Intervista a Cesare Macchi Cassia

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A seguito della mostra “La rivoluzione culturale. La Facoltà di architettura del Politecnico di Milano, 1963-1974“, pubblichiamo la prima di una serie di interviste a protagonisti di quella vicenda. A cura di Fiorella Vanini.



Fiorella Vanini: La sua età anagrafica la colloca all’interno di una generazione che si è laureata prima delle stagioni di contestazione. Giusto?


Cesare Macchi Cassia: Sì, mi sono laureato a ventisette anni, il 24 maggio del 1962. Il 26 maggio mi sono sposato.


FV: In che clima è avvenuta la vostra formazione?


CMC: La nostra formazione di architetti era influenzata dalla nostra formazione di cittadini, che risentiva del fatto di aver vissuto il dopoguerra e intravisto la guerra  di un paese falsificato dalla dittatura. Parlo dei riflessi di questi accadimenti sulla famiglia, sulla scuola, sulla città.

Sono nato a Milano nel 1935 e mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura nel 1955, dopo un curriculum scolastico assai specifico: ho frequentato otto scuole in sette località diverse, ho ripetuto la quarta ginnasio e la seconda liceo, avendo smesso di frequentare la scuola. Ho dovuto aspettare molti anni e avere molte conferme per ritenere lecito pensare che il contesto avesse avuto qualche influenza su una adolescenza disastrosa e, ai miei occhi, colpevole. Negli anni Cinquanta non erano pochi i giovani in situazioni simili alla mia.

Uscire da questa condizione, cioè in realtà dall’angoscia, era la cosa più importante, e la Facoltà, per chi come me non ha mai pensato di fare altro che l’architetto, fu insieme un punto di arrivo e di partenza. Lo era anche per altri, in quanto molti erano gli studenti coscienti, entro un numero ristretto di iscritti.

Il tipo e il clima della nostra formazione corrispondeva quindi a una realtà non raffrontabile con l’oggi. Così come per la società, e per la città. Ciò vale in ogni senso e direzione: noi eravamo più consapevoli e motivati, ma al momento della laurea non eravamo in grado di fare i progetti che i miei studenti sviluppano nel Laboratorio del terzo anno; eravamo forse più colti, avevamo letto di più e conoscevamo più Architettura e più architetture, ma non usavamo mezzi di rappresentazione più avanzati di quelli dei nostri docenti. Oggi gli studenti utilizzano strumenti non direttamente conosciuti dai professori anziani e più esperti: è la prima volta che ciò accade nell’insegnamento dell’architettura.

Poi tutto cambiava, ma nel biennio propedeutico la Facoltà ci appariva innanzitutto come un luogo in cui venivano insegnate le cose che ci si aspettava di dover conoscere: il disegno e il rilievo dal vero, la geometria come strumento per il disegno, l’analisi come fondamento della scienza delle costruzioni, alcune basi per il progetto. E la storia.


FV: Quali furono gli insegnanti determinanti nel vostro processo formativo?


CMC: La storia era in primo luogo la storia dell’Europa, poi del Movimento Moderno, e infine di ciò che l’aveva motivato e preparato. Ed era insegnata da Rogers, al di là della titolazione del suo insegnamento. Parlando di storia, egli cercava di spiegare a noi, senza essere riuscito a spiegarlo a se stesso, il fatto che solo nel 1943 egli avesse avuto coscienza della separatezza tra architettura e dittatura. In questa severa autoanalisi, nel suo ‘sforzo di lucidità non certo indolore’ egli era compiutamente vero, e credibile per noi.

Il rapporto con la storia era in tal modo il rapporto con la nostra vita di ventenni che avevano coscienza di ciò che era accaduto nel loro paese.

Noi frequentavamo il corso di Rogers ogni anno, e partecipavamo ogni anno al viaggio di architettura che organizzava e guidava. Io diventai amico del mio professore, e so esattamente cosa egli intende quando scrive che imparava dai suoi allievi. E infatti la stessa cosa vale oggi per me.  Si trattava di «… indimenticabili conversazioni, spesso veri scontri, incroci sorprendentemente generosi, sconcertanti o aggressivi di battute, di provocazioni, di confessioni, che cominciavano fin dal primo giorno in cui si conosceva Rogers come allievi…». Quando alla fine del biennio andai fuori corso, egli mi mandò a lavorare da Fry, Drew, Drake e Lasdun: erano anni nei quali per lavorare in Inghilterra gli architetti dovettero dichiarare che io non avrei tolto lo stipendio a un giovane inglese. Due giorni dopo la mia laurea, fu presente al nostro matrimonio.

Non vi è dunque alcuna possibilità di raffrontare il contributo formativo di Rogers con quello di altri docenti della Facoltà. Molti di loro erano onesti nel proporci il loro punto di vista e le loro conoscenze, ma nessuno esprimeva il mondo che speravamo ci aspettasse: non provinciale, elegante, internazionalista, bisognoso delle nuove generazioni.

Attraverso le sue stesse parole, noi avevamo coscienza che tra gli anni ’30 e ’50 Rogers, e altri con lui, avevano rappresentato la tragedia dell’architettura italiana. Si era laureato quando il fascismo era giovane come lui, e era cresciuto come architetto nella realtà di una dittatura che – diversamente dal nazismo – utilizzava il Razionalismo come strumento di affermazione della propria immagine sulle masse. Solo a 34 anni egli fu in grado, a guerra iniziata e persa, di riscoprire il rapporto necessario tra bellezza e democrazia, tra forma e cultura; e tre anni dopo – un battito di ciglia della storia – egli era uno degli artefici dell’affermazione dell’architettura italiana in Europa. E lo considerammo, “in un senso molto profondo ma molto complesso, e forse non definitivamente decifrabile, il nostro maestro, anzi l’unico maestro diretto”.

Se pensiamo che Rogers più volte descrisse come tratto unificante dei suoi maestri la fusione dei problemi estetici con quelli d’indole etica, verificabile nella loro vita oltre che nelle opere, possiamo comprendere la tragedia di cui egli fu parte, e della quale ci metteva al corrente con la sincerità che derivava dalla sua cultura.

E quando i BBPR avevano oltrepassato il culmine della loro parabola espressiva, Rogers commissionò al più giovane dei suoi assistenti, Ezio Bonfanti, la stesura di una monografia. Quasi a chiedere a un trentenne di quegli anni – un attimo prima che il non chiarimento di quella tragedia caratterizzasse il Sessantotto in Facoltà – una riflessione su ciò che era avvenuto, sul ruolo che il suo gruppo vi aveva avuto, e sulla incapacità di trarne una lezione che evitasse una nuova tragedia. Ezio era ben conscio di questa sottesa richiesta di Rogers. Per sua scelta l’occasione si trasformò in un testo che osservava la cronaca dell’architettura del ‘900 nello specchio del lavoro dei BBPR. Un lavoro che conteneva una dose eccezionale di esemplarità, avendo registrato e trascritto il variare delle stagioni nel nostro paese. Un lavoro che doveva essere letto alla luce della nuova tragedia che si andava preparando negli anni in cui ‘Città, museo e architettura’ fu scritto: dalla fine dei Sessanta al 1973.

Anche per merito di Rogers, nei tre anni successivi al biennio – nel mio caso quelli tra il ’59 e il ’62 – gli studenti della Facoltà divenivano molto diversi, e la consapevolezza della rottura tra potere e cultura nella scuola era compiutamente presente. Il fatto che “il nostro maestro” non venisse riconosciuto come tale dalla Facoltà, che gli negava il ruolo che gli competeva, dimostrava quanto la tragedia fosse incompiuta. Portaluppi preside, in continuità con gli anni del fascismo, preparava la nuova tragedia che divenne tale proprio a causa della incompiutezza della prima. Ed è inutile ricordare che quella carenza rendeva improponibile anche ogni lettura del suo contributo di progettista all’affermazione dell’architettura come costruttrice di Milano.

Intanto a Roma Piacentini terminava la costruzione dell’EUR, alla quale era stato richiamato dalla Repubblica.


FV: Che rapporto avevate con il mondo professionale?


CMC: I rapporti erano di due tipi: di lavoro, e di riferimento culturale. La sovrapposizione era resa possibile dalla specificità di quella stagione milanese,  dalla compresenza di una medesima qualità nella professione, nella ricerca e nell’insegnamento. La maggioranza degli studenti frequentava gli studi professionali dall’anno di fuori corso, seguente per molti il biennio. Nel mio caso, all’esperienza inglese seguì quella presso due studi milanesi, Pagani e Tintori, poi all’ILSES, l’Istituto Lombardo di Studi Economici e Sociali, e infine il lavoro personale. Due mie architetture sono state  progettate prima della laurea.

Il mondo professionale affermava l’architettura italiana in Europa in quanto era in sintonia con la capacità culturale e socio-economica della città. In quegli anni le architetture della residenza borghese – di Asnago e Vender, Caccia Dominioni, Magistretti – registravano le ultime occasioni di costruzione della città attraverso la rappresentazione di una cultura civile: la riconoscibilità attraverso la qualità, la delega all’architetto per la definizione dell’individualità di un gruppo sociale. Gli acquirenti di questa residenza si allineavano lungo le vie della città denunciando per l’ultima volta il loro interesse per la qualità urbana dal punto di vista fisico e sociale. Contemporaneamente si registravano fatti capaci di provare ulteriormente il ruolo profondamente urbano della residenza milanese. Da un lato furono senza futuro i tentativi di città nuove – San Felice, Milano 2, Milano 3 – in quanto residenza senza città; dall’altro il centro storico decadeva dal suo compito e dalla sua qualità civile per l’intera città, a causa dell’abbandono residenziale conseguente alla terziarizzazione: il processo fu causato dalla incapacità tutta milanese di edificare nella qualità nuove parti di città che non fossero residenziali. Si realizzò con ciò una totale perdita di riferimento urbano per gli abitanti della periferia e in generale per i cittadini meno abbienti.

Da parte sua il mondo universitario negli stessi anni aveva un ruolo trainante. Come nel caso della Bocconi è interessante il lavoro nel campo dell’economia applicata, quasi che nella particolare cultura milanese questa disciplina si affermi con forza se intesa come fondamento della vita produttiva e di scambio, nel caso del Politecnico è interessante l’importanza che la fisicità – dei prodotti così come della città – assume nella compresenza di architettura e ingegneria.

Nel decennio ’55-’65 il Nobel a Giulio Natta per l’invenzione del Moplen tra i polimeri fu strettamente connesso alla alta qualità estetica dei nuovi prodotti che gli architetti disegnarono cogliendone la flessibilità d’uso, e alla loro diffusione di massa da parte dell’industria.

È di questa atmosfera che gli studenti di architettura comprendevano l’importanza e l’utilità, discendendo le opportunità della sovrapposizione di professione, ricerca e insegnamento dall’impegno a non vedere una azione meno impegnativa e civilmente importante di altre.


FV: Come ha vissuto le stagioni che la Facoltà di Architettura di Milano ha attraversato fino agli anni Settanta?


CMC: Con sentimenti diversi nelle differenti stagioni. Il primo: di naturalità per i fatti che stavano avvenendo appena lasciata la Facoltà, vedendoli come il tentativo di portare a conclusione la tragedia dell’architettura italiana tra gli anni ’30 e ’50.

Il secondo: di distacco critico da ciò che si consolidava in forme sempre meno spontaneamente elaborate, incapaci di difendere una dimensione di autonomia per la cultura architettonica italiana e di intendere l’architettura come strumento dotato di valenza civile. Atteggiamenti, questi, indicati da Bonfanti come “ideologia dell’abdicazione”.

Il terzo: di delusione, via via che maturava la consapevolezza che ciò che avveniva veniva delineando una seconda tragedia per l’architettura italiana. Nella prefazione del dicembre ’72 a ‘Città, museo e architettura’, gli autori scrivono: «Per noi…è forse più urgente cercare in primo luogo di leggere la storia, e in particolare la nostra storia recente, un coagulo di fatti e di idee e di speranze che chi le ha vissute descrive a volte con la metafora di ‘sostanza di cose sperate’, ma anche in riferimento alle circostanze in cui quella speranza era stata formulata, con quella di una uscita da un “utero sozzo”. Vediamo ogni giorno più chiaramente che l’esperienza del fascismo minaccia di non essere affatto un mero ricordo».  Quanto questa affermazione significhi per un giudizio di responsabilità nel nascondere la modernità, applicato ai modi e ai risultati di quella stagione, viene messo in luce dalla situazione italiana dei nostri giorni.

Allora io andai a lavorare a Venezia come assistente di Giovanni Astengo allo IUAV, Ezio dopo la morte di Rogers ottenne un incarico alla Facoltà di Pescara.

Gli anni ’70 costituirono dunque un periodo cruciale dal quale derivarono potenzialità e confusione. Per quanto riguarda la Facoltà di Architettura, in quegli anni perse forza la capacità di comprendere la realtà attraverso il progetto, e la corretta contestazione all’intellighenzia e alla politica per la loro insufficienza di fronte ai mutamenti non rifletté la capacità e la volontà di interpretare la società e i suoi spazi di vita. La contestazione si rappresentò come antimoderna negando il ruolo della proposta nel comprendere i problemi attraverso il tentativo di risolverli. E le sue posizioni furono strumentalizzate, in assenza di sufficienti elaborazioni.

Nel campo dell’architettura, cioè in un settore della cultura milanese che tanto aveva dato alla qualità della città, il risultato fu da un lato il rifugiarsi nella supplenza disciplinare e civile, dall’altro nell’auto-espressività, negando così valore alla dimensione etica dell’architettura. Arrivando a perdere – al termine del  processo – anche il significato politico espresso in termini propri. Una posizione, questa, non dissimile da quella vissuta oggi da chi presenta le pratiche del progettare come una limitazione dei traguardi cui l’architettura può aspirare, e dei mezzi attraverso i quali può conquistarli. In assenza di progetto, cioè di chiarezza, di riproducibilità, in definitiva di valore civile.

Ne è derivata la perdita del significato culturale della professione, e di seguito il decadimento del rapporto tra committente e progettista. Ciò ha contribuito fortemente al degrado civile, prima ancora che fisico, di Milano.

Da quegli anni ha perso forza la capacità di spiegare il mondo ai committenti dell’architettura attraverso il progetto. Come risultato della crisi sociale, l’interesse per il significato della residenzialità urbana e per il progetto a essa dedicato si perde, sia per le classi borghesi sia per le classi popolari. Le prime non sono più le attrici della costruzione dell’immagine della città attraverso le loro scelte residenziali, le seconde non sono più oggetto di interesse da parte di progetti urbani a esse dedicati. Tutto ciò costituì una perdita definitiva per la qualità civile e ambientale di Milano. Falsi miti portarono alla falsificazione di parti di città: la residenza popolare in Corso Garibaldi nel momento in cui venne abbandonata la politica della casa, mentre trionfava l’inautenticità dovuta a un modo di agire dentro la città storica per fratture insulse o timidi restauri equivocando sui termini di classe, tipo e morfologia, dimenticando i costi edilizi e la funzione collettiva delle opere, trascurando lo stile; la pedonalizzazione e la ghettizzazione commerciale; la astrazione dal mercato e la decadenza del centro geometrico del territorio urbano milanese in piazza del Duomo.

Luca Scacchetti nell’introduzione alla prima raccolta degli ‘Scritti di architettura’ di Bonfanti, scrisse: «Traspare alla fine sia un interesse preminente, l’architettura, sia una scelta generale e teorica, l’architettura come disciplina legittima e definibile… nel tentativo di contrastare il dilettantismo interdisciplinare e quelle fughe che facevano di ogni architetto un personaggio dotato di divina ubiquità, capace di essere dappertutto, di parlare, irresponsabilmente, di tutto meno che del lavoro che gli avrebbe dovuto competere…».

Aldo Rossi negli stessi anni disse: «Trovo più problematico l’altro passaggio, cioè quello che dall’impostazione analitica, dai dati, ci porta a esprimere e costituire una data forma, la quale poi interpreta e porta avanti la realtà».

Ai nostri giorni Marco Biraghi, nel suo scritto ‘La chance Bonfanti’ dice: «Chance intuita di poter…costruire la storia …, di poterla e doverla cambiare anziché limitarsi a viverla, a raccoglierla, a ricostruirla o a raccontarla soltanto».


FV: Ritiene che la Mostra contribuisca in modo positivo a una riflessione sul presente della Facoltà? Come?


CMC: Non penso che la Mostra in se contribuisca a una riflessione sulle Facoltà di architettura milanesi di oggi. Se non in modo provocatorio – credo non voluto dagli organizzatori – e, nel caso, limitatamente alla Facoltà di Bovisa.  Il mio giudizio ha alcune motivazioni.

In primo luogo non vi è possibilità di raffrontare la Facoltà e la città dove avvennero le cose descritte nella Mostra con quelle dei nostri giorni, né la condizione degli studenti per i quali la scuola ancora esiste. Questa considerazione va ben al di la dell’affermazione contenuta nella presentazione: «In poco o in nulla le Facoltà di Architettura odierne somigliano a quella che la mostra rievoca». È il rapporto dell’architettura con la città che è mutato, e quindi lo stesso significato della disciplina. Le cause sono quelle che – per quanto riguarda le nostre dirette responsabilità – ho messe a carico dei contenuti e dei risultati della contestazione degli anni ’70, indicandoli come la seconda tragedia dell’architettura italiana: la riduzione dei caratteri di autonomia e di persistenza; la perdita della capacità e della volontà di interpretare la società e i suoi spazi di vita attraverso il progetto; la perdita di significato politico espresso in termini specifici, e della stessa dimensione etica; la finale strumentalizzazione da parte del mercato e dell’amministrazione pubblica milanese.

In secondo luogo, la Mostra non offre una interpretazione di ciò che è avvenuto tra gli anni ’60 e ’70, né da parte dei giovani curatori né da parte degli anziani. Il risultato è ambiguo e fuorviante per gli studenti. Il titolo esalta questa ambiguità, che è una assenza di giudizio che sarebbe invece stato importante da parte di coloro che hanno ricercato quei fatti, quelle date, quei risultati. E perpetua – quel titolo – un parallelismo tra fatti storici incommensurabili, il riferimento ai quali offre la misura della nostra debolezza.

Infine, molto, e non “… poco o nulla lega il tempo presente agli anni ’60 e ’70…”. Ciò che di antimoderno esiste nella nostra Facoltà viene da quegli anni. E poco significa che ciò sia avvenuto per l’incapacità del potere di trasformare il passato in base a quanto di vero venne messo in luce in quegli anni, perdendo l’opportunità di portare a compimento la tragedia dell’architettura italiana tra gli anni ’30 e ’50. Infatti fu responsabilità dell’intellighenzia non riuscire a trasmettere in termini culturali le proprie visioni della contemporaneità. Essa abbandonò i propri strumenti, e perse il suo ruolo nella società.

Quanto è oggi simile la perdurante non volontà di leggere, e tentare di comprendere attraverso il progetto, la contemporaneità, da parte della Facoltà di Architettura Civile? Qui potrebbe stare il contenuto provocatorio che citavo per la Mostra. Una lettura in tal senso non viene suggerita al visitatore, anche perché essa avrebbe dovuto toccare il tema della presenza a Milano di due Facoltà, dopo trent’anni da quella stagione. E quindi il significato della perdita di unicità – di fronte alla città e all’Ateneo – della rappresentazione della disciplina nel luogo della ricerca e dell’insegnamento.

Diversi nel mio giudizio appaiono i brevi contenuti del Seminario cui ho partecipato il 23 novembre, dai quali è intuibile la possibile apertura di una discussione. Se la Mostra voleva essere un momento di ciò, allora essa potrà divenire strumento per “una riflessione sul presente della Facoltà”.

Il “come” con cui termina la vostra intervista sta nel senso di necessità che i più giovani di Bovisa sentiranno, di capire perché la scuola dove hanno deciso di lavorare sia fatta così. Capito ciò, sarà compito loro, ma anche loro possibilità, risolvere in un solo gesto due tragedie incompiute. Tutti quelli che le vissero, in parte o in toto, con verità o strumentalmente – comunque, tra di loro, alcuni maestri di due generazioni – non potranno più influenzarli: ci sarà solo la Storia.

Le mie risposte a questa intervista vuole spingerli a quella necessità.


Milano, gennaio 2010