi è servito solamente a mascherare lo spirito latente dell’architetto in attesa che quest’ultimo si sentisse pronto a rivelare a tutti il suo disegno più sincero in bilico tra follia, arte e architettura: di certo vi è che mentre nelle architetture più acerbe si può trovare una certa coerenza tra forma e funzione, si possono riconoscere forme pesate, pulite e lineari, nelle sculture mature, cui Gehry ha affidato per intero il suo messaggio, a una incredibile qualità della forma si contrappongono funzioni quasi del tutto incoerenti, giusto per rinnovare la critica più comune mossa alle sue opere. Tuttavia se considerassimo la forma essa stessa una funzione, ovvero se fosse da considerarsi alla stregua dei percorsi, della dimensione e della qualità degli spazi o della capacità di distribuire la luce negli ambienti, allora Gehry (e non solo lui) sarebbe legittimato a disporne nella maniera che più ritiene opportuna e a giocarci come più gli sembra corretto? 

Milano, 11 febbraio 2010

BIBLIOGRAFIA:

El Croquis 117: Frank Gehry 1987 – 2003, 2003

CBC Learning: “Adrienne Clarkson presents: Frank Gehry, architecture in motion”, 2001