A Francesca Woodman

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di Linda Stagni

In una penombra contemplativa a Palazzo della Regione di Milano sarà presente fino al 24 ottobre 2010 l’opera di Francesca Woodman. In un’esposizione – fin troppo rigorosa – si lascia interamente spazio alla percezione dell’opera dell’artista presentata, nelle fasi più salienti e significative, da 116 fotografie, 5 video e una riproduzione dell’esposizione “Swan Song” del 1978. Sono presenti le fotografie realizzate a Boulder nel Colorado, la serie di Providence, le opere di New York, e le realizzazioni di Roma.

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David Levi Strauss nel suo “Politica della fotografia” dedica un intero saggio a Francesca Woodman (1958-81). Oltre a collocare l’opera dell’artista in un ragionamento più ampio sulla fotografia, sull’immagine e sul suo potere, ne dà un’interpretazione tra le più profonde, cogliendo la natura del suo agire. Dando e trovando indizi all’interno delle immagini ricostruisce e ricompone «l’investigazione» della Woodman, definendola tale nonostante la sua incompletezza. «Essendo cresciuta con genitori e amici artisti, Francesca Woodman conosceva molte cose su come funziona l’arte, cose che un giovane artista ci mette metà della sua carriera a scoprire (o a riscoprire): che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, che il fare ha una sua logica alla quale bisogna attenersi, che le idee valgono poco mentre realizzarle vale tanto, che l’arte è un “lavoro” che fa parte di un processo di creazione, che la vita è breve ma l’arte dura per sempre.» [D. Levi Strauss]. 

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La vita di Woodman finisce prematuramente qualche giorno prima del suo ventitreesimo compleanno; nonostante ciò lascia un corpus notevole, compatto e sfaccettato, di fotografie. Le sue opere dimostrano una dimensione di coscienza del potere dell’arte che più precisamente Woodman dimostra nel relazionare l’osservatore al soggetto osservato. Concretamente le sue fotografie, e dunque la sua immagine, catturano – hanno il potere di catturare – il nostro sguardo. 

Al di là di ciò, oltre la superficie proiettante e all’interno dello spazio fotografico, si percepisce che le fotografie non sono chiuse né ferme. Il rapporto in cui inseriscono il “sé-narrante”, il “sé-osservato” e il “sé-osservatore” lascia un decisivo spazio di azione allo spettatore. Siamo testimoni di un processo non di una rappresentazione: assistiamo a un’analisi, uno smascheramento piuttosto che a una messa in scena. Ma soprattutto la nostra attenzione è tenuta in sospeso dal passaggio tra le “tre” Woodman: è un effettivo movimento continuo e rapido fermato nella fotografia. Cosa attrae guardando la fotografia Senza Titolo dell’autunno 1976 di Rhode Island? Francesca Woodman è seduta in un angolo della stanza su una sedia bianca, nuda mentre sul pavimento in fronte a lei la sua sagoma è visibile per negativo dalla polvere bianca che copre il pavimento. Non è casuale lo sguardo di lei che guarda nella camera e guarda dunque se stessa fotografa.

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Più genericamente nell’opera della fotografa la dimensione è familiare e intima: l’autoritratto avvicina l’artista al suo pubblico. Qui il rapporto è ambiguo: lei è parte fondamentale di ogni sua stessa creazione, mentre noi siamo sottoposti a un’indiscreta visione del creatore all’opera. In questo porsi davanti all’obbiettivo concretizza se stessa e fa ciò che l’arte richiede: di essere creata. Ogni sua fotografia è la sintesi di un sistema più complesso che riguarda ogni piano dell’arte: il soggetto agente, lo spettatore, la vita reale e quella costruita. La tensione riesce anche grazie a una sintesi particolare: il bianco e nero, di cui si priva rare volte, è perfettamente inserito nella logica di sintesi, di processualità. Lo spettatore non può ritornare nel momento dello scatto ma è possibile un avvicinamento, una tangenza: grazie alla presenza di elementi indiziali. Accenna, dà spunti e indizi per una ricostruzione mentale della geografia dello spazio reale in un colore che non può confondersi e immedesimarsi con quello della realtà.

I sistemi prodotti, complementari e congiunti al soggetto-woodman, rappresetano un soggetto che è vero, è vivo, è l’artista. Anche le scene sono “vere”: nella maggior parte sono spazi interni, a Roma, a Providence, a New York, che si contrappongono agli spazi aperti e naturali, come nelle fotografie realizzate a Boulder nel Colorado e a Peterborough nel New Hampshire. La scena è tanto viva da confondersi col soggetto vivo anch’esso: troviamo cortecce di betulla che avvolgono la Woodman , come anche vernice, terra, armadi, carta da parati con i quali confonderla. Ciò che attrae è una forza compositiva dell’immagine. 

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Entrando sfrontatamente nella dimensione dell’osservatore – in quanto deve fotografare se stessa e osservarsi allo stesso tempo, studiare un’inquadratura – crea un’attività di sguardi che impone un vero e proprio esercizio. Visitare questa mostra si dimostra un’azione, oltre che un’esperienza di “libertà/respiro dello sguardo” che poche volte ci viene offerta dall’arte, e ancor meno da esposizioni didatticamente costruite per essere percorse a senso unico. In un momento in cui anche i più importanti fotografi lamentano un utilizzo improprio – nonché uno sfruttamento della propria immagine autoritratta da parte dei giovani artisti – l’opera di Francesca Woodman può insegnare molto su cosa guardare e come farlo, utilizzando sempre, o quasi, il proprio corpo come soggetto prediletto. Indiscutibilmente troviamo nella sua opera, e nel suo corpo, una libertà di indagine, di appiglio a qualcosa di differente dalle convenzionali immagini che siamo abituati a consumare: un’abilità difficilmente raggiungibile.


Milano, 3 settembre 2010