È sempre bella la città? Marco Biraghi

La “morale” di Leopardi (e di Gizmo)

È sempre bella la città? È sempre stata bella la città? A sentire il Leopardi delle Operette morali, la città (in modo particolare la «città grande») racchiude in sé non pochi problemi: «Chiunque poi vive in città grande, per molto che egli sia da natura caldo e svegliato di cuore e d’immaginativa, io non so […] come possa mai ricevere dalle bellezze o della natura e delle lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcun’immagine sublime o leggiadra. Perciocché poche cose sono tanto contrarie a quello stato dell’animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la conversazione di questi uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza vana, della leggerezza delle menti, della falsità perpetua, delle cure misere, e dell’ozio più misero, che vi regnano».

Si potranno ritenere “passati” tali giudizi, e viziati per di più dalla tendenza leopardiana a «trapassa[re] in solitudine il più del tempo» nella natìa Recanati. I giudizi cioè di un individuo “asociale” e “provinciale” della prima metà del XIX secolo, che non sa neanche cosa sia la «città grande», e molto semplicemente la teme.

Può essere. Leopardi tuttavia è ben altro che un piccolo uomo di provincia depresso e gravato da numerose malattie: è una delle menti filosoficamente più acute del suo tempo, in grado di vedere in anticipo rispetto alla gran parte dei suoi contemporanei, e di conseguire profondità difficilmente raggiungibili anche dalla gran parte di noi contemporanei. 

Quindi vale forse la pena prestargli orecchio; così come quando, in un appunto scritto a Roma, poi compreso nello Zibaldone, nota che «[…] nelle città grandi […] tutto è falso, e questo falso non è bello, anzi bruttissimo» ; o come quando, in una lettera da Milano al fratello Carlo, si riferisce a quest’ultima come a una città «dove centoventi mila uomini stanno insieme per caso, come centoventi mila pecore».

Le considerazioni critiche contenute nelle parole dell’Operetta morale citate – quand’anche fossero ritenute condivisibili e in qualche modo utilmente rapportabili alla situazione odierna – rimarrebbero comunque sterili se non fossero seguite da una pars construens che Leopardi non manca di includere: «Io penso che le opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle città mediocri e piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini, parte pieni d’infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll’animo connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza e alla vanità, rarissime volte sono capaci di pensieri intimi dello spirito».

Anche in questo caso, si potrebbe obiettare che all’analisi di Leopardi “manca” il dato della possibileintroiezione ed elaborazione produttiva degli choc metropolitani, che verrà riconosciuta soltanto decenni più tardi lungo la linea poetico-interpretativa che unisce Baudelaire, Simmel e Benjamin. Ma più che l’aspetto interdittivo, quello che va rintracciato nelle affermazioni leopardiane è l’aspetto predittivo: dicendo che le opere di architettura (per limitarsi a queste soltanto) sarebbero godute meglio se fossero distribuite nelle città di provincia, «mediocri e piccole», anziché essere «accumulate» nelle metropoli, Leopardi anticipa una realtà che è già sotto i nostri occhi. 

Sono le città «mediocri e piccole» quelle in cui l’architettura può ancora “sperare” di avere dimora, vale a dire di crearvi – o di farvi sopravvivere – dei luoghi; mentre la «città grande» è ormai diventata da tempo – con l’esclusione di eccezioni rarissime –  la “tomba” dell’architettura. 

Non è – quest’ultima – la posizione di Leopardi. Per lui l’architettura (la vera architettura, ovvero la bellaarchitettura) non è affatto antitetica alle grandi città: semmai è la percezione che ne ha chi vi vive il problema. «La moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l’animo in guisa, che non attendendo a niuna di loro se non poco, non può ricevere un sentimento vivo; o genera tal sazietà, che elle si contemplano con la stessa freddezza interna, che si fa qualunque oggetto volgare».

Pur giungendo a una conclusione diversa da quella più sopra indicata (per Leopardi – va ribadito – l’architettura delle grandi città non cessa affatto di essere tale, ovvero essa può ancora, nonostante tutto, essere bella), quella che egli individua come la causa del problema può essere utile anche a spiegare – e potenzialmente a correggere – la situazione attuale, sempre naturalmente che la si consideri tale. Forse è uno degli effetti di una sazietà dimensionalmente troppo estesa e temporalmente troppo prolungata, sulla base della quale si finisce per considerare una bella architettura con la stessa freddezza con cui si guarderebbe un «qualunque oggetto volgare», l’avere prodotto in noi cittadini della grande città la tacita accettazione di «qualunque oggetto volgare» in luogo di una bella architettura.

Sappiamo ovviamente come molte cause diverse, oltre a quello estetico-percettiva, qui entrino in gioco: cause economiche, culturali, politiche, e altre ancora di svariata natura. E tuttavia, ciò non deve escludere il ruolo che possiamo avere noi cittadini – ma anche noi architetti – della grande città in questa partita; o meglio che potremmo avere se soltanto fossimo in grado di destarci dal torpore di cui quotidianamente siamo preda (o di risvegliarci, come scrive Benjamin, «dal sogno di essere desti»), e tornare a dar voce ai nostri bisogni, ai nostridesideri, ai «pensieri intimi dello spirito». E così facendo, non soltanto accettare che la città sia così come è, ma anche chiedere, e addirittura pretendere, che essa possa essere bella. Per questa ragione è un esercizio tutt’altro che ozioso domandarsi: è sempre bella la città?