Una vita da architetto… sulla Luna

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di George Fats

Quanto più l’architettura contemporanea con la sua straordinaria quantità e pluralità di forme, le più irrazionali e inconsuete, si è allontanata da tutto ciò che serve a identificare una costruzione come un’architettura, tanto più mi è sembrato doveroso intervenire, in quanto architetto razionale, contro questa tendenza.
Assistere a questa trasformazione mi ha spinto, per puro istinto di conservazione e per totale incompatibilità con quello che vedevo affermarsi, a ignorare questo delirio collettivo come se non esistesse e a confrontare il mio lavoro esclusivamente con quelle opere che, a partire da un’idea d’architettura a me più comprensibile, avevano dato la loro risposta ideale a problemi che anch’io avrei dovuto affrontare.

Piuttosto che appartenere a dei gruppi o a delle fazioni, che pure mi avrebbero fatto sentire spalleggiato e più forte, ho preferito –  senza per questo sentirmi isolato – restare in disparte; non ho infatti quasi mai stabilito speciali rapporti coi miei colleghi ma non li ho mai neanche considerati dei rivali, forse perché convincevo me stesso che il mio lavoro fosse in fondo diverso. Ho sempre cercato di costruire i miei rapporti il più lontano possibile, dove non si ponesse l’assillante problema delle rivalità, dove non fosse obbligatorio sottostare alle invidie e alle logiche interne che prosperano nelle accademie. Probabilmente proprio perché non mi sono mai curato di coltivare i miei rapporti in base alla loro opportunità, mi sono spesso attirato delle antipatie che mi hanno creato spiacevoli e spesso inutili tensioni. Per questi e per molti altri motivi, dopo tanti anni e un distacco sempre più marcato da tutto quello che governa i miei rapporti di convivenza, non sono mai riuscito a considerarmi un collega fra tanti apprezzabili colleghi.

Per me tuttavia questo disagio, e la sofferenza e l’insofferenza che ne derivano, dipende da quella libertà assoluta di agire che gli architetti si sono presi, per poi accorgersi di non sapere come e perché farne uso; dipende da quella vera e propria corsa allo scempio che è diventata l’affannosa corsa a superarsi, facendo cose assurde, le più sconsiderate, per poi accorgersi alla fine di aver prodotto dei pezzi unici tutti tragicamente uguali, proprio per quel loro comune e ormai insopportabile obiettivo di sperimentare per eccesso e in ogni direzione.

(10.03.2010)