#REMIX: Track 08

#Remix: una tecnica di produzione innocente
di Marco Biraghi

“Non c’è più lavoro, non c’è più religione, non c’è più educazione, non c’è più cultura”
Non c’è neanche un cazzo di ritornello.
Lo Stato Sociale, Mai stato meglio

Come ben chiarisce l’autorevole definizione di Wikipedia: «Il remix è il risultato della modifica di un prodotto attraverso l’aggiunta, la rimozione o il cambiamento di una o più delle sue parti. Una canzone, un’opera d’arte, un libro, un video, un progetto o una fotografia possono tutti essere “remixati”». Il remix consiste dunque in un rimescolamento del già noto al fine di produrre un non-ancora-noto, o meglio piuttosto, un inedito/inaudito che rammenta però qualcosa di già conosciuto. Tale pratica del “rimando”, implicito o esplicito, si incrocia variamente con altre pratiche ormai da tempo consolidate (la citazione, la copia, il remake, l’adattamento, la cover), e a suo fondamento teorico potrebbe eleggere l’affermazione di Giorgio Grassi secondo la quale, poiché tutto è già stato detto, non rimane che la ripetizione a disposizione di chi voglia affermare qualcosa; anche se – si potrebbe chiosare con Gilles Deleuze – nel caso del remix si tratta di una ripetizione differente.

La medesima definizione di Wikipedia (di cui il presente testo rappresenta un cosciente, volontario e fraudolento remix) ricorda come tra le tipologie di remix maggiormente note vi siano: l’Extended Remix, il Vocal Mix, l’Instrumental Mix, il Dub Mix, il Club Mix. A questi si potrebbero aggiungere lo Studio Mix, il Radio Mix, il Mega Mix, il Party Mix, il Daytona Remix, il Dabliu Dabliu Mix, il Mix Mix e molti, molti altri generi ancora di remix. Elemento comune a tutte queste versioni è l’indefettibile legame con un – quale che sia – “testo” d’origine, al quale può capitare qualsiasi cosa tranne che venir meno, vale a dire non esserci.

In realtà, se il remix fosse dotato di una teoria, tale teoria ricalcherebbe – momento per momento – lo sviluppo storico delle arti, dai primi graffiti incisi o dipinti sulla roccia dagli uomini del paleolitico fino all’ultima immagine pubblicata su Instagram. Così gli uri rappresentati nelle grotte di Lescaux potrebbero essere considerati un remix degli uri che si aggiravano a quell’epoca nel bacino di Aquitania, esattamente come l’ultima immagine pubblicata su Instagram è con ogni probabilità il remix – conscio o inconscio, non ha nessuna importanza – di un’altra immagine che si aggira nella nostra epoca da qualche parte nella rete. Forse si potrebbe addirittura ipotizzare l’esistenza di una sorta di catena continua di passaggi (ovvero di remixaggi) da un’immagine (o da una sequenza di lettere, o di suoni) all’altra nel corso della storia, tale per cui davvero nulla si è creato (e nulla si è distrutto) ma tutto si è remixato. E forse, se non stiamo ancora remixando gli uri, è per la semplice ragione che l’uro si è estinto nel XVII secolo.

Considerata in questo senso, la tecnica del remix costituisce la pietra basamentale della cultura umana, lo stigma stesso del processo mimetico che ne ha segnato la nascita e la crescita. Se è proprio il principio mimetico quello su cui si fonda l’impulso umano a produrre qualcosa, si potrebbe agevolmente affermare che ogni produrre è sempre stato e continua a essere un riprodurre. Ciò spoglia la riproduzione da ogni colpevolezza, con buona grazia di quanto affermava Platone in merito all’arte come imitazione di un’imitazione. Ciò che la rendeva tale, per il filosofo ateniese, era il suo essere copia del mondo sensibile, che è a sua volta copia delle idee iperuranie. Da qui la concezione dell’arte come un inganno, e del suo artefice come un “ciarlatano”.

Va tuttavia precisato che la Politéia platonica non teneva conto del remix. Un’indubbia mancanza, alla quale autori successivi hanno cercato di porre rimedio. Uno di essi – Michael Joseph Jackson, più noto con il nome di Michael Jackson – nel 1997 ha dedicato una propria opera, pressoché nella sua interezza, al tentativo di dimostrare la fondatezza ontologica del remix. Già il titolo per esteso dell’opera – Blood on the Dance Floor: HIStory in the Mix – allude in modo trasparente alla volontà cosciente del Jackson di “far segno” del carattere essenziale del mix (o remix). Ponendosi in esplicito rapporto con il precedente HIStory: Past, Present and Future – Book I (1995), HIStory in the Mix costituisce l’incarnazione più efficace, nonché la prova tangibile e al tempo stesso trascendentale, della potenza del remix. È infatti semplicemente remixando alcune delle proprie composizioni presenti in HIStory (inutile profondersi sul raffinato gioco linguistico – di natura prettamente derridiana – operato mediante l’uso delle maiuscole e delle minuscole, che crea un evocativo doppio senso), che il Jackson consegue lo strabiliante risultato di vendere 7,5 milioni di copie dell’opera, che risulterà così l’album di remix più venduto della storia della musica, dopo che già il precedente HIStory aveva venduto oltre 30 milioni di copie nel mondo, divenendo in tal modo il doppio album più venduto di sempre di un artista solista. Una “verifica” che il Jackson compie con un evidente intento epistemologico.

Nessuna parola – meglio della fruizione diretta dell’opera – può lasciar trasparire la complessità dell’operazione compiuta: non istituendosi affatto, tra il testo originale e il remix che ne deriva, un rapporto di semplice, banale rifacimento o reinterpretazione. Vi è al contrario un raffinato intervento di decostruzione e ricostruzione del ritmo e della stessa linea melodica delle composizioni, che vengono in tal modo reinventate per intero, senza tuttavia perdere mai il contatto con l’originale.

Almeno un accenno merita da ultimo la copertina: del tutto chiaro risulta il carattere di remix del ritratto pittorico del Jackson, eseguito dall’artista Will Wilson sulla base di una fotografia scattata da Bill Nation. Meno perspicua – benché ai nostri occhi assai più interessante – appare invece la natura dello sfondo, composto da un pavimento a scacchi bianchi e neri traslucidi rappresentato prospetticamente e da uno skyline di grattacieli e nuvole. Su questi ultimi – unitamente alla posizione delle braccia dell’autore – si sono appuntate le esegesi di alcuni interpreti, che hanno voluto leggere in questa immagine un raro esempio di remix prossimo venturo (ovvero di ciò che letteralmente si potrebbe definire HIStory Future): la prefigurazione remixata del crollo delle Torri Gemelle, avvenuto quattro anni dopo. Va precisato che né il Jackson né il Wilson hanno mai rilasciato dichiarazioni al proposito.

Al di là di una simile – probabilmente azzardata – interpretazione, l’immagine di Blood on the Dance Floor può richiamare (remixare?) un’altra immagine, apparsa quasi settant’anni prima: il disegno a carboncino che apre la seconda parte di Metropolis of Tomorrow (1929) di Hugh Ferriss. La figura umana che vi compare non accenna ad alcun passo di danza; né il suolo che calca è in alcun modo assimilabile a un terso e liscio pavimento. L’energia che lo carica, tuttavia, sembra promanare – come nell’altro caso – dai grattacieli che troneggiano sullo sfondo. E sono proprio questi ultimi a costituire il più consistente elemento di continuità tra l’immagine di Ferriss e quella di Wilson: in entrambe, infatti, l’orizzonte è occupato da gigantesche “formazioni”, “accumulazioni” di materia che, a quelle in primo piano dal carattere più distinto, lasciano il posto ad altre ancora più alte ma meno definite: torri tanto imponenti quanto in apparenza fatte di materia impalpabile, immaginale, gonfie e vaporose come cumulonembi.

Se ciò mai dimostrasse qualcosa, sarebbe che il remix può annidarsi dovunque. E soprattutto: che si tratta di una tecnica di produzione innocente. L’innocenza (quantomeno presunta) del remix è testimoniata dal fatto che esso è praticato oggi da miriadi di autori sul pianeta, appagati dalla possibilità di remixare liberamente immagini, testi, brani musicali aggirando le pur severe leggi sul copyright; ma anche dal senso più essenziale e profondo a cui tale pratica tacitamente rimanda. In un mondo come quello nel quale viviamo, che potrebbe facilmente apparire (o di fatto essere) sotto molti punti di vista “sold out”, chi si avvale della tecnica del remix fa mostra di ritenerlo, se non ancora vergine, almeno in una certa misura “sovrascrivibile”. Remixare il già fatto significa considerare quest’ultimo “materiale” disponibile, impiegabile, esattamente come l’uomo del paleolitico considerava tali gli uri della pianura. Non materiale “culturale” già “usato”, invecchiato, e dunque esaurito, bensì nuovo materiale bell’e pronto all’uso. In nessun modo coloro che praticano il remix si chinano con sacrale, filologico rispetto sul testo d’origine a cui daranno nuova vita per salvare quella precedente. Più che lo spirito del conservatore, li anima quello del predatore, sia pur non cruento. Nelle loro mani il nostro mondo ormai “antico” è tutto da esplorare e da conquistare da capo, incluso lo strato che l’uomo vi ha depositato negli ultimi 50.000 anni.

Non si tratta di cecità o di ignoranza. È una semplice tecnica di sopravvivenza: se i posti a sedere risultano tutti occupati, non resta che sedersi dove c’è già qualcun altro. In ciò, anziché una dimostrazione di colpevolezza, bisogna vedere una forma estrema di innocenza. Il tentativo di riconquistare una condizione edenica, quando questa sembrava ormai inesorabilmente perduta.

Per gli Adami e le Eve attuali il Paradiso non è un luogo mitico, è un territorio da remixare.