Prada, Koolhaas e altri diavoli

di Marco Biraghi

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Fotografia di Chiara Monterumisi

Per il suo testo critico sulla Fondazione Prada, apparso qualche giorno fa su 011+, Pietro Valle ha scelto un bellissimo titolo: Il Diavolo riveste Prada. Dove, chi sia il “diavolo” in questione, è abbastanza facilmente intuibile, non appena ci si addentri un poco nella lettura del testo.

E tuttavia, dietro questo titolo così bello, così accattivante, si nasconde qualcosa: qualcosa d’insidioso, se non addirittura di diabolico a propria volta. Anzi, a guardar bene, più che nascondere, il titolo riveste il testo di Valle, con l’intenzione di dissimularne la reale natura, o piuttosto di indurci nella tentazione di credere a quanto seduttivamente vi si afferma.

Nel testo di Pietro Valle, articolato e sicuramente ben ponderato, non ci si limita a esprimere un’opinione né a formulare un giudizio; piuttosto si avanza – e al tempo stesso si attribuisce al “diavolo” suddetto – una teoria vera e propria; o meglio, che sarebbe tale, se non fosse soltanto presunta: una teoria del rivestimento.

Nell’intervenire sull’area dell’ex-distilleria in Largo Isarco, alla periferia sud di Milano, al fine di adattarla alle complesse esigenze richieste dalla nuova Fondazione Prada, Rem Koolhaas (et voilà, mesdames et messieurs, le Diable!) darebbe prova, più che di una qualche abilità nell’alta ars architectonica, di un’attitudine “sartoriale”, da consumato stilista qual è, o – forse più modestamente – da buon manovale del taglia-e-cuci (o del suo discendente digitale, il copia-e-incolla). Da qui i caratteri che Valle individua con precisione e che ribadisce a più riprese: la banalità, quasi da prêt-à-porter, delle soluzioni progettuali adottate («contenitori banali», «scatole banali» – i corsivi sono tutti di Valle), e la ripetitività con la quale vengono applicate; una ripetitività – si badi bene ­– che riguarda «sia il vecchio che il nuovo senza distinzione tra i due».

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Fotografia di Chiara Monterumisi

Ora, che Koolhaas abbia qualcosa a che fare con il “comparto del vestiario” in senso lato non è del tutto errato. Se per il proprio immaginario Le Corbusier attingeva dall’universo delle macchine, e per lui – come noto – la casa doveva essere una machine-à-habiter, Koolhaas si riferisce piuttosto al mondo delle “confezioni”, come risulta chiaro dalla celebre raccolta dei suoi progetti ed edifici, suddivisi per taglie, come altrettanti “capi” disposti sugli appendiabiti di un grande magazzino: S, M, L, XL.

Ripercorrendo con la memoria la storia dell’architettura, però, emerge che Koolhaas non è né il primo né l’unico ad aver accostato in qualche modo architettura e abbigliamento. Basti pensare a Gottfried Semper, per il quale l’architettura ha fin dalle origini una natura tessile, ciò che lo porta a formulare il cosiddetto “principio del rivestimento”. Il termine tedesco Bekleidung indica infatti sia la copertura del corpo umano mediante vestiti che l’ornamento di pareti ed edifici tramite rivestimenti. La lingua tedesca, d’altro canto, mette etimologicamente in relazione muro (Wand) e vestito (Gewand); e la medesima parentela si lascia rintracciare anche in italiano, nelle parole abitazione e abito.

Ma pure per Adolf Loos il rapporto tra architettura e abbigliamento riveste un ruolo fondamentale: non soltanto nel senso che l’abbigliamento è il tema di alcuni dei suoi primi articoli pubblicati su giornali e riviste, e che sartorie e negozi di abbigliamento sono i commitenti di alcuni tra i suoi primi lavori d’interni; e neppure soltanto nel senso che per lui – seguendo le orme di Semper – «in principio fu il rivestimento». Lo stesso Loos ha elaborato un proprio “principio”, o “legge del rivestimento”, sulla base del quale «bisogna operare in modo da escludere ogni possibile confusione fra materiale rivestito e rivestimento». Così «quando il materiale che viene ricoperto è dello stesso colore del materiale da rivestimento, quest’ultimo può mantenere il suo colore naturale. Così, per esempio, posso ricoprire il ferro, che è già nero, con uno strato di catrame, posso ricoprire (impiallacciare, intarsiare, ecc.) il legno con un’altra qualità di legno, senza che occorra colorare il legno di rivestimento; posso rivestire un metallo con un altro metallo mediante il fuoco o la galvanizzazione. Ma il principio del rivestimento vieta di imitare nel colore il materiale ricoperto. Perciò il ferro può benissimo essere incatramato, dipinto con colori a olio o galvanizzato, ma non può mai venir dipinto in color bronzo, cioè nel colore di un altro metallo».

Fotografia di Chiara Monterumisi
Fotografia di Chiara Monterumisi

Tutto ciò è sicuramente interessante ma anche largamente noto. Del tutto inedito è invece il “principio del rivestimento” che Koolhaas metterebbe in atto nella Fondazione Prada secondo Pietro Valle: «Ogni edificio della Fondazione è individualizzato nel suo rivestimento, non nel suo spazio né nella sua configurazione insediativa. Sono tutte scatole neutrali che vengono alternativamente rieditate con materiali diversi di rivestimento ma mantengono l’anonimato di fondo che permette loro di “sparire” a ogni nuova scenografia».

Cercando di interpretare: il rivestimento servirebbe a distinguere, a “riconoscere” i diversi edifici, e però entro i limiti di una condizione effimera di fondo, di una provvisorietà ritmata dal succedersi degli allestimenti scenici (così sembra potersi intendere la parola “scenografia”) che conferisce loro una sostanziale – o forse, ancor meglio, essenziale – indifferenza. Di quale provvisorietà si tratti pare possibile coglierlo da un altro passaggio del testo di Valle: «L’alternanza tra rivestimenti diversi, crea una presunta complessità urbana, lo scivolamento dello sguardo tra attrazioni sempre diverse. In questa compulsiva ossessione a ridurre la città a una collezione di scatole rivestite vi è il desiderio di poterne sempre cambiare la facies: il rivestimento è tema, è vestito, e può essere sostituito e ritematizzato a piacere. È questa la previsione di un futuro in cui l’identità di ogni edificio è temporaneamente definita ma effimera come un abito che si sfila».

Ed ecco, tra le pieghe della Wand-Gewand, rispuntare la coda del Diavolo! Wand-Gewand marchiata Prada, ovviamente, e dunque eseguita con i tessuti più chic e preziosi («reti microforate di policarbonato, schiuma di alluminio, foglia d’oro, intonaco di cemento grigio applicato grezzo»). Una molteplicità di “stoffe” da far indossare con disinvolta nonchalance agli edifici come fossero altrettanti abiti buoni per le più svariate occasioni.

Fotografia di Chiara Monterumisi
Fotografia di Chiara Monterumisi

Ma esattamente in questo sta il punto: l’intervento del sartor resartus Rem Koolhaas non potrebbe essere considerato davvero diabolico, se non gli si attribuisse un’intercambiabilità che nella realtà non ha affatto. E qui lo stesso Pietro Valle mostra le proprie aspirazioni sataniche. Non a caso, come ogni buon diavolo che si rispetti, tenta e ritenta, insistentemente, fino alla fine: «La Fondazione Prada inaugura così una possibile stagione edilizia in cui ogni edificio, esistente o nuovo, può contenere qualsiasi cosa e cambiare continuamente volto, può essere riattato senza remore».

La condizione di rapido e continuo mutamento è indubbiamente una di quelle che maggiormente caratterizzano la contemporaneità. Ma perché volerla mettere in carico al solo Koolhaas e alla sua Fondazione Prada? Al punto addirittura – forzando l’evidenza dei dati – da fare di entrambi l’epitome di un’impermanenza totale, di una volubilità capricciosa e insensata? Cosa diavolo vuole dimostrare Valle? Oppure ancora: cosa dimostra (o rivela) di fatto il suo testo, senza forse che il suo stesso autore lo intendesse dare a vedere?

E qui bisogna tornare a citarlo ancora una volta: «L’architetto alla moda nell’era di Prada non crea un brand forte ma debole ed eternamente riconfigurabile». E poco più oltre: «Nell’impiegare temi Minimal nel rivestimento, Koolhaas ha, infatti, un vantaggio rispetto agli architetti il cui brand è caratterizzato da forme troppo individuali». L’astuzia somma e forse definitiva del consumato stararchitect consisterebbe dunque nel rinunciare a una troppo facile identificabilità, alla seduzione di possedere un’immagine (o forse si potrebbe dire, di possedere un’anima), per cercare di averle tutte. Aspirazione davvero diabolica, questa, che se si può in modo un po’ generico e presuntivo ascrivere a Koohaas, non è invece in alcun modo comprovabile osservando la Fondazione Prada: a partire proprio da quella supposta “identità” di tutti i suoi edifici, che è uno dei cardini del ragionamento di Valle; un’“identità” – lo si rammenti – riguardante «sia il vecchio che il nuovo senza distinzione tra i due».

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Fotografia di Chiara Monterumisi

Il solo edificio cui si possa imputare una volontà di confondersi con gli altri, preesistenti, è quello del cinema. Qui Koolhaas (e OMA, non va dimenticato. Dov’è andata a finire tutta la convinzione di Valle circa la pluralità dei processi progettuali? Com’è che il suo discorso è tutto rivolto ad personam?) compie un gesto che – non fosse Koolhaas – potrebbe essere considerato di “ambientamento” dell’edificio: quasi un omaggio al contesto della Milano industriale nel quale il complesso di Prada s’inserisce, e che risulta confermato dal trattamento “rispettoso” riservato alle due piazze che si affiancano allo stesso edificio del cinema. Ma poi quest’ultimo riprende le “distanze”, trincerandosi dietro un’armatura di scudi di acciaio specchiante – un dispositivo ottico quasi loosiano, più che un revival degli edifici a specchio anni ’80.

Per il resto, ovvero per quanto riguarda gli altri due edifici inseriti ex-novo nell’area (il Podium espositivo e la Torre multipiano, non ancora completata), non vi è nulla in essi che possa giustificare l’accusa di “identità” ripetitiva e banale: non nel Podium miesiano-venturiano (con l’aggiunta – per soprammercato – di una gigantesca trave Vierendeel a vista e del già citato manto in schiuma di alluminio), né nella Torre, scheggia purissima di architettura in stile OMA. Soltanto a quest’ultima, un po’ a denti stretti, Valle riconosce una sua autonomia e originalità («forse l’unica struttura che stacca dall’insieme di scatole banali, esistenti e nuove»).

Ma ancora una volta, perché? Rimproverare agli edifici di Koolhaas la loro banalità e ripetitività equivale forse a dichiarare una nostalgia per gli edifici iconici? Sul serio Valle preferirebbe il “famolo strano” della Hadid o di Libeskind? Qui davvero ci sono forti motivi di dubitare. Non sarebbe piuttosto proprio Pietro Valle il primo a lamentarsi se fossero stati questi o altri architetti consimili a mettere le mani sul progetto? Ad avere “sconciato” un frammento sia pure insignificante della periferia milanese con i loro vaniloquenti edifici brandizzati?

Allora, il contemporaneo j’accuse di banalità e ripetitività, ma pure – e senza apparenti contraddizioni – di incostanza e mutevolezza, fin quasi ai limiti del camaleontismo, nasconde e indica al tempo stesso un atteggiamento che Valle sembra peraltro condividere con molta parte della cultura architettonica italiana: il dispetto per l’“illecita” appropriazione, da parte di Koolhaas, non soltanto di alcune specifiche “occasioni” progettuali sul suolo patrio, ma anche di una modalità d’intervento più generale, di cui proprio la nostra cultura si ritiene evidentemente l’esclusiva detentrice: quella della sensibilità per un luogo, capace di riunire e di accordare tra loro elementi già esistenti ed elementi nuovi da inserire. Una sensibilità che prevede insieme una capacità di ascolto e di “pazienza” conservativa e una notevole dose di coraggio e d’inventiva; tutti requisiti che l’intervento di OMA alla Fondazione Prada dimostra nei fatti di possedere, al di là dei pregiudizi, delle rivalità e delle invidie. Facendone, non a caso, l’intervento architettonico più significativo realizzato negli ultimi anni a Milano.

Fotografia di Chiara Monterumisi
Fotografia di Chiara Monterumisi

Milano, 14 settembre 2015