Manfredo Tafuri: storia e sviluppo capitalistico

Si tratta con tutta evidenza di una serie di studi impostati come una ricerca scientifica unitaria, pur se condotta da autori diversi; una ricerca che – settore per settore, disciplina per disciplina – mette a confronto e verifica il modo in cui diversi ambiti, questioni, strumenti di lotta, si relazionano allo sviluppo capitalistico. Del resto, come precisa Panzieri nello stesso anno, «si potrebbe dire che i due termini capitalismo e sviluppo sono la stessa cosa».[note]Raniero Panzieri, Relazione sul neocapitalismo, 1961, in Id., La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1977, pp. 170-171.[/note] Il che non implica la presenza in essi né di un’accezione di “progresso” né di “modernizzazione”, «ma semplicemente la riproduzione allargata sia del rapporto di capitale che delle contraddizioni di classe che ne conseguono».

I contributi pubblicati da Tafuri in «Contropiano» si inseriscono in questo panorama. Naturalmente vi si inseriscono dialetticamente, non come una semplice rotella all’interno di un più complesso ingranaggio; se dunque da un lato essi mantengono una propria autonomia rispetto al discorso più complessivo sull’operaismo, dall’altro si collocano con precisione entro tale contesto, in cui le questioni affrontate sono tutte riverificate alla luce dello sviluppo capitalistico. Si tratta di questioni di cui bisogna valutare, rimisurare il valore all’interno dei modi di produzione, non tanto il modo in cui si pongono politicamente nei confronti di esso ma – come scriveva Walter Benjamin nel saggio sull’Autore come produttorecome si pongono dentro a quello sviluppo.[note]Cfr. Walter Benjamin, L’autore come produttore, 1934, in Id., Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, p. 201.[/note]

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I citati saggi di Tafuri su «Contropiano» non costituiscono né il momento iniziale di una sua attitudine che si potrebbe definire genericamente “politica”, e nemmeno l’approdo finale di un percorso d’indagine storiografica. Rappresentano evidentemente soltanto un momento di un percorso più ampio. Nei saggi precedenti di Tafuri vi è parimenti un’attitudine politica: ad esempio nel saggio intitolato Teoria e critica nella cultura urbanistica italiana del dopoguerra, contenuto nel volume del 1964 La città territorio, Tafuri mostra già una lettura politica della realtà italiana, in particolar modo dell’urbanistica, dello sviluppo delle città, cioè a dire i fallimenti dell’urbanistica all’interno del contesto italiano. Qui Tafuri mette in evidenza «la più o meno stretta connessione fra ideologie politiche e “teorie della città”».[note]Manfredo Tafuri, Teoria e critica nella cultura urbanistica italiana del dopoguerra, in AA.VV., La città territorio. Un esperimento didattico sul Centro direzionale di Centocelle, Leonardo da Vinci Editrice, Bari 1964, p. 39.[/note] Scrive Tafuri: «È dal pensiero borghese che si inizierà a sviluppare una teoria della città come mezzo di controllo dei fenomeni sociali sempre più complessi nelle loro nuove dimensioni qualitative e quantitative».

Anche in questo caso, come nel celebre incipit di Per una critica dell’ideologia architettonica («Allontanare l’angoscia comprendendone e introiettandone le cause: questo sembra essere uno dei principali imperativi etici dell’arte borghese»),[note]Manfredo Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, cit., p. 31.[/note] è dalla vicenda della borghesia il punto da cui egli prende le mosse. Ed è evidente che la borghesia è la classe dominante, protagonista dello sviluppo capitalistico, dal Rinascimento in avanti. Il saggio Tafuri mette in evidenza la frattura che si crea fra l’urbanista (inteso come tecnico), il politico e l’architetto; quest’ultimo cerca di fare da ponte, da “mediatore” tra le altre due figure, «con un’opera di supplenza gratuita e non richiesta». L’architetto si prodiga in tal senso perché vorrebbe avere un ruolo all’interno di questa vicenda, cercando appunto di fare un’opera di raccordo tra le politiche di pianificazione e la politica tout court. Si tratta naturalmente di un’operazione disperata, per quanto mossa dalle migliori intenzioni; e infatti Tafuri parla del «dramma della cultura come “patrimonio” di intellettuali che pretendono di poter agire come classe, e, magari, come classe politica autonoma».[note]Manfredo Tafuri, Teoria e critica nella cultura urbanistica italiana del dopoguerra, cit., p. 40.[/note] Un “dramma” che, nell’ambito della cultura urbanistica e architettonica italiana di quegli anni, non tarderà a manifestarsi.

Lo stesso Tafuri all’inizio degli anni ’60 collabora con il gruppo romano AUA (Architetti e Urbanisti Associati), per poi interrompere tale collaborazione intorno alla metà del decennio. La decisione di lasciare il duplice tavolo del progettista e dello storico, a favore di quest’ultimo e per conseguire la completa autonomia della storia, permetterà a Tafuri di dare profondità al suo impegno politico, indirizzandolo però non nel senso di una semplice “critica”, bensì di una vera e propria “critica dell’ideologia architettonica”.
Nei saggi tafuriani su «Contropiano» la lettura politica dell’architettura e della città assume una connotazione del tutto diversa – rispetto a quella precedente – dal punto di vista della strumentazione impiegata, che si presenta ora ben più strutturale e strutturata. «Una coerente critica marxista dell’ideologia architettonica e urbanistica non può che demistificare le realtà contingenti, storiche, niente affatto oggettive o universali, che si celano dietro le categorie unificanti dei termini arte, architettura, città. Assumendo il proprio ruolo storico e oggettivo di critica di classe, la critica dell’architettura deve divenire critica dell’ideologia urbana, evitando in tutti i modi di entrare in colloqui “progressivi” con le tecniche di razionalizzazione delle contraddizione del capitale».[note]Manfredo Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, cit., p. 78.[/note]

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Il fallimento delle politiche di pianificazione, in tale prospettiva, non è più ricondotto a limiti nazionali o personali – come accadeva ancora nel saggio pubblicato in La città territorio – ma è mostrato nel suo essere imposto dallo sviluppo capitalistico. La stessa ideologia del moderno, ovvero del “Movimento Moderno” (espressione peraltro detestata da Tafuri) viene disvelata nelle sue implicazioni, nella sua opera di “copertura” ideologica, oppure di illusoria fuga da quelle condizioni. Il «dramma della cultura» urbanistica italiana si trasforma così nel «dramma dell’architettura, oggi: […] vedersi obbligata a divenire sublime inutilità».[note]Manfredo Tafuri, Premessa a Progetto e utopia, cit., p. 3.[/note] A questo punto la crisi dell’architettura si rivela per ciò che è: una crisi del ruolo ideologico dell’architettura e dell’architetto.

Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico prosegue nella stessa direzione intrapresa dal saggio precedente. Fin dal principio riemergono i temi già affrontati: «Tutto il “tragico” della Kultur borghese, l’angoscia sperimentata nel vedere espropriata quella Kultur di ogni funzione progressiva, nel verificare l’ineffettualità del suo essere al mondo, nel riconoscerla come utopia ingenua, si sono rovesciati in un lavoro intellettuale come un’utopia positiva, come modello di sviluppo dialettico: come “forma dialettica”, in una parola, che riconoscendo l’inerenza della negatività al sistema, ne progetti l’integrazione in un tentativo di dominio globale del futuro».[note]Manfredo Tafuri, Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, cit., p. 241.[/note] Nel corso del lungo e complesso saggio Tafuri analizza gli effetti dello sviluppo capitalistico sul lavoro intellettuale, ovvero la tendenza di quest’ultimo a divenire lavoro astratto, esattamente quanto accade del lavoro operaio in fabbrica, dove le diverse mansioni progressivamente si parcellizzano e divengono indifferenziate, uguali per tutti. Lo stesso processo ha luogo anche nel campo del lavoro intellettuale, dove le mansioni diversificate, i saperi specifici diventano saperi generali, financo generici.

Proprio in un passaggio del saggio sul lavoro intellettuale Tafuri rileva che «siamo in presenza di un costante aumento dell’estraneità dell’intellettuale al contenuto del proprio lavoro, che si realizza tanto più concretamente tanto più quest’ultimo si caratterizza esattamente come “lavoro”: più esattamente, anzi, come lavoro salariato».[note]Ibidem, p. 280.[/note] Quello intellettuale diventa cioè una delle tante forme del lavoro, reso astratto dai processi di frammentazione e riorganizzazione (“ottimizzazione”) capitalistici. Tafuri mostra come in realtà non si tratti di una catastrofe ai cui effetti cercare disperatamente di resistere, bensì, a partire da una critica dell’ideologia, come questi processi vadano piuttosto assecondati portandoli fino alle loro conseguenze ultime. Non soltanto dunque per Tafuri non ci si può opporre semplicemente ai processi in atto, tentando nostalgicamente di far retrocedere la ruota della storia, ma addirittura l’evolversi di tali processi può rivelarsi una potenzialità da sfruttare a fini di lotta: «Leggere nelle condizioni attuali del lavoro intellettuale una concreta tendenza verso un’omogeneizzazione materiale, che passa attraverso i processi di ristrutturazione sociale e produttiva capitalistici, significa riconoscere nella massificazione e nella mobilità dei ruoli, nella perdita dei privilegi tradizionali riservati al lavoro intellettuale, nel distacco – che avviene già nella fase di preparazione scolastica e universitaria – dai contenuti del proprio lavoro, nell’estraneità che finalmente anche l’intellettuale è obbligato a sperimentare nei confronti dell’organizzazione capitalistica del lavoro, alcune delle condizioni positive da cui ripartire, per elaborare un programma di attacco al piano complessivo». E ancora, più oltre: «Non crediamo alle ripetute invenzioni di nuovi alleati della classe operaia. Ma sarebbe suicida non riconoscere che sono le stesse linee dello sviluppo capitalista a ricomporre, ai propri fini, una forza-lavoro tendenzialmente omogenea, che è possibile far funzionare sotto il segno degli interessi diretti della classe operaia. Rovesciare quello che è stato, per troppo tempo, il disegno capitalista, quello che vede come proprio fine una classe operaia organizzata dal capitale: questo è l’obiettivo da raggiungere ponendosi come compito la gestione operaia delle rivendicazioni soggettive dei nuovi strati di lavoro intellettuale salariato.

Ma ciò non è possibile se non battendo ogni illusione reazionaria, ogni proposta tesa a restituire dignità professionale a quegli intellettuali “degradati”. Mostrare in concreto la reazionarietà di ogni discorso che voglia offrire prospettive “alternative” al lavoro intellettuale, significa quindi riconoscere che solo all’interno del ruolo oggettivo imposto dal dominio dello sviluppo è la condizione per utilizzare la lotta dei ceti intellettuali assorbiti direttamente nella produzione, in un attacco complessivo al piano del capitale: il che significa, essenzialmente, estendere l’uso politico della lotta sul salario a strati sociali sempre più ampi».[note]Ibidem, p. 281.[/note]

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Non è qui possibile seguire passo passo le evoluzioni del percorso tafuriano in tutte le sue tappe: ciò che ne emerge in un senso più generale, tuttavia, è qualcosa che, almeno in parte, può assimilare la sua esperienza a quella di molti altri intellettuali del periodo. Con il passare degli anni, sopraggiunti gli anni Settanta, cambiano le metodologie, cambiano i paradigmi di pensiero cui far riferimento, in certi casi anche gli oggetti stessi delle ricerche; cambiano le persone, le letture, ma soprattutto cambiano i tempi. Ed è evidente come non si possa parlare di Tafuri – uno storico certo non “immobile”, non chiuso nel proprio “mondo”, nel proprio “recinto” storico, mai appagato del proprio sapere acquisito, mai intento a dissodare sempre il medesimo campo di studi, quanto piuttosto una figura complessa, curiosa, problematica, continuamente spinta a interrogarsi, ad arrovellarsi, e quindi a proseguire nella sua ricerca – senza vederlo inserito nel suo tempo. E nel passaggio tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, quantomeno in Italia, cambia tutto: cambiano i tempi, e cambia anche chi vi è immerso.