Anatomia del presente: riflessioni sulla 24ª Triennale di Milano

di Eugenio Lux

Nel corso del Novecento, le Esposizioni Internazionali della Triennale di Milano hanno assolto al duplice ruolo di termometri del presente e barometri del futuro, registrando con acutezza le tensioni, le speranze e le contraddizioni che attraversavano il loro tempo. La ricostruzione postbellica nel 1947, la produzione industriale nel 1951, il tempo libero nel 1964, il grande numero nel 1968, la questione ambientale nel 1992, solo per citare alcuni dei momenti più significativi. 

In continuità con una tradizione capace di intercettare e rappresentare le trasformazioni della modernità, la Triennale torna a essere ciò per cui era stata concepita: un luogo di confronto pubblico, riflesso delle domande e delle sfide del presente su scala globale. Con Inequalities, la XXIV Esposizione Internazionale di Triennale Milano – aperta dal 13 maggio al 9 novembre 2025 – si chiude la “trilogia” della presidenza di Stefano Boeri, inaugurata nel 2019 con Broken Nature e proseguita nel 2022 con Unknown Unknowns. Dopo le riflessioni ecologiche e quelle cosmiche, la Triennale torna a interrogare la condizione umana, affrontando una questione tanto urgente quanto sfaccettata: quella delle disuguaglianze. Economiche, geografiche, culturali, di genere: disuguaglianze sistemiche, strutturali, sempre più estreme e pervasive, che segnano le traiettorie delle vite e delle città contemporanee. 

All’ingresso della Triennale, l’installazione Forme di disuguaglianze di Federica Fragapane accoglie i visitatori con una rappresentazione visiva delle molteplici asimmetrie che definiscono il nostro tempo. Attraverso un linguaggio infografico – seppur a tratti un po’ rigido – l’opera mette in luce il divario economico tra ricchezza e povertà, la sproporzione tra chi produce e chi subisce la crisi climatica, la povertà urbana, le migrazioni, la mobilità sociale, le disuguaglianze di genere e di accesso alle risorse, fino alla disparità di aspettative di vita e alla perdita di biodiversità. Da qui, all’interno del Palazzo dell’Arte, si sviluppano otto mostre articolate in due grandi nuclei tematici: al piano terra, la “geopolitica delle disuguaglianze”, che analizza i rapporti di forza a livello globale; al primo piano, la “biopolitica delle disuguaglianze”, che ne indaga le conseguenze sui corpi, sugli individui e sulle condizioni di vita.

La mostra Cities, a cura di Nina Bassoli, costruendo una geografia immaginaria, un atlante di luoghi, temi e progetti provenienti da tutto il mondo, si interroga sulla nuova dialettica tra ricchezza e povertà, società e comunità, ecologie e città, e le sorprendenti forme in cui queste possono manifestarsi oggi all’interno dei contesti urbani. 

Le metropoli, un tempo celebrate come luoghi “dello spirito”, oggi coacervi di differenze, sono al centro delle partecipazioni nazionali che si concentrano sulla dimensione urbana per dare vita a una riflessione corale su una società capace di trasformare la diversità in risorsa. Ad aprire il percorso dei “padiglioni nazionali” è l’installazione Lo spazio delle disuguaglianze. Ambiente, mobilità e cittadinanza, curata dal gruppo di lavoro del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani e di CRAFT del Politecnico di Milano.

L’esposizione Verso un futuro più equo, curata dalla Norman Foster Foundation, mostra con particolare evidenza il rischio della vaghezza progettuale: buone intenzioni, prototipi visionari e promesse tecnologiche si accumulano senza generare un impianto critico solido. Più che una strategia, sembra un’autocelebrazione della capacità delle éliteprogettuali di “immaginare” soluzioni per altri. Il potere resta fuori campo.

Nell’Atlante del mondo che cambia, le mappe curate da Maurizio Molinari – tutte rigidamente eurocentriche – propongono una lettura delle disuguaglianze globali che, pur rivelando fratture profonde all’interno delle nostre società e delle nostre città, finiscono per riprodurre lo sguardo parziale da cui derivano. La tradizionale opposizione tra nord e sud del mondo viene sì messa in discussione ma solo attraverso categorie che restano ancorate a una visione geopolitica occidentale. 

Alcuni interventi brillano per originalità. È il caso di Beatriz Colomina e Mark Wigley che intervengono con la mostra We the Bacteria. Appunti per un’architettura biotica, interrogandosi su come la salute, sempre più concepita come l’equilibrio dell’ecosistema dei batteri che popolano i nostri corpi e l’architettura si intersechino. I batteri diventano dunque lo strumento – the great gizmo – attraverso cui l’architettura e la città sono evolute nel corso dei secoli. La disuguaglianza all’interno dei nostri corpi è infatti vitale: la riduzione della diversità microbica che ci abita – oggi inferiore del 50% rispetto a quella dei nostri antenati – è tra le cause di molte malattie contemporanee, mentre la crescente resistenza dei batteri agli antibiotici potrebbe diventare la principale causa di morte entro il 2050. In questo scenario l’architettura gioca un ruolo fondamentale aprendo la possibilità di pensare a un nuovo paradigma di convivenza e collaborazione interspecie in cui microbi e batteri siano nostri alleati piuttosto che dei nemici. 

Telmo Pievani, con la mostra Un viaggio nella biodiversità. Otto stazioni sul pianeta Terra, ci propone di cercare all’interno della biodiversità la chiave per smettere di distruggerla: materiali innovativi, modelli di economia circolare, farmaci, rigenerazione delle risorse. La crisi ambientale è a tutti gli effetti una sfida di architettura evolutiva: per contrastare le disuguaglianze e le asimmetrie tra responsabilità e conseguenze del cambiamento climatico, è necessario guardare all’intera specie umana e alla biodiversità di cui è parte. La diversità nei corpi e le diseguali condizioni ambientali in cui si muovono, condizionano la durata e la qualità della vita. 

The Republic of Longevity, a cura di Nic Palmarini e Marco Sammicheli, sfida la medicalizzazione e le disuguaglianze che limitano l’accesso a un invecchiamento sano. Cinque Ministeri – dello scopo, del sonno, della democrazia alimentare, della libertà fisica e dello stare insieme – mettono in luce come semplici comportamenti quotidiani, eppure oggetto di disuguaglianze, possano diventare strumenti per democratizzare la salute e colmare le disparità sanitarie.

Lo sguardo verso la storia è quello che Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa propongono in Portraits of Inequalities. Pittura di classe, in cui raccontano la funzione filantropica in un esempio di democratizzazione della sanità: la Ca’ Granda. A Milano, infatti, si conserva una raccolta straordinaria di oltre novecento ritratti dei benefattori dell’Ospedale Maggiore, una collezione di oltre cinque secoli che racconta come le classi privilegiate abbiano scelto di rappresentarsi nell’atto di fare beneficenza nei confronti dei meno abbienti. 

Nel complesso, l’esposizione riesce a dare visibilità a molte voci e molte prospettive, ma fatica a confrontarsi fino in fondo con le proprie implicazioni istituzionali. Mentre si evocano principi di giustizia sociale e redistribuzione, proliferano nel museo forme sempre più raffinate di ipocrisia, capaci di neutralizzare il potenziale critico di tali enunciazioni. Emblematico, in tal senso, è lo sfruttamento sistematico di studenti attraverso “tirocini curriculari” che, sotto la patina retorica della “mediazione culturale”, si traducono nella realtà in mansioni di sorveglianza degli spazi espositivi, controllo dei flussi, verifica dei biglietti… Un meccanismo che, anziché formare, svilisce; anziché includere, riproduce gerarchie e diseguaglianze – o inequalities – all’interno della stessa istituzione che si proclama luogo di apertura, dialogo e innovazione. Così, dietro l’apparente promozione del sapere e della cultura, si cela una logica di precarizzazione sistemica, tollerata se non incentivata, da un sistema che fatica a rinnovarsi. 

La XXIV Triennale non si configura dunque come una mostra sul design o sull’architettura in senso stretto: discipline che, a uno sguardo superficiale, potrebbero sembrare quasi assenti. Piuttosto, mette in scena il mondo – le sue fratture, le sue contraddizioni, le sue speranze – attraverso lo sguardo di chi, progettando lo spazio, tenta di opporsi all’ingiustizia. Ma nel farlo, rischia talvolta di sacrificare il progetto in nome del discorso, e l’architettura in nome del simbolo, lasciando aperta la domanda su quale ruolo concreto possano ancora avere i progettisti in un mondo così profondamente iniquo.