È sempre bella la città? Elena Granata

Quello che i dizionari non dicono 

Lo confesso. Non mi era mai capitato di cercare su un dizionario la parola “città”. È parola così popolare e d’uso corrente che in trent’anni di studio non avevo mai sentito il bisogno di verificare come venisse definita nei dizionari più comuni. Sono rimasta così profondamente stupita nel vedere quanto riduttive siano le definizioni proposte. Per la Treccani città corrisponde a “centro abitato di notevole estensione, con edifici disposti più o meno regolarmente, in modo da formare vie di comoda transitabilità, selciate o lastricate o asfaltate, fornite di servizî pubblici e di quanto altro sia necessario per offrire condizioni favorevoli alla vita sociale”. Per il Dizionario Garzanti il termine città allude ad “un centro abitato piuttosto esteso, con sviluppo edilizio organizzato, che sul piano amministrativo, economico, politico e culturale rappresenta il punto di riferimento del territorio circostante”. E così via, con poche variazioni sul tema.

A prima vista, nulla da obiettare. La città è descritta come un insieme di elementi fisici (edifici, popolazione), funzionali (attività, servizi) e organizzativi (struttura). Ma è proprio questa apparente neutralità che – sulle tracce della riflessione di Roland Barthes – dovremmo smascherare. Perché anche il dizionario è una forma di potere simbolico: decide cosa conta, cosa rientra nel concetto di città, cosa resta fuori. Così facendonormalizza un modello urbano funzionale, amministrato, performante, riducendo la città a macchina razionale.

Barthes, invece, ci insegna a leggere la città come un testo, un discorso mai chiuso. Le strade, le piazze, i nomi, gli odori, i percorsi erratici non sono “funzioni”: sono segni, connotazioni, desideri inscritti nello spazio. Ogni tentativo di definizione dizionariale è una forma di cancellazione dell’ambiguità viva dell’urbano. La città, quella vera, non è un agglomerato, ma un palinsesto affettivo, una trama simbolica, un luogo di stratificazione e invenzione.

Una città non è una somma di cose. È un organismo vivo, che vive delle relazioni tra le cose. La sua qualità emerge dalle connessioni, non dall’accumulo. È una rete di relazioni che genera esperienza, memoria, identità, futuro. Potremmo dire che una città è fatta di tanti edifici, ma tanti edifici non fanno una città. Anche se la città è fatta di edifici, la semplice somma degli edifici non è sufficiente a costituire una “città” nel senso pieno (sociale, culturale, politico, relazionale). Se vogliamo comprendere cosa sia una città dobbiamo quindi capire cosa sia quel di più che fa di una somma di edifici in prossimità tra di loro, una vera e propria città. E la cosa non mi pare così assimilata neppure nel dibattito tra architetti, se è vero quel che anni fa ci ricordava Giancarlo De Carlo: gli architetti hanno smesso di progettare “per paesaggi” e si limitano a interventi singoli e privi di contesto, come in molti nuovi complessi edilizi (Milano docet).

Una città è fatta di persone. Persone che vivono nello stesso luogo e condividono usi e abitudini e che si riconoscono appartenenti allo stesso spazio esteso: gruppi di persone diventano londinesi, parigine, romane, fiorentine sulla base di una comune appartenenza ad una dimensione fisica e simbolica che le tiene unite. È la dimensione di prossimità e di appartenenza che determina il carattere e l’organizzazione di una città. E questa prossimità è possibile se viene mantenuta una dimensione di spazio pubblico e collettivo.

La città è quello che accade “tra” una casa e l’altra. Sono le interconnessioni, le relazioni, i legami, a determinare la forma e la vita di una città. Abbiamo sperimentato tutti durante la pandemia cosa diventi una città quando i cittadini vengono “chiusi” nelle loro abitazioni e privati delle piazze, delle strade, dei parchi, delle strade e degli incontri. La loro vita non è più vita, la loro città non è più una città.

Ecco perché dobbiamo domandarci: che cos’è una città? 

E ancor prima: da dove nasce una città? 

Una città nasce da un atto di immaginazione. Da un atto simbolico, culturale, rituale. Non (solo) da una sommatoria di bisogni funzionali. Nasce da una fondazione, non da una lottizzazione. Da una civitas, non da un’urbs. Una città nasce (o rinasce) da un atto di parola, non da un atto di proprietà. La città non è un oggetto, ma un progetto. È una macchina simbolica, un dispositivo collettivo per rappresentare il mondo e dare ordine all’esperienza umana nello spazio. Il punto non è solo domandarsi che cosa sia una città, ma che tipo di immaginazione la generi, ecco perché il modo in cui raccontiamo, definiamo le città ha impatto sul modo di trasformarle e progettarle.

La città moderna nasce da un’immaginazione funzionalista, razionalista, strumentale. E produce una città-macchina, dove predomina la griglia geometrica, lo zoning come strumento di ripartizione delle funzioni, le pratiche di consumo e soprattutto un’idea di spazio più a misura delle automobili che delle persone. Tutto è separato, ogni elemento ha una funzione. Lo spazio si svuota di senso e si riempie di funzione. Ma la città non è solo funzione. 

La città-macchina è una città che separa. Separa lavoro e abitare, produzione e riproduzione, economia ed ecologia, tempo e spazio, centro e periferia, maschile e femminile, città e campagna. La città vivente è una città che connette. Che genera prossimità, fiducia, relazione, senso. Che cura la qualità delle connessioni più che la quantità delle cose. Che investe nei legami, nei tempi lenti, nelle soglie, nei vuoti. Che genera luogo, non solo spazio. Che non risponde solo a dei bisogni, ma coltiva dei desideri.

Henri Lefebvre nel suo Il diritto alla città (Marsilio, 1976) ci ricorda che la città non è un prodotto – marchandise – un bene da scambiare nel mercato, ma un’opera – oeuvre – che viene continuamente creata, vissuta e trasformata dai suoi abitanti. La distinzione tra opera e prodotto è cruciale per comprendere la sua critica alla mercificazione della vita urbana e alla trasformazione degli spazi cittadini in entità da consumare. Oggi il tema torna prepotentemente nella città del consumo, della rendita e della finanza. Dovremmo tornare al suo pensiero radicale con nuova curiosità. 

La città è un’esperienza collettiva. Esperienza che sfida l’idea di uno spazio passivo e destinato solo al consumo. La città come opera si riferisce a una realtà dinamica, fatta di pratiche quotidiane, di relazioni sociali e di esperienze vissute. Non è solo il risultato di decisioni architettoniche o urbanistiche, ma è anche un processo che coinvolge gli abitanti nella sua costruzione, nel suo significato e nella sua trasformazione. D’altro canto, la visione della città come “prodotto” è figlia del capitalismo urbano, dove gli spazi vengono concepiti come beni immobiliari e merci da scambiare, da vendere, da affittare. Questo approccio riduce la città alla sua dimensione economica, ignorando le sue potenzialità sociali e culturali. E compromettendo la stessa possibilità di abitare la città.

Ripensare la città richiede quindi un’altra grammatica. Altre definizioni. Un altro linguaggio. Un altro modo di nominare le cose. È un lavoro simbolico, prima ancora che tecnico. Serve una nuova alleanza tra saperi. Serve una nuova ecologia della città. Serve una nuova immaginazione. E forse serve anche riscrivere con più sentimento, poetico e politico, qualche lemma del nostro dizionario.