A Wonderful Summer in a Solitary House

Pubblichiamo la tesi di Laurea Magistrale di Federico Musso, conseguita lo scorso Luglio presso la Facoltà di Architettura di Genova (relatore prof. Galli, correlatori proff. Pizzigoni e Bilancioni), premiata dalla commissione concedendo la dignità di stampa e la Lode. Incentrata sulla Villa Laurentina di Plinio il Giovane, la tesi elabora una riflessione sull’importanza di progettare in continuità con la Storia e l’eredità del Classico. Una lettera ‘apocrifa’ dell’Epistolario di Plinio descrive il progetto rievocando personaggi e storie contenuti nel celebre romanzo Bonjour Tristesse dell’autrice francese Françoise Sagan originariamente ambientato, appunto, in una villa sul Mediterraneo.

A Wonderful Summer in a Solitary House—Un progetto per la Villa Laurentina di Plinio il Giovane

di Federico Musso

 

A partire dal momento in cui nasce, l’Architettura è espressione del popolo che la erige ed abita, consumandola, interrogandola. Seppur con tempistiche decisamente più lente rispetto alle altre arti, essa incarna con sorprendente realismo il daimon del suo tempo, suggerendone per di più un profilo quasi tangibile, interpretandolo, per poi lasciarne, talvolta, una traccia indelebile sulla terra.

Nel dedalo di riferimenti storici che ritornano nel discorso architettonico in maniera ciclica, seguendo un ritmo quasi sinusoidale, la villa di proprietà dello scrittore e magistrato romano Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto Plinio il Giovane, rappresenta uno degli esempi più importanti e discussi. A partire dalla sua riscoperta in epoca rinascimentale il Laurentinum (o Villa Laurentina) compare ad intermittenza nel dibattito architettonico, incoraggiando una serie di restituzioni grafiche susseguitesi nei secoli, sebbene nessuno scavo archeologico ne abbia mai confermato l’esistenza. Una villa il cui mito si è inserito nel discorso architettonico con lo stesso peso di altri simboli dell’epoca romana esistenti tutt’oggi, guadagnandosi un ruolo di prim’ordine nell’immaginario collettivo dell’ultimo millennio.

Idealmente situato lungo le coste laziali a circa diciassettemila passi dall’Urbe, il Laurentinum viene descritto in maniera minuziosa in una delle lettere che costituiscono il corpus dell’opera di Plinio, vale a dire l’Epistolario (scritto tra il 96 ed il 113 d.C.), più precisamente nell’epistola XVII del Libro II, dove lo scrittore romano elenca all’amico Gallo i benefici, le comodità e la pace dei suoi periodi di villeggiatura nella sua villa suburbana, facendo una rassegna degli ambienti che si susseguono nel testo in una sorta di percorso virtuale dell’edificio.

Un esempio analogo potrebbe essere rinvenuto nella produzione architettonica rinascimentale che fa riferimento al capitolo del De Architectura di Vitruvio sulle Case al modo Greco, dalle cui pagine deriva di fatto il mito della Villa Greca (anch’essa mai rinvenuta) che vanta innumerevoli citazioni formali tardo-rinascimentali scaturite da quella che è a tutti gli effetti una semplice descrizione (sulla cui veridicità si sa ben poco) e le sue prime rappresentazioni ad opera di Fra Giocondo e Cesare Cesariano.

Tutto ciò in un qualche modo rispecchia la natura dell’Architettura, che altro non è che rappresentazione di sé stessa, accumulazione di simboli ereditati dal passato che si sedimentano e si trasformano nella memoria collettiva a prescindere dal loro significato originario. Poco importa la sua natura, sia che si tratti di un progetto realizzato o sotto forma di rovina, semplicemente rappresentato o, come in questo caso, descritto: l’Architettura è tale sotto qualsiasi tipo di forma che ne permetta il perpetuarsi, aspirazione ultima della disciplina architettonica.

Il valore storico ed architettonico delle interpretazioni della lettera di Plinio, tuttavia, non si limita agli esercizi formali dei singoli casi, bensì è riconoscibile nel dialogo a cui esse contribuiscono e la riverenza che i progettisti compiono di fronte alle tematiche del classicismo. Nella rilettura del testo l’architetto si distacca dalle parole dell’autore quanto basta per approfittare del margine creativo che ogni descrizione verbale non può che lasciare. Non gli interessa, ovviamente, la plausibilità storica, bensì interrogare il linguaggio classico, esplorarne il potenziale ed è proprio qui che riconosciamo il valore ultimo di questo metaprogetto: la descrizione diventa un semplice pretesto per fare Altro—stabilire un contatto diretto con una tradizione alla quale i progettisti sono devoti, e che rivive nel loro lavoro, in un rapporto simbiotico. Un motivo che unisce la totale disintegrazione formale del Laurentinum di Krier, “sparso” su una scogliera a strapiombo sul mare e la rigidità assiale della versione di Vincenzo Scamozzi che omette volutamente qualsiasi forma di contestualizzazione. Una volontà che va al di là delle semplici scelte formali e che unisce fra loro i progettisti nella loro intima convinzione che nel loro omaggio all’Antico possa vibrare la grandiosità insita della sintassi classica, perpetuando un concetto di civitas riconosciuto e condiviso da secoli di storia, incarnato da un’architettura che ambisce fondamentalmente ad essere classicista.

Il progetto presentato oggi tenta di misurarsi con questa visione dell’architettura ed i maestri che l’hanno perpetuata, interrogandosi su cosa significhi progettare in continuità con la Storia.
Tale esercizio è caratterizzato da una serie di elementi formali che riconducono a progetti del passato, talvolta reinterpretati e subordinati ai passaggi chiave della lettera, altre volte innestati approfittando del margine creativo inevitabilmente lasciato dalla descrizione. Una villa che ambisce ad essere la sintesi di un percorso di ricerca che affonda le proprie radici nella riscoperta del mito della Villa Greca, passando per alcuni riferimenti tardo-rinascimentali, il Laurentinum di Schinkel e la poetica classicista contemporanea. Il progetto è inoltre arricchito dalla stesura di una seconda lettera, che arricchisce, senza negarla, la versione originale pliniana, rievocando i passi di una giovane Françoise Sagan nella villa mediterranea del suo celebre romanzo Bonjour Tristesse dando un volto anche a quell’otium che abita il progetto e in funzione del quale la villa rustica fu concepita, per poi diventare scenografia di alcuni degli scritti più significativi della letteratura latina.

«Avevamo passato numerose estati sul Mediterraneo, in quei periodi in cui il canto folle delle cicale satura l’aria afosa e pesante, raramente smossa da qualche timida bava di vento che fa tentennare le fronde dei pini marittimi, le cui ombre mimano lente l’inerzia del mare. Mio padre aveva affittato una villa, tanto grande quanto misteriosa, a pochi passi dalla spiaggia: un dedalo di corridoi e stanze di cui non conoscevamo l’età. Era come se questa villa fosse sempre esistita; nella sua pietra squadrata e consunta riecheggiavano motivi antichi, una monumentalità sobria ed essenziale che mi affascinava e mi intimoriva, quando presa dalla noia delle lunghe giornate d’agosto, per sfuggire alle insidie della canicola, mi perdevo nell’immensità di questo edificio, trovando rifugio nelle ombre dei suoi lunghi portici, nella speranza di scoprire nuovi anfratti. Mi sentivo come Alice nel paese delle meraviglie, ma in un contesto più aspro, il cui silenzio sembrava interrogarmi ad ogni passo che compivo, facendolo riecheggiare con voce grave nei suoi immensi volumi.

In questo angolo di Mediterraneo l’afa riempiva con la sua mole sorprendente ogni spazio. Non v’era angolo in cui la canicola non esercitasse il proprio dominio: ogni singolo oggetto, anche il più insignificante, ne era impregnato. Raramente qualche bava di vento fendeva l’aria, e con difficoltà, facendo vibrare timidamente i fili d’erba che si raggruppavano a ciuffi disordinati, ingialliti, nell’ampia corte che dà sul mare, fra le lastre consunte del pavimento antico ormai abbandonato alla sua sorte.

L’ingresso si apriva su un grande atrio, dal quale si accedeva ad una piazzola di forma ottagonale a cielo aperto, sopra la quale era sospesa una copertura in legno.

L’apertura centrale affacciava direttamente sul mare incorniciandolo meravigliosamente. Le zone abitabili si dividevano in due ali, che si sviluppavano a loro volta attorno a due corti. Due torri ne sorvegliavano la superficie che si stendeva ampia lungo la costa.

Mio padre l’aveva affittata grazie a un suo amico, ma non ero mai riuscita a capire chi fosse il proprietario. Vi avevamo passato diverse stagioni estive, per lunghe settimane, tanto che avevo finito con l’affezionarmi a questo misterioso monumento. Spesso, data l’immensità degli ambienti, invitavamo amici e conoscenti. Era un modo come un altro per far sì che il tempo passasse meno lentamente.

Anni fa, una delle prime volte che ci recammo qui in villeggiatura, mio padre ebbe la strana idea di invitare Madame Larsen a passare qualche giorno con noi. Anne Larsen era una cara amica di mia madre. Mio padre si era aggrappato con tutte le energie alla sua compagnia, dopo che mamma venne a mancare. Si trovava a Roma per partecipare a un evento mondano. Accettò volentieri l’invito e si precipitò. Al suo arrivo, sia io che mio padre eravamo già in spiaggia, decise di riporre le sue cose per poi raggiungerci ai piedi del pendio su cui è adagiata la villa. Quando rientrammo in casa, verso il calar del sole, ricordo che passammo il resto della serata a cercare i bagagli di Madame Larsen, che aveva dimenticato, complice il colpo di sole che le aveva ustionato il dorso, il luogo in cui li aveva momentaneamente appoggiati prima di venire alla spiaggia.

Solo molto dopo scoprimmo che le valigie erano state lasciate in una delle stanze che si trovano al piano terra della torre anteriore, stanze ormai inutilizzate dove non entrava nessuno da anni ma il cui accesso era facilitato dall’ingresso sul retro, molto pratico per chi arrivava in macchina e aveva bagagli.

Negli ultimi anni mio padre aveva cominciato ad invitare la sua nuova compagna, Elsa. Non avevo molta simpatia per questa donna, il cui fascino finiva per catalizzare l’attenzione di mio padre, abbandonandomi alla mia sorte, alla solitudine di quei pendii scoscesi a mollo nel Mediterraneo.

Il luogo in cui preferivo andare, il giorno, era certamente la sommità della tor- re più alta, dove si trovava una sala da pranzo panoramica che dominava il golfo. Nonostante la vista che offriva questo luogo, erano almeno due anni che non vi mettevamo piede, complici le ripide rampe di scale, le caviglie fragili di Elsa e l’accondiscendenza supina del suo premuroso compagno.

Nelle immagini che associavo alla villa, una volta tornata all’inerzia degli uggiosi pomeriggi parigini, fantasticavo di quella torre sulla cui sommità mi re- cavo ormai da sola la mattina presto per scrutare i cargo di passaggio che dal nord Africa si dirigevano verso le coste francesi, carichi di spezie, tessuti ed altre merci esotiche. L’assenza di finestre tutt’attorno rendeva la mia immersione ancora più vivida e così mi divertivo a seguire con la punta del naso i loro scafi, fantasticando sulle storie che trasportavano, sugli odori delle loro vecchie stive e le lingue che uno avrebbe potuto udire in coperta. Lo straniamento dovuto alla canicola bruciava la distanza che separava la fantasia dai miei sensi, sostituendo il canto delle cicale con le voci e gli accenti che mi traversavano i pensieri.

Ricordo con piacere le lunghe serate che avevo passato con mio padre su quella torre. Le bottiglie di vino che avevamo condiviso fino a tarda notte. Vi avevo portato anche Cyril una volta, una delle tante sere in cui mio padre aveva invitato Elsa al ristorante.

Ogni anno attendevo con ansia l’arrivo di Cyril, un giovane studente di diritto che avevo conosciuto proprio qui anni fa.
Arrivati verso la metà delle vacanze le giornate estive in questo piccolo golfo mediterraneo si allungavano a dismisura ed io non aspettavo altro che un qualsiasi evento, anche il più misero ed insignificante, ne scuotesse la monotonia. Da quando era arrivata Elsa mio padre mi considerava decisamente meno, intento com’era a soddisfare ogni minimo capriccio della sua dolce compagna. Avevamo passato delle giornate magnifiche all’inizio, ma ora sentivo bene che la sua priorità non era più sua figlia.

Talvolta mi divertivo ad osservarli dall’alto, i due, seduta sul bordo dell’immenso portico che nasceva dal fondo dell’ala destra della villa; passavano ore a giocare e ridere come bambini nella spiaggia sottostante, un luogo deserto il cui unico accesso battuto partiva direttamente dalla corte della nostra dimora. Non appena mi notava mio padre faceva cenno di scendere in spiaggia insieme a loro e, solo a quel punto, facevo finta di niente dirigendomi in direzione opposta, per rifugiarmi nel padiglione posto all’altro capo del portico. Si trattava di un semplice cul-de-sac all’interno del quale si trovava un’ampia stanza interrotta da una piccola tramezza che ne negava la continuità. Una tenda al suo fianco permetteva con un semplice gesto di dividere la stanza in due, individuando un’alcova che custodiva un letto ed un mobile vuoto da sempre.

Adoravo sdraiarmi e riposare fra quelle mura: mi sembrava tutt’a un tratto di essere così lontana dal mondo circostante. Era diventato il mio rifugio segreto dove nessuno avrebbe potuto disturbarmi, lontano com’era dalle passioni dei miei coinquilini; la finestra guardava i monti retrostanti e veniva riscaldata timidamente solo verso il calar del sole, che passava di lì prima di spegnersi dietro alle morbide colline preappenniniche. La freschezza di quella stanza era in grado di scacciare per un attimo il demone della controra con tutti i cattivi pensieri che portava con sé, facendo comparire un sorriso un po’ ebete sulle mie labbra, una sensazione nella quale amo rifugiarmi tutt’ora, come se in un qualche modo riuscissi, anche solo per pochi secondi, a ritornare fra quelle mura che tanto ho amato e detestato, in quella villa ai cui misteri si sono aggiunti alcuni dei momenti più cari della mia infanzia.

La villa per me era tutto questo. Tutte le sfumature del mediterraneo erano intrappolate nelle crepe dei suoi muri, negli infiniti scorci marini che le sue forme incorniciavano sempre in maniera differente ed i ricordi della mia infanzia si confondevano a tratti con le mie fantasie tanto da rendermi incapace di distinguere gli uni dagli altri. Era uno scrigno nel quale avevo deciso di lasciare una parte di me; un segreto che avevo quasi rimosso. A volte mi chiedo se sia sempre lì dove l’ho lasciata, nella speranza di poterne ripercorrere un giorno gli antichi mosaici, sospesa a scrutare il passo lento del Mediterraneo.»