La voce che manca. Trent’anni senza Manfredo Tafuri

di Marco Felicioni, Eugenio Lux e Andrea Arsie

Il 23 febbraio 2024 sono ricorsi i trent’anni dalla scomparsa di Manfredo Tafuri (1935-1994), uno dei più influenti storici e teorici dell’architettura del secondo Novecento. Se Tafuri fosse ancora in vita, avrebbe oggi ottantotto anni. La sua prematura dipartita ha lasciato un vuoto nel mondo degli studiosi della storia e della teoria dell’architettura, privandoli della guida di un grande maestro il cui insegnamento risuona tuttora. Egli ha inaugurato la ricerca storiografica politicamente impegnata. Il suo principale contributo alla cultura architettonica del secondo Novecento va ricercato nell’energica critica alla tendenza conformista dell’architettura contemporanea, che per primo intuisce.

Il successo di Manfredo Tafuri come storico affonda le radici a partire dalla prematura dismissione del concetto di Movimento Moderno già dal 1968 nel volume Teorie e storia dell’architettura. Nel pensiero di Tafuri è percepibile la visione marxista abbracciata da molti intellettuali vicini all’operaismo degli anni Settanta: egli non ritiene infatti che la storia supporti l’architettura, diventandone la sovrastruttura, ma che la storia, autonomamente, produca conoscenza critica, essendo essa stessa struttura. Tafuri sembra leggere nel costruire l’esprimersi inconsapevole di un orizzonte ideologico che solo lo storico può intendere nella sua lettura a posteriori: il capitalismo.

La storia secondo Manfredo Tafuri si basa su un’idea non puramente descrittiva, ma attiva e operativa. Non un mero rispecchiamento di eventi accaduti, ma al contrario un atto prettamente critico. Una storia che non si limita a ricostruire, ma che ambisce a costruire un progetto storico. La storia intesa come progetto è quanto si evince dalle prime pagine de La sfera e il labirinto, un volume ormai difficile da reperire nelle librerie, nonostante rappresenti uno scrigno prezioso, colmo di un sapere che ancora chiede di essere interpretato e decifrato appieno. Se da un lato i suoi libri non vengono più̀ ristampati, dall’altro si ha la sensazione che una coltre di silenzio si stia lentamente posando sull’operato di Tafuri, complice la cripticità di una scrittura complessa e densa di significati e rimandi. Come ricordò Massimo Cacciari durante l’orazione funebre, in occasione della cerimonia laica tenutasi presso l’Iuav di Venezia, «Manfredo è stato maestro degli indizi e delle congetture non dei fondamenti e delle certezze».

Una distruzione creativa insomma; proprio come quella che Tafuri individua nell’opera di Piranesi, definito architetto scellerato, poiché́ compie uno scelus – un delitto – nei confronti dei principi del Classicismo, fino a sancirne la crisi. In tal modo Tafuri permette di aprire il progetto d’architettura a nuove possibilità̀ nel volume Progetto e utopia pubblicato nel 1973 come fusione di alcuni saggi precedentemente pubblicati su Contropiano. Tafuri introduce dunque una nuova periodizzazione della storia dell’architettura contemporanea che vede il suo inizio in Giambattista Piranesi e Marc-Antoine Laugier alla fine del Settecento e che, attraverso la riconnessione del sapere tecnico con quello artistico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, giunge fino ai giorni nostri.

Il progetto della crisi è un esercizio fondamentale della disciplina storica, per la come la intende Tafuri. La storia progetta la crisi quando non cerca soltanto di dare risposte ma, prima di tutto, vuol mettere in discussione. Secondo la concezione benjaminiana di jetztzeit, il fluire del tempo è segnato da attimi rivoluzionari in cui le cose precipitano per ricostituirsi secondo un nuovo ordine. Questi attimi possono coincidere, per esempio, con la fondazione di grandi opere architettoniche, in grado di rompere gli equilibri costituiti del passato, di rimetterli in gioco, cambiando il modo stesso di pensare l’architettura. Un evento, dunque, che trasforma il futuro in presente e lo attualizza; che agisce sul passato non tanto per rispecchiarne le presunte verità̀, ma per farne emergere le contraddizioni e per romperne l’apparente continuità̀.

In tal senso, la critica può̀ mettere in azione una crisi. E la crisi diviene mezzo imprescindibile per permettere il progredire del corso della storia: questo tipo di crisi va salvaguardato e ripreso oggi. Se per Tafuri l’architettura ha esaurito la sua funzione ideologica – la sua capacità di portare utopia – allora il compito del critico oggi è di riscoprire questa funzione, di svelarla.

L’architettura dell’età dell’Umanesimo (1969) inaugura una stagione aurea per gli studi sulla storia moderna. L’approccio tafuriano alla storia moderna, quella che va dalla scoperta dell’America al Congresso di Vienna, è quello di un indagatore curioso e di un distruttore di argini e contesti che lo sguardo degli storici dell’arte aveva edificato e promosso. Il rinascimento tafuriano non è l’altare di un’astratta bellezza, esito di elucubrazioni erudite ed esercizi compositivi alacri, ma l’incendio irruente e rivoluzionario della partecipazione politica. Tafuri rivendica più di ogni altro l’irriducibile militanza delle forme.

La storiografia tafuriana, di formazione romana, dunque basata sull’osservazione attenta e attendibile del manufatto, emancipa il dato dalla dimensione reale, rendendolo oggetto di letture lucide e ricettive dei molteplici fattori concorrenti alla definizione di un’idea di spazio. In tal modo Tafuri coglie lo stimolo lanciato da Wittkower nella considerazione degli architetti del Cinquecento come progettisti moderni, e il tempo del rinascimento come la radice del dominio degli interessi, principalmente privati. La composizione architettonica e la concatenazione degli elementi costituenti l’unità ordinata e disciplinata dell’ordine architettonico, non esaurisce il proprio scopo, spiega Tafuri, nella correttezza sintattica delle relazioni grammaticali, ma si compie pienamente nell’espressione delle tensioni del potere politico e degli interessi economici che sottendono la committenza dell’architettura stessa. Il rinascimento di Tafuri è vibrante, non solo per le sagaci osservazioni capaci di delineare prospettive di ricerca inedite – dal diritto alla teologia, dalla filosofia all’economia – ma anche e soprattutto perché letto come la difficile e costruttiva dialettica tra koiné e genius loci.

Il parallelo tra architettura e retorica, la metafora linguistica dell’arte del costruire, in Tafuri non si limita all’indagine della composizione per sintagmi plastici, ma permette una profonda lettura del testo architettonico sviscerando una meta-grammatica etica e valoriale che pur deve agire nella mente degli architetti del XVI secolo. Tafuri lascia agli studi moderni nuovi eroi: la mostra su Giulio Romano a Palazzo Te di Mantova, curata nel 1989 insieme a Francesco Paolo Fiore, rivitalizza le ricerche giuliesche, gli studi su Venezia e Sansovino, sull’ars combinatoria di Francesco di Giorgio e la vena senese della maturazione nella maniera cinquecentesca romana, incidendo su tutti gli ambiti che ha toccato attraverso le sue ricerche trans-storiche. Tafuri individua nell’età dell’Umanesimo un periodo vitale, in cui la progettazione si affianca all’indagine filologica, translitterando concetti in forme. Nel 1992, due anni prima della scomparsa, pubblica Ricerca del Rinascimento: principi, città e architetti, il testo-eredità in cui restituisce – dall’età di Niccolò V al Sansovino veneziano – il ritratto del suo rinascimento, che nell’architettura individua l’episodio precipuo di coordinamento tra fedi, saperi e competenze nella radice già convintamente capitalista della modernità.

In conclusione il progetto tafuriano ha esito in una storiografia viva e operante. Proprio questa idea di storia si dovrebbe tornare a coltivare, adeguando la sua lezione al presente, aggiornandola alle questioni contemporanee: i modi di produzione odierni dell’architettura, il ruolo dei progettisti nel processo produttivo, la città intesa come macchina che si modifica nel tempo e come luogo di sintesi dei conflitti sociali. Solo così potrà tornare a parlare una voce che manca.