Breve commentario alla Stop City

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di Marco Biraghi

Alcune considerazioni sul progetto di Stop City di Dogma (Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara):

1) «[…] il progetto della città non può che implicare una concezione comune e, dunque, generica dello spazio». Dopo decenni di affermazione – e di rivendicazione – del carattere strettamente locale del progetto di architettura (e di quello a scala urbana ancora a maggior ragione), Stop City prova a tornare a ragionare in termini generali, su ciò che l’architettura deve avere in comune per essere considerata parte costituente della città, ovvero per rispondere effettivamente a un’idea di città.

Dopo decenni di architettura che si è limitata semplicemente a imporre la propria individualità alla città oppure, in alternativa, ha tentato disperatamente di ridare alla città la (presunta) identità che questa aveva ormai perduto, Stop City ha il coraggio di impostare la questione dell’architettura sul piano della città, e non di risolvere la questione della città sul piano dell’architettura. Lo fa mettendo fra parentesi tutta la strumentazione che in precedenza era sembrata assolutamente fondamentale e addirittura imprescindibile (tipologia, morfologia, stile, immagine, ecc.), e ricorrendo invece alla pura architettura, spogliata per quanto possibile di qualunque ridondanza “figurativa”.

2) «[…] Stop City vuole essere l’inizio di una lenta ma inesorabile rivincita della città intesa come forma politica sull’urbanizzazione intesa come apparato gestionale». Da molti (troppi) anni, il territorio della città si è andato confondendo con i confini malcerti e onninvasivi dell’urbanizzazione. Caratteristica di quest’ultima è di essere onnivora, di inglobare tutto. Non soltanto una grande quantità di edifici, ma anche la gran parte delle teorie urbane, negli ultimi anni, hanno insistito sull’urbanizzazione, tralasciando completamente di occuparsi della città. Da Learning from Las Vegas allo Urban Sprawl, per giungere fino alla progressiva “metropolizzazione” del pianeta, è sempre il fenomeno dell’urbanizzazione a essere al centro dell’azione e dell’attenzione, e niente affatto la città. Il progetto di Stop City riguarda invece la città in senso proprio, ovvero – non a caso – la definizione dei suoi limiti.

3) « […] stabilire un limite» per la città equivale automaticamente a operare «contro la sua frammentazione e parcellizzazione». La questione del limite è essenziale, e non solo nel caso della città. «Il segreto della forma – scriveva esattamente cent’anni fa Georg Simmel – sta nel fatto che essa è confine; essa è la cosa stessa e, nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio circoscritto in cui l’Essere e il Non-più-essere della cosa sono una cosa sola». Da ciò discende logicamente che il limite è l’essenza stessa della forma, ciò che rende la forma quella specifica forma. E altrettanto non a caso, «limite dell’urbanizzazione e vera forma di Stop City» è «un grande spazio ipostilo aperto», che si definisce per antonomasia come “altro” dallo spazio urbano: la foresta.

4) «Ciascun edificio di Stop City è una città nella città, una Immeuble Cité, vale a dire una città non caratterizzata da alcun programma o attività poiché essa stessa supporto di innumerevoli programmi ed attività». Le Corbusier, Oswald Mathias Ungers, Rem Koolhaas, oltre ad Archizoom e a Ludwig Hilberseimer, sono dunque i più o meno evidenti e rilevanti riferimenti per Stop City; così come pure «il teatro di Beckett e la pittura di Gerhard Richter, ma anche i primissimi progetti di Rossi (il quadrato del centro Direzionale di Torino) e il progetto di Brasilia di Lucio Costa (senza Niemeyer)» (P. V. Aureli).

Un ulteriore riferimento per Stop City, “inconsapevole”, ovvero “imprevisto” (nel senso proprio del termine), potrebbe essere il Centro descritto da José Saramago in A Caverna (2000): un gigantesco edificio di 50 piani di altezza dove, insieme ad appartamenti di piccole dimensioni (in ciascuna delle unità di Stop City «la residenza è composta solo da stanze per una persona [al massimo due] ciascuna»), sono alloggiati «innumerevoli programmi ed attività». Così li descrive Saramago: «L’ascensore attraversava lentamente i piani, mostrando successivamente i pianerottoli, le gallerie, i negozi, le scalinate, le scale mobili, i punti d’incontro, i caffè, i ristoranti, i terrazzi con tavoli e sedie, i cinema e i teatri, le discoteche, alcuni enormi schermi televisivi, arredi infiniti, i giochi elettronici, i palloni, gli zampilli e altri effetti d’acqua, le piattaforme, i giardini pensili, i manifesti, le banderuole, i pannelli pubblicitari, i manichini, i salottini di prova, la facciata di una chiesa, l’entrata alla spiaggia, una tombola, un casinò, un campo da tennis, una scuola, una montagna russa, un giardino zoologico, una pista di automobiline elettriche, un cinerama, una cascata, tutto in attesa, tutto in silenzio, e altri negozi, e altre gallerie, e altri manichini, e altri giardini pensili, e cose di cui probabilmente nessuno conosce i nomi, tipo un’ascensione al paradiso». E poi ancora: «[…] una giostra coi cavalli, una giostra con missili spaziali, un centro per i più piccini, un centro per la terza età, un tunnel dell’amore, un ponte sospeso, un treno fantasma, lo studio di un astrologo, una sala di scommesse, un poligono di tiro, un campo da golf, un ospedale di lusso, un altro meno lussuoso, un bowling, una sala da biliardo, una serie di calcetti, una mappa gigante, una porta segreta, un’altra con un’insegna che dice prova sensazioni naturali, pioggia, vento e neve a discrezione, una muraglia cinese, un taj-mahal, una piramide d’Egitto, un tempio di karnak, un acquedotto das águas livres che funziona ventiquattr’ore al giorno, un convento di mafra, una torre dos clérigos, un fiordo, un cielo d’estate con nuvole bianche che si muovono, un lago, una palma autentica, un tirannosauro a scheletro e un altro che sembra vivo, un himalaya con il suo everest, un rio delle amazzoni con indios, una zattera di pietra, un cristo del corcovado, un cavallo di troia, una sedia elettrica, un plotone d’esecuzione, un angelo che suona la tromba, un satellite, una cometa, una galassia, un nano grande, un gigante piccolo, insomma, una lista talmente estesa di prodigi che neanche ottant’anni di vita oziosa basterebbero per goderseli con profitto, anche per chi fosse nato nel Centro e non ne fosse mai uscito per metter piede nel mondo esterno».  Una profusione e una proliferazione vertiginosa di possibilità e di attività, celate dietro i “limiti” perfettamente indifferenti delle facciate del Centro. La stessa indifferenza dei bianchi fronti dei grandi edifici lamellari della Stop City. Un’indifferenza che Koolhaas – a proposito del Dubai Renaissance, bianco monolite di 200 m per 300 m progettato nel 2006 – ha denominato semplicemente «simplicity».

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10 gennaio 2010