Architettura del Novecento I

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Introduzione


di Marco Biraghi e Alberto Ferlenga




Compito: vedere le cose come sono! Mezzo: riuscire a vederle da cento occhi, da molte persone!

Era una via sbagliata, quella di sottolineare l’elemento impersonale e di definire morale il vedere

dall’occhio del prossimo. Giusto è vedere molti prossimi e da molti occhi, tutti occhi personali.


Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi 1881-82



A chi si accosti al tentativo di conoscenza di un’epoca storica, oggi, si offrono modelli alquanto invecchiati e – ciò che è più grave – culturalmente esauriti. Da un lato il modello “specialistico” portato all’estremo, reso ormai quasi una caricatura di se stesso, in base al quale solitari “esploratori”, riconosciuti o sedicenti “superesperti” del campo, si addentrano in territori sempre più circoscritti per condurvi perlustrazioni minuziosamente analitiche ma spesso sostanzialmente inutili. Si tratta dell’evoluzione di un modello positivistico, “scientifico” (o pseudo-scientifico), che presuppone l’esistenza di una riserva illimitata di risorse conoscitive, tutte con un identico grado di interesse, cui corrisponde una calcolata quanto pericolosa parcellizzazione del sapere. Dall’altro il modello “enciclopedico”, nutrito dai miti della “totalità” e della “completezza”, cui fa da garante il mito più fasullo e resistente, quello dell'”oggettività”. Il sapere che produce questo modello è generico e cumulativo, tendenzialmente ripetitivo e in fondo innocuo, se non fosse astutamente insidioso dal momento che si accontenta (quando non si prefigge addirittura) di lasciare le cose esattamente come prima.


A fronte di ciò, per cercare di affrontare il complesso “nodo” dell’architettura del Novecento (inteso come comprensivo anche delle questioni teoriche e progettuali, oltreché di quelle realizzative, e della scala urbanistica e territoriale, oltreché di quella architettonica) si è reso necessario mettere in crisi e riformulare tali modelli. Innanzitutto avendo il coraggio di operare delle scelte: lasciato alle spalle ogni ideale di ecumenismo – illusorio e paradossale come l'”ideale” di poter ricordare tutto -, rimane soltanto la possibilità di selezionare, vagliare, discernere; nella consapevolezza che soggettività e opinabilità delle scelte fanno parte dei rischi che bisogna sapersi addossare, accettandole come un limite ma facendone anche un punto di forza. In questa prospettiva, una via percorribile – che qui di fatto si è provato a percorrere – è quella di costruire (e non semplicemente di “ricostruire”, sulla base di un’idea preformata) un possibile “scenario” con quanto ritenuto memorabile tra tutto ciò che è stato progettato, realizzato, teorizzato, insegnato, pubblicato nel corso del XX secolo, e che ne ha influenzato – modificandolo in modo significativo – l’ambiente fisico e culturale: una sorta di paesaggio fatto di habitat, vedute, materiali diversi, in certi casi semplicemente accostati, in altri ancora mescolati, concatenati, inscindibilmente legati fra loro. Un paesaggio – questo – necessariamente concepito “per parti”, e dunque inevitabilmente frammentato, discontinuo; e tuttavia, al tempo stesso, costituito da un tal numero di connessioni e d’intrecci, al punto da farne qualcosa di solidale e unitario.


La costruzione di un paesaggio del genere non può che essere un’opera collettiva: una somma di molteplici sguardi diversi (per ambito di competenza, punto di vista, appartenenza generazionale) che permettono di fissare una grande varietà di “oggetti” ma anche – assai di frequente – di avere più vedute simultanee sul medesimo “oggetto”. Fatto riflettere in una pluralità di specchi, il sapere si diffrange così in una pluralità di saperi, arrivando ad assumere quasi una “consistenza” tridimensionale. Ed è proprio in direzione di un sapere “articolato”, “composto”, che qui si è cercato di puntare, anziché di quel sapere “semplice”, costruito di nozioni puramente fattuali, che nei nostri tempi è diventato appannaggio delle agevoli e sconfinate (per quanto spesso anche infide) praterie della rete.


Se ogni costruzione storica è inevitabilmente il frutto di interpretazioni retrospettive, quella tratteggiata nelle pagine che seguono richiama il guardarsi indietro dell’architetto allorché, applicandosi a un progetto, sottopone alla verifica delle necessità contingenti un materiale eterogeneo, fatto di opere, città, eventi, teorie. Tutto ciò non può essere contenuto in un quadro definito una volta per tutte. Quando mutano le condizioni dell’operare, quando si modificano le sensibilità a causa di accadimenti generali o privati, cambiano anche le domande che si rivolgono alla storia. In quelle occasioni le gerarchie dei riferimenti utili non possono rimanere le stesse, e sul tronco delle conoscenze consolidate s’innestano nuove scoperte, compaiono percorsi invisibili prima. Se sono intere generazioni a essere attraversate dal cambiamento, può capitare che ciò che ha nutrito un’epoca esaurisca d’un tratto la sua capacità di produrre idee, generi erudizione e non più linfa per nuovi progetti.


È a causa del suo legame con il fare che la storia dell’architettura non può mai dirsi definitiva, e non soltanto per quel processo di necessaria messa a punto prodotto dall’acquisizione di nuove conoscenze documentarie, ma per il continuo mutare della sua importanza “relativa”, della sua utilità per chi la usa come “materiale da costruzione”.


Ripercorrendo la storia del Novecento architettonico si è inteso mettere in evidenza la mobilità che la contraddistingue, da un lato riducendo il catalogo dei tradizionali esclusi, e dall’altro spostando l’attenzione dai personaggi alla rete di relazioni che unisce architetti e opere, luoghi e teorie e – attraverso i diversi punti di vista degli autori dei saggi qui presentati – passato e presente. Non si è voluto, con ciò, invertire un processo conoscitivo che ha la sua base nelle successioni cronologiche e culturali, bensì arricchirlo attraverso la declinazione di una specificità tipica di una disciplina per la quale il tempo ha una valenza del tutto particolare.


Nel grande rimescolamento di luoghi, opere, teorie che ogni progetto presuppone è implicita la ri-scrittura continua della storia. Se una parte di questa azione si esaurisce nel percorso progettuale specifico e nell’esperienza personale, un’altra può diventare patrimonio comune. È, in fondo, a questo genere di “scavi per necessità”, praticati nel terreno di una storia recente, che appartengono le riscoperte di personaggi come Peter Behrens, Adolf Loos, Auguste Perret, Heinrich Tessenow, Ludwig Hilberseimer, recuperati, dentro il Novecento, da altri architetti dello stesso secolo. Molte altre vicende devono più al mutare del quadro culturale che all’affinarsi delle ricerche storiche il fatto di essersi potute sottrarre al destino di esclusione decretato per scelta ideologica o per “coerenza interpretativa” dai manuali “ufficiali”, o alla collocazione nell’ambito limitante delle vicende curiose o del regionalismo.


Lo sguardo multiplo e a ritroso che viene applicato in quest’opera dedicata all’architettura del Novecento cerca, dunque, di ampliare i confini della modernità, di individuare nel secolo appena trascorso le radici di temi, esigenze, necessità, maturate solo in seguito e divenute centrali nel tempo in cui viviamo. Ciò permette di comprendere l’importanza di esperienze che hanno considerato con grande anticipo questioni come quella ambientale, o che hanno individuato gli embrioni delle attuali esplosioni urbane quando e dove ancora non era facile farlo. Lo studio attento del presente può così trovare il suo necessario complemento in esperienze che hanno prodotto, indietro nel tempo, ricerche e progetti attorno ai suoi temi più importanti – il paesaggio, il risparmio energetico, i fatti climatici, le infrastrutture, le città e la loro nuova identità ­-, lasciando materiali che assumono un significato nuovo considerati con gli occhi di oggi.


12 giugno 2012