Dino Gavina, Lampi di Design

di Caterina Verardi

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«La produzione è il mezzo di comunicazione più efficace del nostro tempo, un mezzo che può essere usato come veicolo di stupidità o di civiltà.

La macchina che produce si configura così come un’arma meravigliosa o terribile e chi ne dispone ha il dovere di capire che cosa sta facendo.

Sappiamo con certezza che l’equilibrio psicologico dell’uomo dipende in gran parte dalle influenze dell’ambiente.

Chi allora decide per l’urbanistica, l’architettura, i luoghi pubblici, la segnaletica, i mobili, gli oggetti, ecc… deve acquistare la consapevolezza che gli uomini stanno lentamente e collettivamente impazzendo anche perché le loro città, le loro case sono diventate antiumane. La bruttezza e lo squallore delle piccole cose con cui viviamo a continuo contatto ci pongono in uno stato di costante disagio e tensione. Il quotidiano contatto con gli uomini, mi convince sempre più della profonda crisi creativa che coinvolge pressoché tutte le strutture.

Sento però che il mio tempo e la mia società (malgrado l’apparenza tanto deludente) sono piene di fermenti. Mentre da un lato esiste una incessante richiesta di nuove idee, d’altro lato incontro sempre qualcuno ansioso di potere sviluppare in piena libertà un suo progetto, un suo sogno, un suo incubo. Se tutti questi fermenti divenissero operanti, potremmo dire di avere fatto un notevole passo avanti.

Per questo ho pensato di costituire un luogo d’incontro, un laboratorio, un punto dove sia possibile fare qualcosa che risponda a queste esigenze.

Mi rendo tuttavia conto che, considerata la generale indifferenza e la diffusa falsità in cui viviamo, il nostro programma nasce e dovrà crescere nella dimensione dell’utopia.

Ad ogni modo ho pensato di risolvere ogni incertezza nell’azione, incominciando a lavorare.

Il futuro ci dirà se l’utopia è destinata a rimanere tale o se non sia possibile trasformarla, anche parzialmente, in realtà».

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Queste parole, granitiche e taglienti, sono state pronunciate da Dino Gavina, l’industriale e il mecenate che, a partire dagli anni del secondo dopoguerra, ha contribuito in maniera determinante alla fondazione di quello che oggi chiamiamo “design contemporaneo”. Al suo lavoro il MAMbo (Museo d’arte contemporanea di Bologna) ha di recente dedicato un’ampia mostra retrospettiva.

A partire dagli anni ’50, Gavina inaugura la sua produzione con la Tripolina, una sorta di poltrona-archetipo in cui l’essenzialità degli elementi è riconducibile a un’ancestrale semplicità. Qualche anno più tardi, con Lucio Fontana come nume tutelare, l’industriale bolognese inizierà una stretta collaborazione con quelli che avrebbe poi definito i “bravi architetti”. Così, intorno agli anni sessanta, verranno realizzate la sedia Lierna, la poltrona San Luca, progettate dai fratelli Castiglioni, la poltroncina Pigreco di Tobia Scarpa e la poltrona Diagramma di Ignazio Gardella: creazioni che raccontano quel gusto neoliberty che negli anni del dopoguerra guardava all’elegante tradizione italiana d’inizio secolo con occhi avanguardisti.

La professione di Gavina si sviluppa ulteriormente intorno a un’eccezionale abilità di talent scout, alla ricerca di collaborazioni sempre nuove, in grado di nutrire un acceso dialogo tra creazione e produzione. In quegli anni avvengono gli incontri con Takahama e Breuer, con i quali, di fronte all’assenza di una lingua comune, è la passione per “i domestici progetti d’arte” a rendere salde due lunghe e fruttuose amicizie.

E ancora: Flos, sotto il cui nome Gavina chiama a raccolta “i bravi architetti” per creare le lampade che illumineranno le case dei “nuovi italiani”, e che ancor’oggi costituiscono passaggi inevitabili di un ideale itinerario creativo. Per citarne qualcuna Taccia, Toio e Arco (che “era bellissimo; era talmente bello che non lo volevamo fare perché era troppo retorico“), “best and long seller” di Achille e Piergiacomo Castiglioni, e Foglio e Biagio di Tobia  Scarpa.

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Nel ’69, dopo aver ceduto a Knoll International la Gavina spa, Dino si prende una breve pausa dalle severe regole della produzione per dedicarsi alla ricerca e alle sperimentazioni del centro Duchamp, libera associazione che ha lo scopo di avvicinare artisti, produttori e fruitori. Ma pochi anni dopo torna alla produzione e fonda la Simon International che, con la collezione Ultranazionale, segna il superamento del movimento moderno “secondo Dino Gavina e Carlo Scarpa”. Con la serie Ultramobile del 1971, volgendo lo sguardo verso i grandi maestri del surrealismo, realizza celeberrimi oggetti che ormai fanno parte del nostro arredamento ideale, come il tavolino Traccia, serializzazione di un’opera di Meret Oppenheim, la poltroncina MAgriTTA, mela e bombetta alla Magritte raccontati da Sebastian Matta, e lo specchio Les Grand Trans-Parent, benedizione impartita da Man Ray al prodotto del disegno industriale.

L’opera di Gavina è volta all’esplicitazione dell’intento demiurgico di istituire, attraverso una democratica fruizione dell’arte, un necessario pan-estetismo. Gli oggetti d’arredo sublimano il loro destino trasformandosi in simboli dell’abitare, in opere d’arte da vivere.

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E se la storia dell’uomo è anche la storia dell’incessante dialogo tra cultura e natura, allora Gavina nel 1983, negli anni dell’edonistico egoismo diffuso, intraprende una nuova missione: la Simongavina Paradiso Terrestre che realizza oggetti d’arredo per esterni: un immaginifico giardino delle delizie dove le sedute si articolano intorno alle forme prime del cono e della sfera, e i fiori sono disegnati dalla lungimiranza di una mente d’avanguardia come quella di Giacomo Balla, e sono realizzati in chiave ultrafuturibile grazie alla lucentezza dell’acciaio inox tagliato al laser.

Infine questo industriale “sovversivo”, alla costante ricerca di un nuovo ordine, dopo aver raccontato la bellezza diffusa decide, in collaborazione con Enzo Mari, di realizzare mobili che possono essere assemblati direttamente dall’acquirente. Con quest’azione, da interpretare come atto conclusivo del suo percorso nel mondo del design, Gavina pone l’accento non solo sull’eccezionalità dell’atto progettuale, e quindi del progetto, ma anche – e soprattutto – sulla possibilità di far nascere e di nutrire nell’esperienza del fruitore una coscienza critica progettuale.

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21 gennaio 2011