La qualità della città (sul PGT di Milano)

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In data 18 gennaio 2011 si è tenuto il Seminario sul PGT di Milano presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano. Tra gli interventi tenuti dagli ospiti presenti all’iniziativa si è distinto quello del Professore Cesare Macchi Cassia, incentrato sulla necessità di impegno etico-politico da parte degli architetti che concorrono, a diverso titolo, alla definizione delle trasformazioni della città. 

La qualità della città

Cesare Macchi Cassia

Mi è stato chiesto dagli organizzatori del seminario un contributo sul tema della qualità della città alla luce dei lavori e dei contenuti del nuovo piano di Milano.

Non vi è occasione più importante perchè una città rifletta sulla sua qualità civile, culturale e politica, che quella offerta dalla preparazione di un nuovo scenario di sviluppo. Milano attendeva questa occasione da trent’anni: tre decenni nei quali la città – ossia in primo luogo la società e l’economia, ma anche la fisicità – sono radicalmente mutate.

E’ di fronte alle potenzialità dell’occasione che va quindi valutato il riflesso che il Pgt può avere sulla qualità di Milano. Più che attraverso un giudizio sulle singole scelte del piano.

Per questo motivo io offrirò alla discussione alcune annotazioni sui modi con i quali i lavori e i contenuti del piano ci parlano della qualità della Milano di oggi, e possono contribuire a quella di domani. Ma vi è anche un altro motivo per la specificità del mio intervento: questo seminario si tiene all’interno dell’Università, un luogo dedicato alla ricerca e all’insegnamento,  ossia all’avanzamento disciplinare e alla trasmissione di un’etica professionale. 

Negli anni precedenti il Piano vigente, gli anni Sessanta, era proprio dell’intellighenzia italiana vedere l’impegno professionale e quello culturale come un tutto, e intendere questo impegno come il proprio contributo “politico” alla società e al Paese. 

In quegli anni Casabella di Rogers e Urbanistica di Astengo testimoniavano di una unitarietà culturale di fondo, e illustravano in Europa la specificità dell’apporto italiano al progetto urbano.  

Rogers, chiamato al Comitato nazionale di studi dell’INU presieduto nel ’57 da Samonà, affermava «…non essere sufficiente alcun discorso che consideri il processo storico dell’urbanistica solo individuando le relazioni formali esistenti, senza avviarle a nuove relazioni che implicano l’evoluzione delle forme». 

Astengo, a commento del suo progetto di maggior impegno e contenuto discilinare – il piano di Bergamo ¬– parlò del piano come del «… processo progettuale basato sulla insopprimibile invenzione delle grandi scelte spaziali, sulla percezione del senso dei luoghi e sulla costruzione, tutta mentale, di una nuova realtà spaziale». 

Queste parallele visioni da un lato mettevano in evidenza l’utilità della posizione progettuale come contributo all’avanzamento civile della comunità, dall’altro sottolineavano il ruolo fondamentale della forma al suo interno. Si trattava di percorsi insieme culturali e politici che rappresentavano il lavacro dall’idealismo seguito alla guerra e alla tragedia della sovrapposizione tra architettura razionalista e dittatura. L’astinenza dall’idealismo consentiva in quegli anni di affrontare la realtà a partire dal proprio ruolo, dalle proprie competenze, da un’etica personale che ordinava ogni azione e contributo.

Negli anni Settanta, l’atteso e desiderato ritorno alle facilitazioni dell’idealismo annullava l’impegno di due decenni e provocava la rottura tra cultura, professione e ricerca, portando alla perdita dell’etica del lavoro, e di conseguenza all’impossibilità dell’impegno politico attraverso le proprie competenze. 

Culture meno intrise di ciò che Philip Roth ha indicato, alla fine del ‘900, come “la terribile tentazione dell’idealismo” hanno sviluppato la riflessione sulle responsabilità degli intellettuali. In “Ho sposato un comunista”, Roth fa dire a Glucksman, professore di liceo di Nathan Zuckerman:  «Lei deve imparare a padroneggiare il suo idealismo, le sue virtù come i suoi vizi, a padroneggiare esteticamente tutto ciò che la spinge a scrivere: lo sdegno, la politica, il risentimento, l’amore! Cominci a predicare e a prendere posizione, cominci a trovare superiore la sua prospettiva, e lei non varrà nulla come artista….. Lei vuole ribellarsi alla società? Le dirò io come si fa: scriva bene». 

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Nei nostri giorni, in nessun modo un discorso politico viene portato avanti attraverso un impegno di qualità professionale. Un esempio che ci tocca da vicino e che cito con rammarico è quello del nostro collega che, presentandosi alle primarie per le elezioni comunali, ha dichiarato di voler abbandonare il lavoro di architetto. Non ritenendo di poter svolgere un ruolo politico attraverso la sua esperienza professionale, ha sentito la necessità di dare ai suoi potenziali elettori la garanzia di non sovrapporre i due ruoli. 

Una posizione questa  che non sarebbe stata pensabile per i nostri maestri degli anni Sessanta, per un chiaro motivo: essi perseguivano l’impegno civile in primo luogo attraverso la qualità e il significato etico del proprio lavoro. Anche quando, è il caso di Astengo, venivano assunte dirette responsabilità della cosa pubblica.    

Il Pgt di Milano è un parto dei nostri giorni: ha rappresentato nei lavori preparatori, rappresenta nei contenuti, e conferma con le osservazioni ufficiali che sta ricevendo, il livello qualitativo attuale della città. 

Il Pgt è un fatto tecnico che non riesce a divenire un discorso politico; da un lato non traspare dai suoi lavori una intesa tra amministratori e estensori, dall’altro l’impegno dei tecnici non è riuscito a spiegare agli amministratori cosa avrebbe dovuto essere un piano in grado di avvicinarsi ai problemi che Milano da anni si trova di fronte laddove essa vive. 

Come parlare del piano alla politica? Il P.g.t. non è stato steso dagli uffici urbanistici del Comune, ma da tecnici autonomi, esterni all’Amministrazione e da essa direttamente incaricati. 

Una Amministrazione che segue quelle che decisero di lasciare la città senza una riflessione progettuale sul proprio futuro e che produssero il Documento Programmatico teorizzatore del superamento del piano. Ma una Amministrazione che opera oggi in base alla nuova legge urbanistica regionale che fa propri alcuni dei modi tentati da molti di noi negli ultimi decenni per rendere più significativo il piano: la possibilità di introdurre progetti urbani entro il progetto del piano, la sostituzione degli standard con i servizi, la perequazione, e soprattutto l’invito a progettare il Piano dei Servizi – ossia la forma strutturale della città – a livello intercomunale. 

Parlare del piano alla politica significa assumere una posizione civile attraverso l’autonomia dell’architettura, e in tal modo offrire un contributo ‘politico’. 

Se leggiamo i documenti del Pgt, noi non ritroviamo quella assunzione di responsabilità rispetto al piano da parte della politica, che l’impegno dei tecnici deve innanzitutto  garantire. Non vi è individuato, nè ricercato il ruolo di Milano, e di conseguenza non è percepibile una innovata immagine della città. 

In questo senso il Piano denuncia le sue carenze qualitative, a partire dalla incapacità di  elevarsi al di sopra della scala locale, e quindi dal suo non parlare della Milano vera ai milanesi tutti.

La conseguenza e la verifica di ciò è che, nonostante le ampie quantà edificatorie messe in campo al momento di una adozione raggiunta solo con il consenso dell’opposizione, le osservazioni dei veri referenti dell’Amministrazione comunale – gli operatori immobiliari – denunciano in questi giorni l’impossibiltà di comprendere gli obiettivi del Pgt. La motivazione sta nella assenza di traguardi alti da parte del piano. Contro di essi nessuna parte della società potrebbe apertamente schierarsi, pena la auto-esclusione da un comune discorso. 

I giornali ci hanno informato che l’eterno Ligresti chiede di costruire dai margini della città consolidata fino al Cerba senza soluzione di continuità, come già fatto fino a Rozzano, annullando la continuità est-ovest del ParcoSud; Cabassi non è soddisfatto dell’edificazione che si ritroverà sulle aree dell’Expo, la prima Esposizione mondiale prevista su aree non pubbliche; le Società cui fanno capo le due squadre di calcio milanesi chiedono di avere mano libera nello sfruttamento delle aree circostanti lo stadio Meazza; le Ferrovie vogliono meno parco e più edifici di lusso sugli scali dismessi. 

Il tutto nella diffusa e verificata convinzione che queste capacità edificatorie non servono alla città in quanto non esiste per esse mercato, ma devono solo convincere le banche a rifinanziare i debiti accumulati dai developers. Il tutto nella consapevolezza che la risposta a alcune di queste richieste fatte al Comune, al di la delle risposte che verranno date, non sta nelle mani degli amministratori milanesi, ma in quelle della Provincia, responsabile dei Piani di cintura che coinvolgono le aree milanesi del Parco Sud.    

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Milano non è quella di cui parla il Piano, nè quella cui il piano parla. Milano deve riprendere il ruolo storico di sollecitatrice del suo intorno, affinchè possa continuare a esserne la capitale geografica. Milano non è una città, è sempre stata un territorio: oggi un territorio urbano. La sua parte più interna, quella entro i confini municipali, è solo un quartiere della città. Questo quartiere ha subito uno scadimento funzionale e qualitativo, e quindi è giusto occuparsene, e il Piano lo fa bene. Ma questo è solo uno dei problemi che oggi ha la città, e certamente non il più importante. Il Pgt appare infatti come un piano particolareggiato per questo quartiere, non uno scenario per la città. 

La qualità consisterebbe nel lavorare sul quartiere centrale a partire dalla città vera, disegnando l’interno a partire dall’esterno. Le occasioni sono molte: l’avvicinamento al tessuto del quartiere centrale dei due grandi parchi a settentrione e a meridione, il Parco Nord e il Parco Sud; le regole da fornire ai tessuti centrali tramite la relazione con le fasce verdi del Lambro a est, dei parchi e degli ippodromi a ovest; la presa di coscienza che le tre grandi strade metropolitane in costruzione da parte della Regione ¬– TEEM, Brebemi e Pedemontana – e la successiva Tangenziale Ovest Esterna disegneranno la forma strutturante della Milano dei prossimi anni; la messa in luce di una forma urbana contemporanea attraverso il disegno reticolare che si ottiene srotolando la fascia circolare costituita dal doppio anello dei grandi vuoti urbani e dalle radiali storiche; infine, l’utilizzazione della omogeneità politica di tutti i livelli istituzionali di governo del territorio urbano, dal Comune centrale alla Regione, dalle Province coinvolte a molti Municipi, per proporre un disegno coerente con la nuova dimensione culturale, prima ancora che fisica, della città contemporanea.  

Concludendo, io credo che il Pgt abbia poco a che fare con la qualità possibile di Milano. In ciò esso si affianca alla incapacità – da parte di imprenditori economici parassiti della città e non suoi costruttori – di andare al di là dell’edilizia per dimostrare i propri talenti.

Ma penso anche che la carenza di qualità della Milano dei nostri giorni sia rappresentata dalla nostra incapacità di capire quale responsabilità ci assumiamo come tecnici e uomini di cultura quando non comprendiamo a fondo la scena cui collaboriamo: sia essa quella del Documento direttore del 2000, del Pgt del 2010, dell’Esposizione del 2015. 

Quando, in definitiva, trascuriamo il valore politico del nostro lavoro di architetti.

Milano, 1 febbraio 2011