Pietro Derossi, L’avventura del progetto

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Pietro Derossi

LAVVENTURA DEL PROGETTO

Larchitettura come conoscenza, esperienza, racconto

a cura di Brunella Angeli

Franco Angeli

Collana di architettura (nuova serie) diretta da Marco Biraghi


L’opera di Pietro Derossi, dalla fine degli anni ’50 a oggi, ha affrontato la complessità del mestiere dell’architetto con un atteggiamento che unisce pratico e teoretico, materiale e mentale, concreto e astratto. Da tale attitudine scaturisce una capacità di penetrazione delle  cose dell’architettura che non perde mai di aderenza alla realtà, e che anzi continuamente si rivela capace di metterla in gioco.

I suoi saggi, raccolti per la prima volta in questo volume, affrontano i temi più concreti della professione dell’architetto: il rapporto con la committenza, la considerazione del contesto urbano, la materialità dell’edificio, il confronto con i fruitori. Nel loro insieme, tali saggi si rivolgono a chiunque ami l’architettura abbastanza da considerarla per quello che è, nella sua realtà, come qualcosa di complesso, di stratificato, di intimamente contraddittorio.

Derossi ha progettato edifici residenziali, abitazioni private, uffici, scuole, ha messo in relazione arte e spazio negli allestimenti per mostre e musei, ha dato vita a discoteche, ristoranti e numerosi oggetti di design. Oltre a ciò, ha intrecciato uno stretto dialogo con la filosofia ermeneutica. In nessuna circostanza tuttavia egli “idealizza” ciò di cui si occupa, siano essi pensieri o edifici. Piuttosto, tanto nelle sue opere quanto nel libro, egli ricorre all’ironia, ovvero alla capacità di guardare le cose da un altro punto di vista, rovesciandone – o quantomeno, innovandone – il senso. E proprio attraverso questa singolare capacità, Derossi riesce a trasmettere al lettore il “contenuto” più prezioso: l’entusiasmo per l’architettura.

Il volume, che traduce verbalmente l’esperienza da lui accumulata nel tempo, si delinea come una sorta di manuale dell’architetto, una “guida” non convenzionale, anti-dogmatica e ricca di spunti al difficile mestiere della progettazione. Non a caso, del resto, per l’autore – come attesta il titolo – architettura fa rima con avventura.


Pietro Derossi, architetto, è nato a Torino ed è stato professore ordinario di composizione architettonica alla Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano. Ha insegnato presso diverse università europee e americane. Ha preso parte a numerose mostre in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: Progettare nella città (1988), Modernità senza avanguardia, in «Quaderni di Lotus» (1990), Per unarchitettura narrativa. Architetture e progetti 19592000 (2000), Racconti di architettura (2006). I suoi lavori sono stati pubblicati sulle principali riviste nazionali e internazionali.

 

Brunella Angeli, architetto, collabora al corso di Storia dell’architettura contemporanea presso la Scuola di Architettura Civile del Politecnico di Milano. Fa parte di GIZMO, centro di ricerca di storia e critica dell’architettura, con cui nel 2011 ha realizzato la mostra “L’architettura che ti piace” presso il museo MAXXI di Roma. Ha redatto alcune voci per Architettura del Novecento di Einaudi, e scrive per diverse riviste su temi di design e di architettura contemporanea.

 

Introduzione di Marco Biraghi

Pietro Derossi, la cifra nel tappeto

Pietro Derossi è uno dei “padri” dell’architettura contemporanea italiana. Lo è al di là di questioni strettamente anagrafiche. Lo è in ragione dei progetti e degli edifici da lui realizzati dalla fine degli anni cinquanta ad oggi, così come pure per gli allestimenti, gli arredamenti e gli oggetti di design che egli ha prodotto nel corso dello stesso periodo. Ma lo è anche in ragione della costante presenza che la sua riflessione teorica ha fatto registrare nel panorama italiano e internazionale. A partire dalla sua partecipazione, con il Gruppo Strum, alla mostra Italy: the New Domestic Landscape, curata da Emilio Ambasz, svoltasi al MoMA di New York nel 1972. In quell’occasione Derossi, insieme a Giorgio Ceretti, Carlo Giammarco, Riccardo Rosso e Maurizio Vogliazzo, affronta tematiche impegnative e scottanti come la lotta per la casa, l’utopia e la riorganizzazione della città su basi politiche attraverso «una specie di giornale», un “fotoromanzo con documenti” in tre puntate, «una strana simbiosi tra l’avventura illustrata e il catalogo informativo del grande magazzino» (1). Una forma di comunicazione singolare e provocatoria, riconducibile a pieno titolo alla stagione “radicale” alla quale di fatto appartiene, ma a cui non è estranea neppure l’eco di uno spirito situazionista, dove si mescolano liberamente critica dell’ideologia e ironico riutilizzo dei linguaggi massmediatici.

Seguono una serie di scritti, non numerosi ma sempre estremamente densi e penetranti, che Derossi pubblica su riviste (“Casabella”, “Op. cit.”, “Lotus”, “Ottagono”, “Rivista di estetica”) e in volume (La città nella giostra del capitale, Edizioni Book Store, Torino 1979; Un progetto per l’Università, Edizioni Designers Riuniti, Torino 1983; Progettare nella città, Allemandi, Torino 1988; Modernità senza avanguardia, Quaderni di “Lotus”, Electa, Milano 1988; Pensieri nelle cose e cose nei pensieri, Guerini Studio, Milano 1993). Si tratta di saggi che affrontano le questioni progettuali, spesso anche nei loro aspetti più pratici e concreti, dove un ruolo determinante è rivestito dall’esperienza che Derossi è andato accumulando sul campo nel corso del tempo; e ciò nondimeno, sono saggi che si muovono avendo alle spalle – e di sovente al loro fianco, esposti in bella evidenza – solidi riferimenti ad autori “classici” della filosofia contemporanea: Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Hans-Georg Gadamer, Gianni Vattimo, Jacques Derrida, Paul Ricoeur, per citare i principali. Ed è proprio questo radicamento nel pensiero filosofico ermeneutico a costituire il fondamento essenziale del discorso di Derossi, e il contributo precipuo da lui fornito all’architettura italiana (e non solo). A fronte del frequente e generalizzato dogmatismo espresso non soltanto dalle correnti del pensiero architettonico modernista più “ortodosso”, ma anche dalla “seconda generazione” del moderno, soprattutto in Italia (per intendersi, la generazione dei Gregotti, dei Rossi, dei Grassi), Derossi persegue e diffonde un pensiero – e una prassi ­- della differenza.

Vale richiamare a questo proposito l’incipit del saggio di Heidegger, Il principio di identità: «Quando il pensiero, chiamato da una questione, la segue, durante il cammino può accadergli di mutare. Per questo è consigliabile […] prestare attenzione alla via, e meno al contenuto» (2). È precisamente a questa dinamica evolutiva, azzardata e imprevedibile, che il pensiero e l’architettura di Derossi si conformano: entrambi sensibili al divenire, ai tempi, ai luoghi, alle occasioni, al dialogo, agli “scarti” rispetto alla strada apparentemente segnata. In una sola parola, alla differenza vista come un valore capace di definire l’identità.

Identità e differenze è il titolo che Derossi dà alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, svoltasi nel 1996. Tema «inquietante», come lo definisce Derossi, destinato ad “aprire” il dibattito, e non certo a fissarlo, a cristallizzarlo in una forma rigida e assiomatica; tema critico, da “sviscerare” in tutte le sue implicazioni, concettuali e operative, che infatti produrrà, oltre al catalogo ufficiale della manifestazione (3), un libro – pubblicato due anni dopo – che raccoglie gli interventi elaborati in occasione del ciclo di incontri-confronto tra architetti e filosofi tenutisi alla stessa Triennale (4).

Al di là dei singoli contenuti e delle posizioni specifiche, ciò che maggiormente va sottolineato è l’atteggiamento di confidente pluralismo che Derossi cerca di conferire alla manifestazione nel suo complesso; un’apertura in cui trovano posto – sotto forma di concetti-chiave, emblematicamente appesi all'”albero delle parole”, eretto per l’occasione come un totem di fronte al Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio, e liberamente circolanti nel corso delle discussioni organizzate al suo interno – termini come tu, l’altro, doppio, amore, eventi, incontri, racconto; termini che stanno appunto a denotare la ricerca di un rapporto, di una relazione “avventurosa” con quanto è fuori da sé – con il mondo. Precisamente in questo senso, il “progetto del mondo” (o almeno, di quella parte di mondo che l’architetto può immaginare e modificare con il proprio intervento), nella prospettiva derossiana, è libero da vincoli prescrittivi predeterminati, e si apre all’ascolto dei luoghi, all’aleatorietà delle circostanze, alla “sperimentalità” della vita (experimentum – va ricordato – contiene nella propria radice esperienza e pericolo).

È a partire da questi presupposti che va inteso il presente libro di Pietro Derossi: non un libro concepito e composto in modo unitario, bensì “costruito” lungo la strada della sua vita, nel corso degli anni, tra il 1985 e oggi, come un puzzle al quale via via si siano andati aggiungendo sempre nuovi frammenti; una raccolta di saggi, che tuttavia ha l’aspirazione – non apertamente dichiarata, e forse, in una certa misura, addirittura “ignota” al suo stesso autore – di essere una sorta di “manuale dell’architetto” in versione leggera, agile, tascabile, ma soprattutto in versione non dogmatica, deterministica o impositiva. Basta scorrere i titoli dei saggi per rendersi conto del carattere maieutico (più che banalmente pedagogico o didattico) del libro: Desiderio di un dialogo, A cosa serve l’architettura, La sequenza delle esperienze preliminari, Il progetto: conoscenza, proposta, accordo, La committenza dell’architettura, Il denaro fa da compositore, La qualità urbana, per citarne solo alcuni. Si tratta con tutta evidenza dei luoghi più “comuni”, più concreti, della professione dell’architetto, affrontati e ridiscussi dall'”interno” del mestiere e dall'”alto” dell’esperienza che Derossi vi ha quotidianamente maturato. Per un paradosso neppure troppo difficile da spiegare, sono proprio tali tematiche, legate a vario titolo all’esercizio professionale dell’architettura, e in particolar modo ai rapporti che esso necessariamente implica (rapporti con la committenza, rapporti con i fruitori, rapporti con il contesto, rapporti con la materialità dell’edificio) a essere di norma i più “elusi” da chi si occupa di architettura – innanzitutto gli stessi progettisti. Non è un caso che una delle parole maggiormente ricorrenti nel vocabolario della “disciplina” (nomen omen!) architettonica – la parola composizione -, sia pressoché assente dalle pagine derossiane, e che anche quando vi compare ciò accada esclusivamente per criticarla, o al più per metterla in stretta correlazione con i meccanismi economici oggi dominanti, che di essa finiscono per fare un semplice strumento alle proprie dirette dipendenze.

Il modo in cui Derossi affronta i “luoghi comuni” della professione architettonica non è tuttavia mai scontato o superficiale. Al contrario: egli non rinuncia mai – con una perseveranza che a tratti sfiora addirittura la “fissazione” – ad attingere a quelle fonti filosofiche che per lui rappresentano il naturale referente, ottenendo così il risultato di elevare il discorso sulla pratica dell’architettura all’altezza dell’idea. Ed è proprio qui che emerge il tratto forse più singolare del pensiero di Derossi sull’architettura: la sua propensione – sulla scorta del paradigma heideggeriano – a far “coseggiare” le cose, ovvero a un filosofeggiare concreto, non astratto.

Esattamente in questa prospettiva va letto l’inesausto ruotare dei suoi scritti – e del suo stesso pensiero – intorno al “nodo centrale” della narratività. Nulla a che vedere con una banale aneddotica. Nei suoi scritti Derossi quasi mai si attarda a “raccontare” la propria personale esperienza. Piuttosto ne trae delle conseguenze teorico-conoscitive il cui senso, in estrema sintesi, può essere enunciato nel modo seguente: l’architettura, la città, il mondo, la stessa realtà, come intreccio di storie, di relazioni, di incontri – come (piccoli o grandi) racconti.

Da questo punto di vista il suo “manuale dell’architetto”, più che gli ormai invecchiati prontuari del mestiere, promette di dischiudere una conoscenza utile soprattutto a chi si renda disponibile a prestare ascolto alle cose, a chi sappia (ancora) scorgere la vita – brulicante, palpitante, aleatoria – dietro l’irregimentazione in forme, funzioni, marketing, business, dell’architettura. E sono in special modo i giovani architetti – quelli che per la prima volta si affacciano al boccascena del mestiere, così come quelli ancora in via di formazione – coloro ai quali sembra elettivamente rivolgersi il libro di Derossi. Per tutti costoro il progetto è (ancora) promessa di un’avventura. E L’avventura del progetto – significativamente – è il titolo dell’intera silloge derossiana, oltreché di un saggio in essa compreso. A tutti costoro Derossi si rivolge non come un “nonno” che parli dei suoi “bei tempi andati”, bensì come l’esploratore di una terra “promessa” ma reale, della cui esistenza le sue parole recano vivida testimonianza.

Quella a cui dispone il libro di Derossi è un’avventura dello spirito, senza con questo mancare di essere al tempo stesso un’avventura del corpo, della materia. Vi riesce grazie allo spirito tenacemente giovanile – di più: eternamente giovane – che lo anima, sempre in grado (come dimostra la sua attività di insegnante, che per lungo tempo ha affiancato quella di architetto) di instaurare con coloro che giovani lo sono anche anagraficamente un colloquio franco, diretto. E vi riesce anche – soprattutto – grazie alla sua costante capacità di mettersi in gioco. Ed è proprio questo il “segreto” in cui è custodita la verità – forse ultima e definitiva – su Derossi e sulla filosofia del suo operare architettonico, intellettuale, umano. Tale verità fa la sua tacita comparsa pressoché in ogni pagina e in ogni edificio di cui egli è autore, come la cifra nel tappeto che li accomuna tutti. Ma la medesima “cifra” è esplicitata direttamente come tale, con immancabile ironia, dallo stesso Derossi: vergata in caratteri corsivi di colore rosso su fondo écru e ordita nel tappeto da lui disegnato e denominato significativamente Filosofo. Si tratta di una frase di Hans-Georg Gadamer tratta da L’attualità del bello (5): «L’evidenza più immediata, dalla quale dobbiamo partire, è che il gioco è una funzione elementare della vita umana, tanto che la civiltà umana senza un elemento ludico non è neppure concepibile».

 

Note

(1) P. Derossi, “New Domestic Landscape. Achievements and Problems of Italian Design”. Mostra al MoMa, New York, in Pietro Derossi. Per un’architettura narrativa. Architetture e progetti 1959-2000, Skira, Milano 2000, p. 74.

(2) M. Heidegger, Il principio di identità (1957), in Id., Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, p. 27.

(3) Identità e differenze. Integrazione e pluralità nelle forme del nostro tempo. Le culture tra effimero e duraturo, a cura di P. Derossi, Catalogo della XIX Esposizione Internazionale, Milano, Palazzo dell’Arte, 28 febbraio – 10 maggio 1996, Electa, Milano 1996.

(4) Fare la differenza. Un confronto tra filosofi e architetti, cura di P. A. Rovatti e P. Derossi, Charta-Triennale di Milano, Milano 1998.

(5) H.-G. Gadamer, L’attualità del bello (1977), Marietti, Genova 1986, p. 24.

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24 marzo 2012