Peter Eisenman. Teoria aperta

 

La base formale dell'architettura moderna


Circa quarant’anni dopo la sua stesura viene pubblicata la tesi di Ph.D. di Peter Eisenman dal titolo The formal basis of modern architecture. Originariamente scritta tra il 1961 e il 1963 presso il Trinity College di Cambridge sotto la guida di Sir Leslie Martin, viene pubblicata nel 2006 in Germania (Lars Müller Publishers) e nel 2009 in Italia (Edizioni Pendragon).

 

Sorge subito una domanda, e se la pone anche Pier Vittorio Aureli nella sua introduzione all’edizione italiana: «Come dobbiamo leggere la tesi? Come se fosse stata pubblicata al tempo della sua scrittura, oppure dobbiamo leggerla alla luce del percorso che Eisenman ha compiuto in questi quarant’anni ?». In entrambi i casi, forse: questo testo non è di certo a senso unico. Possiamo leggerlo come lo scritto di un architetto che affronta l’architettura moderna per sviluppare una teoria della forma oppure leggerlo per comprenderne il metodo concettuale, per poi applicarlo alle sue opere e non solo. 


Peter Eisenman studia alla Cornell University, dove si laurea in Architettura nel 1955 e nel 1959 ottiene un master presso la Columbia University. «Dopo il master avevo tre possibilità. Una era di mettermi a lavorare, poiché avevo l’incarico per la Fraternity House della Cornell. Un’altra era accettare l’Atlantique Fellowship e andare in Francia a studiare la quarta navata di un’oscura cattedrale sotto la direzione del professor Robert Branner della Columbia. La terza opzione, caldeggiata da McKinnell, era andare a Cambridge, in Inghilterra, a lavorare con Colin Rowe. McKinnell sosteneva che avevo un buon senso del disegno ma ero “ottuso” per quanto riguardava la comprensione del quadro teorico e ideologico dell’architettura moderna», così ci riferisce Eisenman nella postfazione, dichiarando poi che optò inizialmente per l’alternativa francese. «Arrivato a Parigi saltai su un taxi e, sfoggiando il mio miglior francese, dissi che volevo andare a Rue Git-le-Coeur dove viveva mio fratello. Il tassista mi si rivolse con un’aria così seccata e arrogante come mai mi era capitato d’incontrare, dicendo: “Penso che sarebbe meglio se lei parlasse inglese”. Finis dalla mia permanenza a Parigi».


Quali sono le “basi” teoriche di Eisenman? Pier Vittorio Aureli, nell’introduzione Chi ha paura della forma?, ricostruisce un accurato percorso filosofico individuando i fondamenti teorici dell’architetto newyorkese. Il cammino concettuale parte dal concetto di forma, protagonista indiscussa. Eisenman è contro una lettura superficiale dei fenomeni, nella sua formazione c’è, tra gli altri, Kant e quindi l’importanza del processo cognitivo che precede il giudizio. La visione dell’estetica di J.F. Herbart come la scienza delle relazioni elementari (piani, colori, tonalità) è un passo importante per rendere indipendenti le questioni della forma da altri significati. In questo senso l’architettura è vista come pura sequenza di spazi. Le teorie di K. Fiedler e A. Hildebrand indirizzano sempre più verso un’autonomia della forma, concettualmente vista non come mera riproduzione della realtà ma come un atto puro, il quale ne crea una nuova. La base concettuale più importante è quindi il formalismo, passando da Heinrich Wöfflin che costruisce una storia non sui grandi nomi ma sui modi figurativi, si arriva finalmente al formalismo russo, in cui il linguaggio non è un riflesso della realtà ma un metodo di creazione della stessa. Il processo di semplificazione della forma fa quindi affiorare le forme “generiche” dell’architettura: volume, massa, superficie e movimento, elementi rappresentati distintamente nelle opere di El Lissitzky.

 

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La tesi di Eisenman ha quindi una base teorica ben precisa, affiancata inoltre da due grandi storici: Colin Rowe e Rudolf Wittkower o, per dirlo diversamente, da due grandi testi: The Mathematics of the Ideal Villa, saggio pubblicato nel 1947 da Rowe e Architectural Principles in the Age of Humanism, pubblicato nel 1949 da Wittkower. L’operazione di Rowe è essenziale perché studia precisi problemi formali comparando Palladio a Le Corbusier. Basilare è il modo di costruire la storia da parte di Wittkower, una storia composta per princìpi. Il principio della chiesa a pianta centrale per esempio è lo stesso sia per l’Alberti che per Palladio, diverso è il risultato. 


È importante, in entrambi i testi, l’utilizzo del diagramma come mezzo espressivo-conoscitivo per analizzare gli edifici.


Nell’introduzione Eisenman dichiara il legame ai solidi puri di Le Corbusier, solidi platonici che definisce «forme generiche». Sostiene che nei diagrammi di Le Corbusier sono impliciti il vocabolario, la grammatica e la sintassi di una lingua formale, sua intenzione è esplicitarli. Ogni architettura viene quindi purificata, ridotta al suo grado assoluto. 

«Un edificio realizzato come forma specifica deve avere un antecedente generico» dice l’architetto. In primo luogo è necessario conoscere l’essenza delle forme generiche e le possibilità che ne scaturiscono. Da esse nasceranno le forme specifiche: configurazioni fisiche e concrete ottenute in risposta a un’intenzione e a una funzione specifica. 

Il pensiero teorico giunge quindi all’essenza, l’architettura è fondamentalmente basata su tre questioni: la tecnica, la funzione e l’intenzione (intesa come elemento concettuale). L’equazione architettonica è postulata; il risultato finale è la sintesi della forma con tutti gli altri elementi: intenzione, funzione, struttura e tecnologia. Eisenman costruisce una teoria, un metodo: attraverso un’operazione diagrammatica compie otto prove empiriche su otto edifici architettonici. Intraprende la sua analisi partendo dalle planimetrie degli edifici e dai prospetti, sui disegni di progetto quindi e non su altre rappresentazioni come prospettive che lo allontanerebbero dalla comprensione.


Gli edifici analizzati sono: il Pavillon Suisse e la Cité de Refuge di Le Corbusier; la Darwin D. Martin House e la Avery Coonley House di Frank Lloyd Wright; il Civic Centre a Säynätsalo e il Tallin Museum di Alvar Aalto; la Casa del Fascio e l’Asilo infantile di Giuseppe Terragni. La concentrazione ruota attorno a problemi di ordine formale. Oggetto di studio non sono lo stile di un architetto piuttosto che le dimensioni umane, i materiali o quant’altro: prioritaria è la comprensione della forma intesa come gerarchia di spazi. Interessante è la lettura delle due opere di Wright, dalle quali emergono fratture tra interno ed esterno piuttosto che continuità: quest’ultima è invece un’interpretazione applicata spesso alle sue architetture. I vari progetti sono ridisegnati in maniera neutra, colori o fotografie non sono presenti perché non farebbero altro che allontanarci dallo scopo. L’operazione di analisi avviene tramite letture massa-superficie, individuando i vettori di movimento e gli assi principali.


La tesi non si conclude con un capitolo “Conclusioni” perché non ci sono soluzioni finali ma si chiude con una dissertazione sull’utilizzo delle teorie. «La teoria – scrive –  andrebbe sviluppata per la comprensione dei princìpi e non per la loro codificazione.» 


Possiamo quindi affrontare La base formale dell’architettura moderna come se stessimo leggendo il De re aedificatoria dell’Alberti, o i Dieci libri dell’architettura di Vitruvio o perché no, I quattro libri dell’architettura di Palladio? La differenza con i trattati citati c’è, ed è sostanziale: la teoria di Eisenman è una teoria aperta mentre le tre citate sono teorie chiuse. La dicotomia “Teoria chiusa e teoria aperta” diventa anche titolo dell’ultimo capitolo. Egli conosce bene i trattati, da Vitruvio a quelli più moderni e ne conosce gli scopi. Una volta estrapolato il principio concettuale li definisce «chiusi» perché consistenti in ricerche specifiche e limitate, contrapponendoli a quelli del XX secolo, definiti «polemici». 


«La teoria non dovrebbe essere considerata un sistema chiuso, un pacchetto ben confezionato, quanto piuttosto una metodologia aperta e sempre applicabile»: questa è l’intenzione dello scritto, da leggersi quindi come metodo di lettura aperto e non come una teoria chiusa in sé.


In ultima battuta, siamo avvertiti della pericolosità di un uso improprio e metaforico della teoria del linguaggio in architettura: «Non spetta al critico contemporaneo interpretare e dirigere l’architettura, quanto piuttosto imprimerle un ordine, un punto di riferimento dal quale possa evolvere una comprensione dell’opera». Un’operazione quindi, quella del critico, di dis-velamento.

 

 

Manuele Salvetti



Milano, 8 gennaio 2010