L’architettura come mestiere

di Marco Biraghi

L’architettura come lavoro concreto – al di là cioè delle sue implicazioni culturali, teoriche, estetiche o di qualunque altro genere che non sia eminentemente pratico – è qualcosa di cui si parla ancora (troppo) poco, perlomeno in Italia. Non ne parlano le riviste di architettura, nell’evidente convinzione che si tratti di argomenti indegni della loro attenzione; non ne parlano i giornali, che di architettura si occupano pochissimo in ogni caso; non ne parlano i libri, che di norma preferiscono parlare d’altro; non ne parlano gli architetti, che preferiscono proprio non parlarne, probabilmente per cattiva coscienza; non ne parlano i professori nelle scuole di architettura, a rimarcare una storica distanza dell’accademia dalla professione: quasi che insegnare ai futuri architetti a fare l’architetto da parte di chi architetto dovrebbe già esserlo fosse una cosa perfettamente superflua, se non addirittura un po’ volgare.

E invece l’architettura come lavoro concreto è un tema di grandissimo interesse, specialmente in un momento come questo in cui sono messi in discussione i diritti dei lavoratori e in cui si registrano particolari difficoltà nell’occupazione giovanile. Le condizioni materiali nelle quali si svolge il lavoro dell’architetto sono, molto spesso, ben al di sotto degli standard accettabili, e lontanissimi dal corrispondere a criteri soddisfacenti per quanto riguarda tutele e garanzie. Negli studi di architettura infatti, a fronte di retribuzioni minime (quando non del tutto assenti), si impongono orari di sovente molto pesanti, ben oltre le otto ore giornaliere, e si richiede l’accettazione di una “flessibilità” dell’orario che si traduce in serate e nottate occupate, e non di rado nell’estensione del lavoro ai sabati e alle domeniche. Il tutto naturalmente all’interno di un quadro in cui le ferie sono un sogno, il trattamento di fine rapporto un miraggio e la pensione una chimera.

Nelle pieghe del lavoro di architettura si nascondono – peraltro neanche troppo abilmente – svariate forme di sfruttamento, oltretutto proprio laddove i giovani architetti non soltanto cercano opportunità di carriera (o di ciò che ne rappresenta la meno stentorea e “gloriosa” versione contemporanea) ma ancor di più ripongono le loro aspettative e attendono che abbiano adempimento le loro più intime aspirazioni. È una realtà ad esempio che il lavoro negli studi di architettura passi frequentemente attraverso stage e tirocini. Tale modalità di “apprendistato”, naturalmente, ha una sua antica tradizione, che parte dalle botteghe medievali e giunge fino ai giorni nostri; cosicché – in una certa misura – è proprio questo il modo in cui è sempre avvenuto il passaggio del sapere, e dunque l’acquisizione di un mestiere. Ciò che tuttavia risulta difficilmente accettabile è che stage e tirocini vengano usati dai titolari degli studi come comoda fonte di approvigionamento da cui attingere per avere mano d’opera sempre fresca e gratuita: non è un mistero infatti che questi preferiscano piuttosto interrompere la collaborazione con i giovani “praticanti” al termine del loro periodo di apprendistato che essere costretti a incominciare a pagarli come collaboratori a pieno titolo: soggettivamente, una beffa per questi ultimi, cui si aggiunge il danno oggettivo costituito dallo spreco di risorse umane e di competenze specifiche.

Questo e altri problemi affliggono oggi il settore dell’architettura come lavoro concreto. Non si tratta di un panorama uniforme, ovviamente. Esistono eccezioni, isole felici, differenze. Tuttavia la questione merita di essere affrontata. Il modo in cui lo fa il sito Archleaks (http://www.archleaks.com/) è certamente estremo, a volte superficiale e infantile, altre volte basato sulla semplice maldicenza, quando non addirittura sulla diffamazione vera e propria. Ma la ferocia (non si sa se giustificata o meno) con cui vengono denunciate le “malefatte” di certi studi colpisce perché, dietro lo schermo accecante del risentimento, si intravede lo stigma dell’onestà, e perciò anche della verità. E ciò può valere anche in senso diametralmente opposto, allorché ci si imbatte in lodi che – una volta emendate da tutte le possibili manipolazioni e piaggerie – promettono di contenere qualche traccia di sincerità.

Quando il coraggio di dire prevale sulla volontà di tacere c’è sempre qualcosa di positivo. Anche se rimane un deficit di analisi che non può essere colmato a pura “forza” di pettegolezzi. A questa analisi – o autoanalisi – seria, meditata, articolata, certo anche scomoda e difficile ma nondimeno indispensabile, dovrebbero essere chiamati tutti i soggetti implicati nel lavoro di architettura: innanzitutto quella classe di giovani sfruttati che maggiore interesse dovrebbe avere nell’abbattimento dell’ordinamento oggi esistente. Costoro non hanno nulla da perdere se non le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare.

Lavoratori di tutti gli studi, unitevi!

25 marzo 2012

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