Carlos Ferrater a Roma: alcune considerazioni


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di Claudia Tombini

QUALE QUANTO

«Grazie alle sue mirabili doti d’insegnante capii che si può fare a meno delle formule, l’importante è cogliere il concetto.»
(Il banchiere dei poveri, Muhammad Yunus)

La conferenza tenutasi il 9 settembre da Carlos Ferrater alla Casa dell’Architettura di Roma in occasione dell’inaugurazione di  “Synchronizing Geometry”, esposizione  dello studio Ferrater & Associati (OAB) sul proprio lavoro dal 1989 ad oggi, impone un momento di riflessione che si spinge oltre l’interesse al caso stesso, fino a guidare alcuni pensieri intorno al nostro stesso operare a Roma e alle conseguenti trasformazioni, laddove esistenti, che questo comporta o che perlomeno dovrebbe comportare.   

Infatti dopo aver letto con piacere che la mostra è stata curata dallo Sportello Giovani dell’Ordine Architetti di Roma, in collaborazione con lo stesso studio Ferrater, ci siamo ritrovati ad ascoltare, in vece di presentazione o quanto meno di premessa, una sorta di “pubblicità progresso” dei servizi offerti dalla Casa dell’Architettura, dall’Ordine degli Architetti, e di quelli offerti dal progetto Leonardo.  Ora lungi da me, ovviamente, non cogliere l’importanza di tali borse di studio per tanti neolaureati, ma al contempo con l’obbligo di collocare la loro nascita qualche anno prima a quella dello Sportello Giovani, mi preme sottolineare l’importanza, se non addirittura la necessità, di un ulteriore sforzo da compiere. Impegno indirizzato piuttosto ad offrire opportunità di lavoro reali a quanti in un secondo momento tornano in città con alle spalle una preziosissima esperienza in studi proprio come quello di Ferrater e con l’intenzione di lavorare a Roma, per Roma. Ci piacerebbe infatti che il progetto Leonardo, nel suo esito finale, funzionasse come una sorta di modello del microcredito, quello proposto da Muhammad Yunus: in quanto lotta ad un’incapacità di trasformazione chiaramente non sempre dovuta esclusivamente a povertà culturale. 

Ciò che infatti ci meraviglia nel vedere il lavoro esposto, oltre la sua qualità, è proprio la quantità di opere realizzate soprattutto se messe anche in rapporto a quanto visto in altre occasioni, spesso promosse e prodotte dalla stessa Casa dell’Architettura, sul lavoro degli architetti spagnoli e portoghesi negli ultimi anni. Ci sembra chiaro allora che se qualità e quantità non sempre, e non necessariamente, corrispondono, è pur vero che laddove esse riescono ad incontrarsi toccano certamente la vetta. 

E mentre Ferrater ci confida quanto sia stata importante l’architettura italiana, quella di Libera, Ridolfi, Nervi e Morandi, per la sua formazione in prima battuta e per il suo lavoro in seguito, il Presidente dell’Ordine degli Architetti di Roma Amedeo Schiattarella lo precede nel dichiarare per primo, forse con smisurato orgoglio (quando l’allievo supera il maestro, queste le sue testuali parole), di avere copiato il modello spagnolo. Chiaro allora il riferimento al proprio “ordine” di modello, al Collegio Oficial Arquitectos de Madrid (COAM) o a quello de Catalunya (COAC), del presidente Schiattarella; così data anche la qualità alta del lavoro di ricerca che molti architetti italiani e romani nello specifico svolgono, si possono dormir sonni tranquilli: la quantità sembra essere solo questione di tempo. D’altra parte e a conferma di quanto detto, probabilmente anche con l’intento di rassicurarci, ecco porsi la nascente politica delle demolizioni, come infatti ci dicono a più voci. 

Eppure noi a fine serata, attraversando Piazza Vittorio Emanuele II, proprio a pochi passi dalla Casa dell’Architettura, di fronte al nuovo edificio progettato da Giorgio Tamburini completamento di un isolato demolito ormai trent’anni fa, veniamo colti da un dubbio: a quale quantità stiamo andando incontro?

Roma, 20.09.2010