È sempre bella la città? Antonio De Rossi

Torino, o delle multiscalarità assenti ma necessarie

Vivo tra il qui e il là, tra la montagna e la città, tra la val Pellice e Torino. Dire che vivo tra qui e là ha valenza proprio letterale, perché in mezzo tra il luogo dove abito e quello dove principalmente lavoro, il Politecnico di Torino, faccio ancora tante altre cose. Un lavoro minuto di supporto alle politiche di sviluppo e rigenerazione delle comunità, di progettazione territoriale o architettonica, in una sorta di movimento continuo.

La mia, potremmo dire così, è un’esistenza metromontana. Ho curato un libro sulla Metromontagna nel 2021, uscito per Donzelli, insieme al sociologo Filippo Barbera. La matrice geomorfologica e insediativa di Torino e del Piemonte ben si presta a questa idea di un continuum territoriale che intreccia tessuti costruiti e trame vallive e naturali, perseguendo un’idea di mutua cooperazione tra le parti e non di opposizione. La pandemia, e più in generale il cambiamento climatico, hanno reso evidente la necessità di questa collaborazione tra città e montagna potenzialmente fruttuosa.

Vivere in movimento e osservare i fatti territoriali da più punti di vista aiuta a destrutturare alcuni luoghi comuni e lenti precostituite, e a farsi un’idea delle ragioni delle dinamiche trasformative in rapporto alle medie-lunghe durate. In sessant’anni di vita le configurazioni e le rappresentazioni di queste interazioni e rapporti tra differenti brani territoriali sono mutate più volte. Alla città fordista che negli anni ’70 del Novecento aveva raggiunto 1.200.000 abitanti, divenendo una specie di buco nero che aveva inghiottito lo spazio regionale, era seguita la Torino della crisi e della ristrutturazione industriale, la diaspora verso le prime e seconde cinture, una prima reinvenzione e riassestamento dei territori lontani dalla città metropolitana. Nel 1985 Arnaldo Bagnasco scrive un libro decisivo, Torino. Un profilo sociologico, che invita a vedere la ville industrielle da fuori, perché il nucleo è troppo denso per riuscire a immaginare nuovi destini per la ex capitale dell’auto e della manifattura metalmeccanica. È l’avvio di una fase di grande dinamismo e innovazione, che vede fino ai Giochi olimpici invernali del 2006 Torino impegnata in una grande trasformazione, innanzitutto mentale e poi anche fisica, con la mobilitazione di vasti gruppi di portatori di interessi. Anche il territorio intorno cambia, è oggetto di vasti processi di valorizzazione e patrimonializzazione, di nascita di nuove economie, che creano percorsi altri oltre la tradizionale dicotomia novecentesca tra spopolamento e turismo di massa.

La crisi del 2008-09 non vede Torino capace di rinnovare la sua visione, che diventa reiterazione di una stanca liturgia. Dopo cinque mandati del centrosinistra, nel 2016 il Movimento 5 Stelle conquista Torino. È un tema di crisi, innanzitutto culturale, di classi e quadri dirigenti pubblici e privati. Ma è anche la presa d’atto di assetti geografici radicalmente cambiati, che passano per l’asse del Brennero e la via dei Balcani. Il passaggio a nord-ovest è divenuto cul-de-sac. Ed è anche l’attestazione che il Modello Torino degli anni ’90, ridotto a ricetta fondata sul turismo e ricerca di finanziatori dall’estero senza innovazione produttiva e costruzione di nuovi valori d’uso, è privo di futuro. La crisi porta con sé il territorio della provincia, e quelle montagne del turismo industriale inventato dagli Agnelli. Altri territori emergono con forza, come quel Cuneese che per tutta la parte centrale del Novecento era stato simbolo di arretratezza e immobilismo, e che da tempo sono Terza Italia che sa costantemente rinnovarsi.

Torino è una città stanca. Anziana. La qualità della vita sembra essere in costante arretramento, e per la prima volta dopo decenni una violenza endemica attraversa le sue periferie. Eppure, Torino non è solo una città bellissima, specifica nel suo essere eccentrica rispetto al canone di italianità classica nonché profondamente incisa dalla sua matrice ambientale e geomorfologica. Torino ha risorse immense, nel suo patrimonio di savoir faire produttivi e nelle innovazioni portate avanti dai suoi due atenei.

Immemore della frase di Bagnasco ha ricominciato a guardare esclusivamente al proprio ombelico, sognando astratti capitali e dimenticando di mobilitare in primis le proprie risorse tecnico-culturali e territoriali. Come una sorta di cartonato, Torino è oggi priva di spessore multiscalare, arrogante nel suo pensare l’intorno territoriale privo di rilevanza. Il Modello Torino ridotto a mera ricetta dimentica che quello spazio urbano negli anni ’80 e primi ’90 fu innanzitutto uno straordinario laboratorio e piattaforma di innovazione culturale e tecnologica (dal cinema, passando per l’arte contemporanea e il punk, fino alla ricerca scientifica applicata) di livello europeo. Da lì, passando per percorsi a zig-zag e mai diretti, nacque l’energia e la contaminazione di culture che permisero a Torino di immaginarsi oltre quella eroica dimensione novecentesca che sembrava non oltrepassabile. Del resto è a questo che servono in primo luogo le città.

Nel momento della crisi della città industriale pulsavano sotto le ceneri novelle visioni, frutto di uno sforzo collettivo e creativo che visto da oggi pare immane. Nel momento della glorificazione narrativa olimpica del 2006 erano già evidenti i segnali della futura nuova crisi. C’è sempre uno sfasamento tra percezione e realtà, e a seconda dei momenti storici può essere fruttuoso o pericoloso.

Oggi, al di là due atenei e di una certo non residuale dimensione produttiva dalle valenze innovatrici, quell’energia a suo modo visionaria non pare profilarsi all’orizzonte. Certamente tanti singoli frammenti, ma senza un tessuto. In questo l’esercizio di ripensarsi città dalle molteplici dimensioni geografiche e territoriali che ci ha insegnato Arnaldo Bagnasco, così inscritte nel codice genetico di questa città, sta forse un punto di leva. Ma qui centrale deve essere il pubblico, che prima ancora che perseguire la propria proiezione di idea di sviluppo della città deve creare le condizioni affinché mille rose fioriscano. E questa è una distinzione radicale, come ci insegna proprio la storia di Torino.