Muri | #ciòchemanca

Quanto segue è una delle proposte selezionate nel contesto del concorso “Ciò che manca” indetto da Gizmo lo scorso maggio. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere al quesito “cosa manca nelle nostre città?” attraverso qualunque tipo di forma comunicativa, formulando soprattutto un’idea.

Muri
di Alessandro Toti

Il problema ontologico-politico fondamentale è, oggi,
non l’opera ma l’inoperosità […], l’esibizione del vuoto incessante
che la macchina della cultura occidentale costituisce al suo centro.
Giorgio Agamben

25 Toti Alessandro - Muri

Senza alcun dubbio la realtà contemporanea è caratterizzata dall’immediatezza con cui ogni individuo può accedere ad un’infinita gamma di soluzioni, immaginate per rispondere in modo personalizzato alle proprie necessità e ai propri desideri. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, tali soluzioni si limitano a intervenire solo sulla dimensione retorica ed estetica della realtà, senza intaccare la sua struttura razionale. In quest’ottica, immaginare cosa manca alle nostre città non significa inventare qualcosa di originale e creativo, ma svelare ciò che, rimanendo celato, definisce concretamente la loro condizione attuale. Ciò che manca è allora ciò che è più presente, ciò che più di ogni altra cosa costruisce la natura fisica e simbolica della dimensione urbana: ciò che manca è il muro.

Inaugurata dal movimento moderno e rafforzata dalla celebre ‘caduta’ del 1989, esiste da molto tempo una chiara avversione verso il muro, reo di limitare la fluidità della città e di impedire un uso ‘naturale’ – e cioè libero, continuo e condiviso – dei suoi spazi. Oggigiorno street art, manifesti pubblicitari, pareti verdi e curtain wall concorrono ove possibile a sanare questa frattura, promuovendo un’idea di città senza discontinuità.

Tuttavia, dietro queste apparenti trasformazioni, il muro rimane esattamente dov’è, impossibile da eliminare in quanto rappresentazione del senso più profondo dell’architettura e del suo ruolo in questa società – contenere la complessità e la produttività dell’uomo, permettendone la vita ma impedendone la sua definitiva emancipazione.

Da questo punto di vista, il significato del muro può essere letto da due lati opposti. Più banalmente, il muro contiene tutto ciò che avviene all’interno dell’edificio, proteggendo e accogliendo l’uomo nello svolgimento della sua funzione più propriamente urbana – abitare. D’altra parte, il muro è anche il contenitore di tutto ciò che avviene al suo esterno: costruendo un limite alla dimensione urbana e collettiva, esso preserva l’autonomia di ogni fatto urbano e impedisce alla città di rappresentare se stessa come uno spazio unico e pacificato.

Questa ambivalenza si può leggere al meglio tanto nella città delle borgate quanto in quella della speculazione; in entrambi i casi, una volta trasgredite le norme urbane, sono solo le regole intrinseche dell’architettura a definire la logica con cui si costruisce la città. Ed è proprio in questo contesto che il muro svela il proprio carattere più autentico, contemporaneamente coercitivo e liberatorio: costruire un muro, privarsi di qualunque relazione con la città, permette sia di liberare lo spazio esterno ad un uso generico e indeterminato, sia di ricreare al proprio interno nuove e inaspettate condizioni di urbanità.

Per questo motivo, piuttosto che reinserire queste cesure nella continuità dell’organismo urbano attraverso colorati murales o tranquillizzanti pareti verdi, la metafisica fissità dei muri urbani dovrebbe insegnare a riconoscere l’unico elemento veramente assente dalle nostre città: il vuoto, l’indefinito, l’attesa. Il muro è ciò che manca proprio perché non può fare altro che mancare alla città, rappresentare l’altro da sé, il conflittuale, l’irrisolto. Il muro svela allora quell’insanabile frattura fra individuale e collettivo che non può essere sinteticamente ricucita o definitivamente estirpata dalla città, ma che, al contrario, solo attraverso la sua radicalizzazione può rivelare le sue più autentiche possibilità di sviluppo.

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