#REMIX: Track 02

Manifesto dei Manifesti
Studio per un’antologia

di Carla Rizzo

A proposito del manifesto di architettura, è lecito domandarsi cosa sia successo nei tempi più recenti a questa forma espressiva, o meglio, se sia ancora possibile la sua esistenza nel 2020 e quale la sua utilità.
In particolare è lecito, e forse necessario, interrogarsi su quali siano i manifesti della fiorente Remix Generation, che forma abbiano, da chi siano scritti e redatti, ma soprattutto da chi possano essere accolti.

Voci autorevoli hanno già dibattuto in merito. Nel 2008, nel privilegiato contesto londinese del Serpentine Gallery Pavilion progettato da Frank Ghery, una maratona di due giorni raccoglieva le testimonianze “flash” di oltre 50 voci provenienti da realtà artistiche e culturali differenti, da Yoko Ono a Eric Hobsbawm; tre anni dopo, alla Columbia GSAPP, un parterre d’eccezione, questa volta di indirizzo più spiccatamente architettonico, vedeva impegnati nomi quali Anthony Vidler e Peter Eisenman nel porsi le stesse domande.1
Sembra però opportuno partire da alcune considerazioni attraverso cui si intende cristallizzare l’essenza del manifesto. Nell’introduzione2 al volume Theories and Manifestos of Contemporary Architecture, edito per la prima volta nel 1997 da Academy Editions, Charles Jencks evidenzia almeno tre importanti condizioni utili a individuare e circoscrivere il “genere”, e in primo luogo definisce il manifesto uno strumento supplementare alla stessa architettura, necessario all’architetto del XX secolo per farsi conoscere.
Nonostante Jencks faccia riferimento al ‘900, appare chiaro come questa necessità di farsi strada nel mare magnum della competitiva pratica architetturale sia del tutto estendibile anche agli anni 2000; l’edificio in tutta la sua concretezza e solidità non è più bastevole al giovane architetto della cosiddetta Remix Generation per la sua affermazione nel panorama professionale.
Altra considerazione presentata in The Volcano and the Tablet fa inevitabilmente riferimento alla formula sintattica cui il manifesto deve adeguarsi per potersi definire tale, come un haiku, la regola guida pretende una discreta brevità comunicativa, oltre che l’utilizzo di formule ripetitive e incantatrici e una buona dose di retorica.
Terzo punto fermo riguarda, per Jencks, la restrizione dell’uditorio: storicamente il manifesto di architettura si rivolge a un pubblico specializzato e di settore, e ha come intento principale non tanto quello di convertire, quanto piuttosto il voler riunire un pubblico già incline a sostenere la tesi del manifesto stesso.

Sembra così di poter confermare, anche allo stato attuale, tutte le condizioni preposte dallo storico di Baltimora, seppur, avventurandosi alla ricerca dei manifesti “non dichiarati” della Remix Generation, non manca di scontrarsi con qualche difficoltà interpretativa.
A un primo sguardo infatti, sfogliando le virtuali pagine web in cui i giovani studi e collettivi di architettura raccolgono progetti, riflessioni, idee e ricerche, si potrebbe suggerire l’ipotesi che il manifesto 2.0 sia chiamato a rispondere a molteplici livelli di utilizzo.

In tutti i casi è possibile affermare con certezza che la tecnica del remix3, in modo più o meno esplicito, riesca a insinuarsi fra le diverse sfaccettature della nuova interpretazione del genere.
Si vuole dunque tentare un’operazione di decodificazione e categorizzazione della nuova gamma di manifesti inconsapevolmente proposti dagli architetti del network e riportare in seguito un’idea per una Top Five tipologica del Manifesto 2.0.

  • Self-Manifesto

La prima categoria individuata è anche la più facile da rintracciare nei meandri del web.
Una buona percentuale degli studi in oggetto sembra propensa a far confluire fra le righe del manifesto una sorta di presentazione del proprio operato e una dichiarazione del proprio orientamento progettuale; così, fra le poche voci che solitamente compongono i menù dei siti web, sarà facile imbattersi nella dicitura Manifesto, spesso anche sostituita da Fundamentals, Credo, Office, Practice o, più comunemente, About.
Questa prima interpretazione sembrerebbe la più orientata a un impoverimento del genere.
In questi termini appare infatti chiaro come il manifesto tenda a materializzarsi in un elenco di statements più che altro auto riferiti, e di conseguenza è evidente come l’utilizzo tipico dei pronomi personali plurali rimandi al ristretto numero di membri del collettivo in questione, più che a un’ampia comunità guidata da un pensiero condiviso.
Questo modo d’intendere il manifesto riporta comunque a quella prima questione sollevata da Charles Jencks, ovvero l’affermazione professionale, da cui consegue la strumentalizzazione a proprio favore del genere; il Self-Manifesto, che si presenti in forma di testo, di immagine o di una combinazione di entrambe le soluzioni, sarà comunque un chiaro riflesso della personalità (architettonica?) dei suoi autori.

Un esempio concreto è senza dubbio il Manifesto presentato da Yellow Office.
Si tratta di una sorta di opuscolo pop-up in versione digitale che si lascia sfogliare grazie alla presenza di una piccola icona cliccabile raffigurante un albero stilizzato.
Ciascuna doppia pagina dell’opuscolo contiene un’illustrazione a sfondo paesaggistico: distese acquatiche, catene montuose, verdi colline e arcipelaghi dalle forme più o meno riconoscibili, il tutto animato da una pressoché ridotta componente faunistica. Gli scenari offerti lasciano senz’altro presumere il campo di applicazione della pratica di YO, che si definisce infatti uno studio di landscape e landscape urbanism design, ma le sole illustrazioni non bastano a comprendere il messaggio che il manifesto intende trasmettere.
Per questo, cliccando un albero analogo a quello necessario per sfogliare le pagine, questa volta inscritto in un quadrato color verde pastello, sarà possibile accedere a una serie di testi esplicativi e intuire che in realtà ciascun disegno fa riferimento a un progetto di YO, ritenuto evidentemente rappresentativo del proprio lavoro.
Non s’intende qui discutere l’efficacia del format comunicativo prescelto da YO, ma si è certi di poter avvalorare l’ipotesi che il manifesto, in questa veste, risponda a un ruolo del tutto diverso da quello storicamente svolto in passato.

  • Remix Manifesto / Pure Edition

La seconda categoria è quella che più rappresenta la generazione di architetti Remix.
Si tratta infatti di manifesti che attingono in maniera lampante dal repertorio della storia dell’architettura, e si collocano a metà fra la riscrittura, la citazione e la riedizione.
Sono rari e difficili da scovare e forse non possiedono più quell’estrema pretesa di scuotere e rivoluzionare il mondo, componente imprescindibile dei manifesti delle prime avanguardie artistiche del Novecento, e di quelle più tardive degli anni Sessanta.  Ad ogni modo, sembra in loro timidamente sopravvivere la volontà di isolare una data questione e di trattarla con atteggiamento più o meno critico, esprimendo una convinzione più o meno urgente.

È il caso di False Mirror Office, e il manifesto di cui parliamo non è segnalato nella loro caleidoscopica homepage, ma va rintracciato piuttosto nella sezione Research.
Si tratta infatti di un progetto di ricerca, ovvero un contributo a una mostra collettiva curata dallo studio ungherese Paradigma Ariadné. La mostra, 12 Walls, è un invito rivolto a giovani architetti per riflettere sul significato dell’ornamento e della decorazione.
Crime and Ornament è la proposta di FMO: se il titolo resta invariato, il remix sta nell’intera composizione della ricerca. Eppure è la scelta di rifarsi al celebre saggio di Adolf Loos a risultare emblematica dal punto di vista del remix, considerato che fu già Aldo Rossi, in occasione della sua XV Triennale, a riproporre una versione cinematografica del testo originale del 1908.
La pellicola del ‘73, frutto del pensiero di Rossi e realizzata in collaborazione con Gianni Braghieri e Franco Raggi, si offre come una sequenza di frames tratti da grandi classici della cinematografia italiana – Federico Fellini, Luchino Visconti e Mauro Bolognini – intervallati da fotografie di architetture razionaliste e una voce narrante che, come fosse un collage acustico, legge brani dello stesso Loos, di Walter Benjamin e Karl Marx.
False Mirror Office riscrive quindi l’incipit di Crime and Ornament, tracciando una specie di brevissima storia artistico-architettonica dell’ornamento, dove il protagonista non è più il bambino-Papua, ma è il bambino artista-architetto, dapprima libero dal pregiudizio e aperto a tutti gli “stili”, poi assuefatto dall’asciuttezza razionalista, infine esaltato dalla nuova libertà postmoderna.
A coronamento del progetto, è l’opera murale che affresca una delle dodici pareti a disposizione dei partecipanti, componente iconografica della ricerca di FMO.
Sul fondo di uno scuro cielo stellato gravitano, come ordinati pezzi di un meteorite, 32 memorabilia, reperti archeologici di architetture classiche e non, i quali, astratti dalla realtà e non più appartenenti al loro contesto di provenienza, si alterano e si deformano, in poche parole si fanno ornamento.  Così, fra un ricordo del Castel del Monte e frammenti di Monumento Continuo e di Ville Radieuse, si scorgono soprattutto dei chiari episodi rossiani – il cimitero di Modena, il Bonnefantenmuseum, il Teatro del Mondo – un probabile omaggio a chi, di remix, ne sapeva qualcosa.

  • Remix Manifesto / Hybrid Edition

Si può senz’altro affermare che l’architettura, per vocazione, si è sempre scontrata, e incontrata, con altre forme espressive artistiche e culturali, dalle quali ha fruttuosamente tratto ispirazione.
Per questo motivo la terza categoria individuata replica in parte la precedente, ma chiama in causa il carattere trasversale della materia, facendo sì che il remix avvenga a partire da una matrice letteraria, che, esattamente come il Crime and Ornament di Loos, gode già di un’ottima fama fra architetti di diverse generazioni.
Sono Le città invisibili di Italo Calvino a sollecitare l’immaginario di Profferlo, un architecture think tank con base fra Bari e Londra. Profferlo agisce con modalità del tutto analoga a quella prescelta da Paradigma Ariadné, fatto che racconta chiaramente qualcosa in più sulle capacità di interazione degli architetti del network.
Nel 2018 il gruppo barese mette in azione Antilia – un progetto curatoriale itinerante – e invita architetti, artisti e designer internazionali a contribuire alla mostra dal titolo Mirabilia, una reinterpretazione fisica e tridimensionale di 55 “città invisibili” che verranno accolte all’interno degli spazi del Torrione Angioino di Bitonto, lungo un percorso circolare che asseconda l’andamento della pianta.
Si riesce così a intravedere un latente, eppur continuo, ritorno alle certezze del passato, ai capisaldi della storia, e risulta inevitabile domandarsi se un tale fenomeno vada letto come un atteggiamento nostalgico nei confronti di un’elevazione artistica che non tornerà più o se possa al contempo essere indice di un’assenza, della mancanza di adeguati riferimenti contemporanei.
Inevitabile domandarsi inoltre cosa ne penserebbe oggi Calvino, quell’uomo invisibile che amava vivere in una Parigi invisibile, e che, a soli due anni dall’uscita di quel suo libro, dichiarava di volersi difendere dagli atteggiamenti nostalgici e di rimpianto per la vecchia città che scompare, e di voler piuttosto educare lo sguardo a vedere “un sapore, e un valore, anche in quella selva di grattacieli in costruzione, in quell’insieme di forme geometriche”4 di una Défense che nel 1975 rappresentava ai suoi occhi la Parigi del futuro.

  • (No) Filter Manifesto

 Giunti quasi al termine di questa ipotetica scaletta sembra interessante rilevare la presenza di una categoria “addomesticata” di manifesti.
Se ne segnala un’ampia collezione all’interno di un contenitore accademico.
DUE è una pubblicazione settimanale lanciata nell’ottobre 2016 dall’Architectural Association, il cui scopo (così ne dà comunicazione il suo manifesto) è quello di esplorare l’impatto sull’architettura delle tematiche urgenti della contemporaneità, in un’atmosfera permeante sia lo spazio del lavoro, che quello dell’accademia5.
Si tratta di una pubblicazione aperta a chiunque desideri contribuire, così come aperti sono i suoi contenuti, PDF da pochi megabytes, accessibili e scaricabili da qualsiasi utente.
Il formato è sintetico ed efficace, si tratta di flyers digitali, composti da una o due pagine, dove i testi navigano in tutte le direzioni, i font hanno dimensioni diversificate e le immagini, noncuranti, si sovrappongono a tutto il resto.
L’effetto è forse il più vicino all’impatto visivo che possiedono tutt’ora pietre miliari della storia del manifesto di architettura, come il famoso poster metabolista che fissa su carta la Capsule Declaration di Kishō Kurokawa, o ancora i primi editoriali di Archigram.
L’archivio di DUE accoglie così i contributi e le riflessioni di giovanissimi gruppi della Remix Generation e li affianca, democraticamente, a quelli di alcuni big dell’architettura (Yona Friedman, Peter Cook, Petra Blaisse).
Si è deciso di denominarli “manifesti addomesticati” perché è indubbio, né tanto meno celato, che la selezione delle proposte passi attraverso il vaglio di un comitato editoriale scelto, ed è evidente come il marchio identitario dell’AA non si trattenga nel contrassegnare e rendere omogeneo il design grafico del magazine, che nel 2016-17 si presenta in bianco e nero, nel 2018 si veste di rosso, per poi virare in giallo nel 2019.
Si è deciso di denominarli (No) Filter Manifesto perché, in un’epoca in cui tutto è instagrammato al fine di restituire l’immagine più suadente, seppur dietro l’ingegnoso e vigile filtro di una prestigiosa istituzione accademica come l’Architectural Association, esiste uno spazio dov’è possibile oltrepassare interamente qualsiasi confine6.

  • Accidental-Manifesto 

Al quinto e ultimo posto della classifica si è scelto di dar voce in particolare a un collettivo di humor e critica sull’architettura: Multitude – Accidental Architecture.
La cosa che più convince dell’atteggiamento di Multitude è la carica di franchezza che fa da leitmotiv in tutto il loro lavoro.
Il mestiere dell’architetto è soprattutto un mestiere in crisi, dove sembra che ogni cosa giochi a sfavore: la competizione, l’inadeguatezza delle condizioni lavorative, la difficoltà di “mettersi in proprio”.
Multitude racconta il disagio che inevitabilmente esiste dietro la maschera edulcorata.

Forgive me Father for I have sinned è un testo che, con ironia graffiante, dà risalto al lato oscuro di una situazione professionale che meriterebbe maggiori attenzioni e maggiori tutele, ed è principalmente un messaggio che ha tutta l’aria di una protesta.
Con estrema sincerità Forgive me Father restituisce l’immagine di un architetto alla resa dei conti con sé stesso, che si domanda il senso delle notti trascorse lavorando davanti allo schermo di un computer, di aver tenuto per sé un’opinione diversa al fine di non mostrare il proprio disaccordo, di aver scelto di imparare ad utilizzare un software piuttosto che uno strumento musicale, e infine che si domanda il senso di aver perso l’opportunità di vivere per dover dare priorità alla ricerca del gradiente adatto fra due retini. 7

Il risultato è un testo fortemente sarcastico, connotato da una solennità chiaramente presa in prestito dal contesto religioso, e che nonostante l’evidente aspetto caricaturale, ci fa credere (e sperare) che un manifesto critico possa ancora esistere.

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  1. I due convegni a cui si fa riferimento sono la Manifesto Marathon (18-19.10.2008) tenutasi al Serpentine Pavilion, Londra e il convegno What Happened to the Architectural Manifesto? (18.11.2011) organizzato dal Columbia University GSAPP, New York City
  2. Charles Jencks, The Volcano and the Tablet, introduzione a Theories and Manifestos of Contemporary Architecture, Academy Editions, Chichester, 1997
  3. Per chiarire il significato di Remix si faccia riferimento alla definizione contenuta su Wikipedia
  4. Italo Calvino, dalla videointervista Italo Calvino. L’uomo invisibile (fatta da Valerio Riva a Italo Calvino) regia di Nereo Rapetti, Parigi, 1975
  5. Estratto dal manifesto di DUE, Ottobre 2016
  6. Ibid.
  7. Estratto da Forgive me Father, Multitude, Marzo 2015. Il testo originale in inglese (I have sinned of miss­ing the oppor­tu­nity of liv­ing, because I had to find the right gra­di­ent between two hatches) gioca ad esempio sull’utilizzo della terminologia tipica dei comandi di AutoCad, software per il disegno tecnico 2D o 3D, enfatizzando l’aspetto parodistico della situazione descritta.