Mendini e la gerontocrazia italiana

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Alcune considerazioni sul nuovo direttore di Domus

di Silvia Micheli


Si legge su Domusweb che «Alessandro Mendini torna a firmare Domus dal numero di aprile [2010]. Il suo ritorno alla testa della rivista segue la scadenza naturale del triennio alla direzione di Flavio Albanese». Dal 2011, spezzando curiosamene il ritmo del cambio di direttore, sarà invece Joseph Grima a dirigere la storica rivista italiana, fondata a Milano nel 1928.


Oltre a intrattenere ottimi rapporti a livello nazionale e internazionale con le principali istituzioni di architettura e design, Mendini vanta una consolidata esperienza nel campo editoriale. Egli è infatti caporedattore di «Casabella» dal 1965 al 1970, quando la rivista è diretta da Bernasconi. Nel 1970 ne diviene direttore sino al 1975. In questo lasso di tempo Mendini, coadiuvato da un folto gruppo di validi architetti e critici tra cui Giovanni K. Koening, Andrea Branzi, Achille Bonito Oliva, intende il mensile sia come necessario “progetto politico”, operando un’aspra critica all’establishment borghese, sia come sperimentale “progetto culturale”, sostenendo con convinzione l’attività dei Radicals. Grazie alla sua direzione, sulle pagine di «Casabella»  trovano posto i progetti e i manifesti di Archizoom, Superstudio, UFO, Ugo La Pietra, Ettore Sottsass e tanti altri importanti esponenti della “controcultura” italiana. Nel 1976 Mendini fonda «Modo», che dirige sino al 1979  e nella quale vengono perseguiti, anche se più blandamente, gli obiettivi già fissati durante l’esperienza di «Casabella». Nel 1980 Mendini passa alla direzione di «Domus» sino al 1985.


Eppure, nonostante gli incontestabili meriti professionali di Mendini, è inevitabile domandarsi: secondo quale criterio la scelta del nuovo direttore di «Domus» è caduta su un esponente del mondo culturale italiano che ha già lavorato per decenni nel settore delle riviste nazionali; che ha avuto modo di sostenere, e interpretare, le “utopie” di un’intera generazione; che ha orientato il dibattito italiano e internazionale durante gli anni ‘60, ’70 e ’80 e che ha già definito una parte consistente della storia di «Domus»? Per quali motivazioni non eleggere come successore di Albanese direttamente Joseph Grima, anziché confinarlo alla gestione della relativa, ma parallela, pagina web? Perché aspettare 11 numeri?


Joseph Grima, è un giovane architetto (1977) che si laurea nel 2003 all’Architectural Association di Londra e ha un curriculum eccellente. Dal 2003 è consulente alla direzione per la rivista Domus e dal 2006 è direttore dello Storefront for Art and Architecture di New York. Collabora con varie testate fra cui il Sole 24 Ore, Tank, China Art Review, ScoopWWD e Revista BASA. Visiting critic all’Architectural Association, a Yale e alla Trondheim Academy of Fine Art, dal 2005 è dottorando al Centre for Research Architecture del Goldsmiths College di Londra.


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Le motivazioni di questa strana vicenda editoriale sono rintracciabili sullo stesso sito ufficiale di «Domus», dove si legge che il nuovo direttore, Mendini, «sarà una guida capace di coniugare innovazione e continuità, per una testata storica che intende riaffermare la propria originaria vocazione. Un largo consenso si concentra intorno al suo nome…». Una titubanza, dunque, sulla difficile scelta di rinunciare alla continuità, alla garanzia di una situazione consolidata in nome del tanto temuto, quanto necessario, “cambiamento”. Esso verrà raggiunto gradualmente, in un lasso di tempo in cui i’autorevole “maestro” istruirà il giovane “allievo”.


Eppure in un momento così critico culturalmente – e non solo – come quello che l’Italia sta vivendo, forse la scelta di Grima come nuovo direttore di Domus avrebbe rappresentato uno sferzante segnale di ripresa, positivo, addirittura paradigmatico. A fronte di direttori “secolari” come nel caso di «Lotus» e «Casabella», «Domus» ha tenuto un ritmo di ricambio serrato e ha scelto direttori che hanno tentato di proporre progetti culturali alternativi e innovativi – si pensi, ad esempio, alle diversità che intercorrono tra la direzione di Flavio Albanese (1951) e quella di Stefano Boeri (1956). La strana scelta di Mendini (1931) riafferma ancora una volta la persistenza di un rigidissimo sistema gerontocratico, reazionario, di resistenza al “cambiamento”.


Se è vero ciò che Mendini va affermando: «Lo slogan di questa nuova Domus è “per una nuova utopia”» forse egli stesso avrebbe dovuto fare un passo indietro, non accettare l’incarico e sostenere la candidatura e l’approvazione immediata di Grima a direttore. Infine, se Mendini usasse in senso proprio il tanto sbandierato, allo stesso tempo usurato termine “utopia” – inteso come proiezione nel futuro di un’idea – allo stesso modo di quanto aveva fatto nel glorioso mandato di «Casabella» negli anni ’70, saprebbe che aver accettato l’incarico a direttore di «Domus», anche se si tratta di soli 11 numeri, costituisce già un’occasione persa.

 


Milano, 18 marzo 2010