James G. Ballard su “This is Tomorrow”

«Nel 1956, lo stesso anno in cui pubblicai il mio primo racconto, andai a vedere una mostra straordinaria alla Whitechapel Art Gallery: la mostra si chiamava “This is Tomorrow”, “Questo è il domani”. Recentemente dissi a Nicholas Serota, direttore della Tate Gallery ed ex direttore della Whitechapel, che pensavo che “This is Tomorrow” fosse l’evento più importante per le arti visive in Gran Bretagna sino all’apertura della Tate Modern, ed egli non disse di no.

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Fra i suoi molti risultati, “This is Tomorrow” è considerata generalmente come l’atto di nascita della pop art. Una dozzina di squadre, che comprendevano ognuna un architetto, un pittore e uno scultore, progettarono e realizzarono altrettante installazioni che rappresentavano la loro visione del futuro. Fra i partecipanti c’era l’artista Richard Hamilton, che presentò il suo collage Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (Che cos’è che rende le case di oggi così diverse, così attraenti?), a mio giudizio la più grande opera di tutta la pop art. Un’altra squadra riunì lo scultore Eduardo Paolozzi e gli architetti Peter e Alison Smithson, che costruirono un’unità di abitazione umana in ciò che sarebbe rimasto del mondo dopo una guerra nucleare. La loro capanna terminale, come pensavo si potesse considerarla, stava su una chiazza di sabbia, sulla quale erano disposti gli attrezzi indispensabili all’uomo moderno per sopravvivere: un trapano, una ruota di bicicletta e una pistola.

Per me l’effetto complessivo di “This is Tomorrow” fu una rivelazione, e costituì una conferma della mia scelta a favore della fantascienza. La mostra di Whitechapel, e in particolare le opere di Hamilton e di Paolozzi, misero a rumore il mondo dell’arte inglese. All’epoca gli artisti  più apprezzati dall’Arts Council, dal British Council e dai critici accademici più in voga erano Henry Moore, Barbara Hepworth, John Piper e Graham Sutherland, che costituivano un mondo delle belle arti piuttosto chiuso e dedito prevalentemente alla sperimentazione formale. Nell’asettico biancore del loro immaginario da studio non brillava mai la luce della realtà di tutti i giorni.

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“This is Tomorrow” aprì di colpo le porte e le finestre che davano sulla strada. La mostra era leggermente sbilanciata in direzione di Hollywood e della fantascienza; per esempio, Hamilton aveva preso di peso Robby the Robot dal film Il pianeta proibito. Ma a Whitechapel per la prima volta il visitatore vedeva l’emergere di un immaginario sintonizzato sulla cultura visiva della strada, sulla pubblicità, sui segnali stradali, sui film e le riviste popolari, sul design del packaging e dei beni di consumo, un universo intero in mezzo al quale ci muovevamo tutti i giorni, ma che ben di rado spuntava nelle belle arti dell’epoca riconosciute come tali.

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Just what is it…? di Hamilton mostrava un mondo fatto interamente di pubblicità popolare, ed era una convincente visione del futuro che ci stava di fronte – il marito tutto muscoli e la moglie spogliarellista nella loro casa di periferia, i beni di consumo, come la lattina di prosciutto, considerati in quanto tali come decorazioni, l’idea della casa come elemento primario del circuito di vendita e di tutta la società dei consumi. Siamo ciò che vendiamo e compriamo.

Nell’installazione di Paolozzi il trapano posato sulla sabbia postnucleare non era solo un dispositivo portatile per scavare dei buchi, ma un oggetto simbolico, con proprietà quasi magiche. Se il futuro doveva essere costituito da qualcosa, questo qualcosa era un insieme di blocchi da costruzione forniti dal consumismo. La pubblicità di una nuova mistura per torta conteneva i codici che definivano il rapporto di una madre con i suoi bambini, imitati in tutto il pianeta.

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“This is Tomorrow” mi convinse che la fantascienza era molto più vicina alla realtà di quanto non lo fosse il romanzo realista convenzionale in auge allora, che fosse quello dei giovani arrabbiati coi loro risentimenti e i loro brontolii, o quello di romanzieri più “classici” come Anthony Powell e Charles P. Snow. E soprattutto, la fantascienza aveva una vitalità che il romanzo modernista non aveva più. Era un motore visionario che a ogni giro creava un nuovo futuro, un’automobile truccata che accelerava davanti al lettore, spinta da un carburante letterario esotico altrettanto ricco e pericoloso quanto quello che spingeva i surrealisti».

da James G. Ballard, Miracles of Life. Shanghai to Shepperton. An Autobiography, 2008 (I miracoli della vita, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 156-158; trad. it. di Antonio Caronia)


6 febbraio 2011