Nuovi miti, nuovi riti

di Marco Biraghi

Il presente, fra tutti i «piani» del tempo, è quello che risulta maggiormente sfuggente: sempre mobile e mutevole, è il punto cieco della nostra visione, ciò verso cui il nostro sguardo è costantemente rivolto, ma che meno in assoluto riusciamo ad abbracciare, a comprendere. Mai nessuno può dirsene «esperto», o anche solo conoscitore. Quanto più intensamente lo si vive, tanto più sembra lasciarsi afferrare; ma quanto più ad esso si «aderisce», tanto più difficilmente risulta spiegabile. Fra tutti i campi dell’esperienza, è quello che meno si può inquadrare in una «scienza» (vera o presunta), quello che con più fatica si piega a un trattamento sistematico, a un incasellamento storico.

Compito improbo allora è tentare di «descrivere» il presente; addirittura assurdo cercare di rappresentarlo nella sua intera complessità. Che cosa vi rivesta un’effettiva importanza, quale tra i suoi infiniti fenomeni possa durare, è semplicemente impossibile a dirsi. Di esso, soltanto qualche «motivo» può essere enumerato: «miti» e «riti» attuali[1], in merito alla cui fondatezza e alla cui consistenza nel tempo poco o nulla si lascia pronosticare. Rintracciare una coerenza tra loro sarebbe difficile; nessun «disegno d’insieme» vi appare leggibile: soltanto una disordinata serie di indizi che spesso si contraddicono ma che altrettanto spesso si assommano.

1. La sopravvivenza dei vecchi miti: nel suo fondamentale libro dedicato alla Survivance des dieux antiques[2], Jean Seznec mostra come, a dispetto della diffusa idea che le divinità pagane del mondo antico siano morte con esso, queste abbiano invece continuato a sopravvivere anche durante il Medioevo e nel Rinascimento; per non dire che – secondo il grande studioso Aby Warburg – le figure di quegli stessi possono riapparire ancor’oggi[3]. Perché ciò accada è spesso indispensabile una metamorfosi. Ma non tale comunque da rendere quelle divinità del tutto irriconoscibili.

Frank O. Gehry, Renzo Piano, Norman Foster, rappresentano tre inamovibili presenze dell’olimpo architettonico, la cui «sopravvivenza» non è soltanto fattuale bensì riguarda soprattutto la loro longevità creativa.

Dopo una lunghissima gestazione, costellata da ritardi e polemiche, è stato inaugurato a Washington, D.C, nel 2020, il National Dwight Eisenhower Memorial, generale d’armata e 34° presidente degli Stati Uniti d’America. Il progetto di Gehry, realizzato con la collaborazione dello scultore di origini russe Sergey Eylanbekov e dell’artista e architetto di Los Angeles Tomas Osinski, consiste in due quinte sceniche realizzate con lastre di calcare rosa animate da sculture figurative che rappresentano momenti cruciali della vita di Eisenhower, e in un terzo podio sul quale è disposta una statua dello stesso Eisenhower da giovane. A fare da sfondo a questi scenari, un gigantesco «arazzo» in acciaio inossidabile, collocato di fronte alla lunga facciata del Department of Education Building e sorretto da svettanti cilindri di pietra, che riproduce uno schizzo di mano di Gehry raffigurante la costa della Normandia. Illuminandosi di notte, la matassa di segni fuoriusciti dalla matita dell’architetto dà l’impressione di proiettare nello spazio un suo edificio, tanto quanto molti suoi precedenti edifici-matassa davano l’impressione di corporizzarne gli schizzi. Più ancora del mitico Ike, è il «grande anziano» Frank Owen a continuare a occupare saldamente la scena.

Affidato ormai l’enorme carico di progetti che intercetta da ogni parte del mondo sulle ben dotate spalle di RPBW (Renzo Piano Building Workshop), Renzo Piano prosegue la sua «missione» sotto forme diverse: dedicandosi alla promozione della professione di architetto – in modo particolare alla formazione delle giovani generazioni e alla divulgazione dell’attività architettonica – attraverso la Fondazione Renzo Piano, costituita nel 2004[4]; occupandosi del «rammendo delle periferie» italiane per mezzo del gruppo G124, con sede a Roma, nello spazio di Palazzo Giustiniani messo a sua disposizione grazie alla carica di senatore a vita (dal 2013); impegnandosi in iniziative benefiche, come la realizzazione dell’Ospedale chirurgico pediatrico a Entebbe, in Uganda (2013-20), per l’ONG Emergency di Gino Strada (in collaborazione con TAMassociati); donando addirittura progetti, come quello per il nuovo Campus del Politecnico di Milano (2015) o per la costruzione del Viadotto Polcevera, a Genova (2018), in seguito al crollo parziale del Ponte Morandi. «La bellezza salverà il mondo e lo salverà una persona alla volta. Una persona alla volta, ma lo salverà». «Si tratta di piccole cose che portano con sé i valori dell’assoluto»[5]. Parola di Renzo Piano.

Divenuto Baron Foster of Thames Bank, Sir Norman Foster ha provveduto anch’egli a crearsi – nel 2017 – il proprio luogo di «eterna memoria»: la Norman Foster Foundation, con sede a Madrid, finalizzata a «promuovere il pensiero e la ricerca interdisciplinare per aiutare le nuove generazioni di architetti, designer e urbanisti ad anticipare il futuro»[6]. Accanto alla «forte vocazione didattica», la Norman Foster Foundation si propone come centro di ricerca e come luogo di elaborazione di progetti sviluppati per fondazioni e per istituzioni filantropiche. Ma è soprattutto mediante l’attività planetaria di Foster + Partners (di cui egli è Senior Executive Partner, Founder and Executive Chairman) che Foster ha la possibilità di divenire «immortale» alla maniera di Skidmore, Owings and Merrill. Tra le decine di progetti «under construction» attualmente presenti sul sito[7], ve ne sono alcuni la cui fine lavori è prevista per il 2027. E ogni altro che vi si andrà ad aggiungere corrisponde a una nuova riserva di futuro per Sir Norman Foster.

2. Continuità: è la parola usata da Ernesto Nathan Rogers per caratterizzare la sua «Casabella», allorché incomincia a dirigerla nel dicembre 1953: la quale infatti, fino al termine della sua direzione, nel gennaio 1965, si intitolerà «Casabella-continuità».

La parola «continuità» rimandava in quel caso alla stagione aurea dell’architettura razionalista italiana, a Giuseppe Pagano e a Edoardo Persico, e alla volontà di riprendere in mano il testimone di un modo di pensare e di fare l’architettura che, lasciata alle spalle l’incancellabile «parentesi» degli «anni oscuri» del fascismo, cercasse di riappropriarsi di una «coscienza storica», ovvero della «vera essenza della tradizione», intesa come capacità di accogliere l’«eterna varietà dello spirito avversa ad ogni formalismo passato o presente»[8].

In tempi meno «ideologicizzati», la continuità diventa una virtù dagli attributi variabili, applicabile a «cause» e circostanze diverse. Per architetti come gli spagnoli Carlos Ferrater (1944) e Alberto Campo Baeza (1946), o come Luis Moreno Mansilla (1959-2012) e Emilio Tuñón (1959), significa proseguire nella rigorosa opera di purificazione formale già intrapresa dalle avanguardie architettoniche del secolo scorso . Il Palazzo dei Congressi della Catalogna a Barcellona (1996-99), e l’Auditorium e Palazzo dei Congressi a Castellón de la Plana (1997-2004) di Ferrater; le scuole a San Fermín, Madrid (1985) e Drago a Cadice (1992), le case Gaspar a Cadice (1992), De Blas a Sevilla la Nueva (2000), e Asencio a Chiclana (2001), la Sede Centrale della Caja general de Ahorros a Granada (1992-2001), e il Museo de la Memoria de Andalucía a Granada (2005-10) di Campo Baeza; la Piscina a San Fernando de Henares, Madrid (1994-98), l’Auditorium di León (1994-2002), il Museo d’arte contemporanea di Castilla y León (2001-04) di Mansilla + Tuñón; e ancora, dopo la scomparsa di Mansilla, il Museo di arte contemporanea Helga de Alvear a Cáceres (2014-20) di Tuñón y Albornoz Arquitectos, sono tutte testimonianze della vitalità della ricerca di un’architettura essenziale, figurativamente astratta, con richiami puristi e neoplasticisti.

La medesima ricerca, con esiti che rivelano parentele addirittura con l’optical e la minimal art, ma al medesimo tempo solidamente impiantata su un sicuro padroneggiamento dei mezzi costruttivi, è condotta dal ticinese Livio Vacchini (1933-2007). La Piazza del Sole a Bellinzona (1981-98), la Palestra a Losone (1990-97), la Scuola di architettura di Nancy (1993-95), raggiungono gradi di depurazione quasi metafisici grazie alla scansione ritmica delle membrature, alla ferrea alternanza dei pieni e dei vuoti. È nel perfetto controllo della dimensione tettonica il «semplice» segreto dell’architettura di Vacchini: la capacità di far «dimenticare» l’aspetto corporeo dell’edificio, lasciando impresso soltanto il disegno.

Rigore ed eleganza connotano le opere dei francesi Henri Ciriani (1936) e di Pierre-Louis Faloci (1949). Di quest’ultimo, la Mediateca a Meudon-la-Forêt (1998-2001) istituisce un dialogo con il quartiere di edilizia popolare realizzato alla fine degli anni ’50 da Fernand Pouillon; il Museo Rodin a Parigi (2002-06), il Museo di arte e storia a Rochefort (2003-07), il Centre européen du résistant nell’ex-campo di concentramento nazista di Natzweiler-Struthof, in Alsazia (2005-08), e il Musée de la guerre 14-18 a Lens (2014-16) si dimostrano abili nell’intervenire con linguaggio sobrio e lineare all’interno di edifici preesistenti e di delicati contesti storici. Ciriani, dopo aver realizzato negli anni ’80, sulle orme di Le Corbusier, numerose residenze con funzioni collettive e sociali (a Noisy-le-Grand, 1980-81, e a Saint Denis, 1982), e l’Asilo a Marne-la-Vallée (1986-88), «congela» ogni esuberanza formale nei controllatissimi Historial de la Grande Guerre a Péronne (1987-91), Musée de l’Arles antique ad Arles (1983-95) e Palais de justice di Pontoise (1997-2005).

Lezione di continuità con un modo di fare architettura proveniente da una combinazione di conoscenza storica ed esercizio di logica è quella di Sergison Bates architects (Jonathan Sergison, 1964, e Stephen Bates, 1964). Senza alcuna necessità di imporre in modo chiassoso la propria presenza, gli edifici residenziali dei due architetti inglesi (Edifici in Finsbury Park, Londra, 2004-08; Condominio e asilo nido in Rue du Cendrier a Ginevra, 2006-11; blocchi per appartamenti ad Hampstead, Londra, 2014-22) si affermano come esemplari di una sobria urbanità, contemporanea e ciò nondimeno appartenente al nobile passato delle città europee.

In Italia, Francesco Venezia (1944), con il Teatrino all’aperto a Salemi (1981-86, con Marcella Aprile e Roberto Collovà), e il Museo di Gibellina (1981-87), e poi con progetti più recenti (Museo della stratigrafia storica, a Toledo, 2006-07, Piramide all’Anfiteatro di Pompei, 2015) si fa interprete di una versione lirica ma non per questo idealizzata – anzi, passata al vaglio del tempo e della materia – della lezione dei maestri moderni. Mauro Galantino (1953-2022), con opere come la Chiesa di San Ireneo a Cesano Boscone (1990-2000), il Centro scolastico a San Giovanni Valdarno (1996-2006) e la Scuola elementare ad Arcore (2001-04), è invece portatore di una continuità con i linguaggi dell’astrazione europei e nazionali.

Ma continuità è pure quella che rivendicano Fabrizio Barozzi (1976) e Alberto Veiga (1973) con il loro lavoro: «Per noi lavorare in continuità significa evidenziare l’unicità di un luogo, articolando un rapporto intimo con le specificità del sito, in modo che la nuova architettura risuoni con un particolare senso di appartenenza alle condizioni originali»[9]. E in effetti, la Philharmonic Hall di Szczecin, Polonia (2007-14), il Musée cantonal des Beaux-Arts di Lausanne (2011-19), il Bündner Kunstmuseum di Chur (2012-16), la Tanzhaus di Zürich (2014-19), pur differenziandosi dalle caratteristiche morfologiche degli edifici preesistenti, suggeriscono tutti di avere qualcosa a che fare con essi. Spiegare il segreto di questa continuità – precisamente al pari di quello della felicità – sarebbe difficile. E tuttavia, per chi come Barozzi Veiga dimostri di conoscerlo, farlo si traduce in un semplice «gesto».

3. Des yeux qui voient: «Una grande epoca è cominciata. Esiste uno spirito nuovo. […] I nostri occhi purtroppo non sanno ancora vederlo»[10]. Ciò che i contemporanei di Le Corbusier non sapevano vedere era ciò che avevano proprio sotto i loro occhi: la lezione architettonica contenuta nei mezzi di trasporto della loro epoca. Al contrario, gli occhi di Anne Lacaton (1955) e di Jean-Philippe Vassal (1954) sanno vedere benissimo ciò che per molti loro contemporanei resta invisibile: la lezione architettonica contenuta negli edifici e nei luoghi esistenti.

Place Léon Aucoc, Bordeaux. Nel quadro di un programma di «abbellimento» delle piazze cittadine promosso dal Comune di Bordeaux, nel 1996 Lacaton & Vassal sono incaricati di «abbellire» questa piazza. Dopo averla osservata a lungo in diversi momenti e avere sentito alcuni suoi frequentatori, hanno ritenuto che fosse «già bella così», nella sua autenticità priva di sofisticazioni. Il progetto da loro presentato ha così proposto di non fare nulla, a parte alcuni semplici e rapidi lavori di manutenzione, come sostituire la ghiaia, pulire la piazza più di frequente, curare i tigli, modificare leggermente il traffico. Il progetto è stato approvato e messo in opera.

Cap Ferret, Département de la Gironde. Nel 1998 Lacaton & Vassal ricevono l’incarico di progettare una casa affacciata sul bassin d’Arcachon, affacciato sull’Oceano Atlantico. Il sito su cui dovrà sorgere il cantiere è occupato da alti pini e da una bassa vegetazione di corbezzoli. Lacaton & Vassal sono intenzionati salvarli. Ma come conciliare la conservazione della natura e la costruzione della casa? Lacaton & Vassal fanno piantare dodici micropali nel terreno e in cima ad essi fanno montare una struttura metallica che s’insinua tra gli alberi. Diventerà la struttura della casa, le cui pareti verranno realizzate con pannelli di alluminio. Il pavimento e il soffitto sono attraversati dagli alberi. In questo modo i pini sono salvi e diventano gli «ospiti fissi» del soggiorno dei padroni di casa.

Palais de Tokyo, Parigi. Costruito sulle rive della Senna in occasione dell’Esposizione Universale del 1937, il Palais de Tokyo è rimasto a lungo vuoto, dopo avere ospitato provvisoriamente le collezioni del Musée des arts contemporains. Nel 1999, il Ministero della Cultura francese indice un concorso per farne «una piattaforma per la creazione contemporanea». Lacaton & Vassal intuiscono le potenzialità dell’edificio e decidono di conservarne la struttura, rinforzandola in alcuni punti e liberandola da tutti gli elementi di rivestimento. Nel 2002 apriranno gli spazi al piano terreno. In seguito all’enorme successo riscosso, nel 2014 il Palais de Tokyo è fatto oggetto di un secondo intervento, sempre realizzato da Lacaton & Vassal, che permetterà l’apertura anche dell’altro piano.

Porto di Dunkerque. Un vecchio magazzino di barche chiamato Halle AP2. Nel 2013 giunge a Lacaton & Vassal la richiesta da parte del FRAC (Fonds régionaux d’art contemporain) di realizzare al suo posto la propria sede locale. Il vecchio magazzino è impressionantemente grande e luminoso. Anziché abbatterlo, Lacaton & Vassal lo raddoppiano, costruendo a fianco di quello esistente un secondo volume esattamente uguale al primo, soltanto composto di una struttura prefabbricata dotata di un involucro vetrato e bioclimatico. I due edifici, collegati tra loro da una passerella disposta perpendicolarmente alle facciate principali, aprono nel 2015 e possono entrambi ospitare eventi del FRAC oppure funzionare in modo indipendente.

Quartier du Grand Parc, Bordeaux. Tre grandi edifici popolari degli inizi degli anni sessanta. Altezza tra 10 e i 15 piani, 530 alloggi in tutto, e soltanto tre lettere per distinguerli: G, H, I. Nel 2011 l’Office Public de l’Habitat della Comunità urbana di Bordeaux assegna a Lacaton & Vassal il compito di ricollocare gli abitanti in nuovi edifici che sorgeranno dopo che i precedenti saranno stati smantellati. Ma Lacaton & Vassal scorgono una possibilità alternativa: il loro progetto prevede di mantenere gli edifici esistenti aggiungendo loro in facciata ampie logge che fungano da giardini d’inverno; inoltre vengono effettuati lavori di miglioramento degli interni e di ristrutturazione dei bagni, nonché sono riconfigurati gli ingressi e i giardini comuni e la circolazione verticale, senza che gli abitanti debbano essere trasferiti durante i lavori. Il tutto a un costo per appartamento di circa un terzo minore rispetto a quello che sarebbe costato distruggere e ricostruire. Quando termina il cantiere, nel 2017, l’edilizia popolare ha compiuto un «salto» di scala sociale.

«C’è uno spirito nuovo: spirito di costruzione e di sintesi guidato da una concezione chiara»[11]. Lacaton & Vassal sanno perfettamente vederlo e interpretarlo[12].

4. Juggling: «La giocoleria è l’arte di manipolare con destrezza uno o più oggetti. La manipolazione degli oggetti da parte del giocoliere può comprendere lanci ed equilibrismi di tali oggetti sul corpo». Questa la definizione datane dall’autorevole fonte di Wikipedia. Se si fa esclusione per i lanci (ma al livello di «abilità» a cui qui ci si riferisce non si può escludere nulla), si può affermare che tanto quella di BIG (Bjarke Ingels Group) quanto quella di MVRDV (Winy Maas, Jacob Van Rijs, Nathalie de Vries) sia un’arte pienamente riconducibile alla giocoleria. Denominatore comune a (quasi) tutti i componenti di entrambi è Rem Koolhaas, maestro assoluto di giocoleria. Non si potrebbe comprendere altrimenti la ripresa di pezzi ormai «classici» del suo repertorio (a sua volta ripreso da quello di Archigram) come ad esempio l’«archifumetto»; nella versione di BIG, un vero e proprio «manifesto» dell’architettura del gruppo, in cui si legge tra l’altro: «Storicamente, l’architettura è stata dominata da due estremi opposti: un’avanguardia piena di idee folli, provenienti dalla filosofia o dal misticismo; e i consulenti aziendali ben organizzati che costruiscono scatole prevedibili e noiose di alto livello. L’architettura sembra arroccata: ingenuamente utopica o pietrificantemente pragmatica. Noi crediamo che esista una terza via tra questi opposti diametrali: un’architettura utopica e pragmatica che crea luoghi socialmente, economicamente e ambientalmente perfetti come obiettivo pratico. Noi di BIG ci dedichiamo a investire nella sovrapposizione tra radicalità e realtà. In tutte le nostre azioni cerchiamo di spostare l’attenzione dai piccoli dettagli al quadro generale»[13].

Nato a Copenhagen nel 1974, Bjarke Ingels mette in luce la sua abilità dapprima presso OMA, e poi nello studio PLOT, aperto insieme a Julien de Smedt. Il 2005 è l’anno di fondazione di BIG. Tra i «giochi di prestigio» da esso prodotti si possono ricordare il complesso The Mountain, ad Ørestad, Copenhagen (2003-08), un vero e proprio «cumulo» di unità residenziali disposte diagonalmente su un piano dalla forte pendenza, cui fa da basamento un ampio parcheggio multipiano; l’8 Tallet nella stesso quartiere della capitale danese (2006-10), un edificio residenziale e commerciale dalla planimetria a forma di ∞; il Superkilen (2011-12), 750 m di «trovate» architettonico-spaziali che si dispiegano come un nastro nel quartiere Nørrebro a Copenhagen (un giardino-percorso urbano, realizzato in collaborazione con Topotek 1 e Superflex, dove sono allineati oggetti, spazi e situazioni appartenenti alle tante diverse culture che compongono il melting pot del quartiere); il CopenHill (Energy Plant and Urban Recreation Center), a Copenhagen (2011-19), accoppiata apparentemente impossibile di un impianto di termovalorizzazione dei rifiuti e di una pista da sci e un parco urbano posti sulla sua copertura inclinata; il «courtscraper» West 57th Street, a New York (2016-18), un grattacielo «a corte» dal profilo triangolare che per la sua particolare forma spicca nello skyline di Manhattan, tendenzialmente fatto di linee rette; la LEGO® House, a Billund (2017), una costruzione piramidale a gradoni fatta di «mattoncini» della nota azienda danese – bianchi lateralmente e colorati nella parte superiore –, il cui scopo è costituire un hub di esperienze ludiche e di apprendimento. La Marsk Tower (2021), una scala elicoidale in acciaio corten, che si erge a un’altezza di 25 m nel Nationalpark Vadehavet (un’area naturale protetta, patrimonio UNESCO, dello Jutland meridionale), permettendo di osservarne l’affascinante paesaggio di paludi e di dune sabbiose. Da ultimo vale la pena citare un numero di grande effetto recentemente eseguito da BIG: Formgiving[14], una «profetica» storia del futuro architettonico comprendente tra l’altro una timeline che va dal Big Bang al più lontano avvenire, ma anche perle di «antica saggezza» di Bjarke Ingels: «Poiché sappiamo dal nostro passato che il nostro futuro è destinato a essere diverso dal nostro presente, invece di aspettare che prenda forma da solo, abbiamo il potere di dargli forma».

Non meno versato nella prestidigitazione (letteralmente: manipolazione veloce) dei progetti è MVRDV. A riprova della destrezza dello studio olandese possono essere citati il Markthal di Rotterdam (2004-14), un edificio a «tunnel» che all’interno alloggia un mercato coperto e sotto la volta arcuata un gigantesco «affresco» digitale degli artisti Arno Coenen e Iris Roskam; le Crystal Houses ad Amsterdam (2016), replica – realizzata per un noto marchio di moda – di una casa tradizionale olandese, dove al posto dei mattoni di terracotta MVRDV utilizza mattoni pieni di vetro sperimentati e fatti produrre per l’occasione; The Stairs to Kriterion, una gigantesca rampa di scale provvisoria sostenuta da aeree impalcature e suddivisa in cinque corsie, fatta costruire nel 2016 nei pressi della stazione Rotterdam Centraal in occasione della mostra «Rotterdam Viert de Stad!»: un modo per offrire a chi ne effettuasse l’ascesa un repentino cambio di punto di vista sulla città, visibile dalla copertura del Groot Handelsgebouw; la Tianjin Binhai Library (2017), nel nord-est della Cina, una biblioteca-mondo il cui suggestivo spazio interno si ripiega al pari di quello di una candida grotta o come un territorio segnato da lunghissime curve di livello che hanno la duplice funzione di scaffalature per i libri e di sedili sui quali accomodarsi per leggere; il Depot Boijmans Van Beuningen di Rotterdam (2020), una coppa interamente specchiante che contiene il primo deposito d’arte completamente accessibile al mondo.

Accanto al lavoro di MVRDV, va segnalato quello del «global think-tank» e istituto di ricerca The Why Factory, diretto da Winy Maas. All’interno di tale attività si colloca la pubblicazione di volumi dedicati – tra gli altri – a Visionary Cities, The Vertical Village e PoroCity.[15] Quest’ultimo, incentrato sul tema della “porosità urbana”, propone il gioco illusionistico più stupefacente: immaginare e far costruire una vasta collezione di torri con i LEGO® – infinite variazioni sulle possibili configurazioni del grattacielo – per sondare la permeabilità degli edifici alla città, e proprio in tal modo fornire infinite soluzioni al libero mercato.

5. Primitivismo Novissimo: da Jean-Jacques Rousseau a Henri Rousseau, e oltre. Come un fiume carsico, le correnti primitiviste attraversano la storia dell’arte e dell’architettura apparendo e scomparendo, senza mai davvero morire. Caratteri loro comuni sono il rimando a condizioni premoderne e l’osservazione incantata della natura. Espressioni storiche di primitivismo sono la reviviscenza della vita silvestre, la pratica del nomadismo aborigeno, la rievocazione delle maschere africane, l’estetica naïf, il culto del folklore.

In ambito architettonico il primitivismo consiste nel creare una «seconda» natura, artificiale ma imitazione diretta di quella vera. Di qui scaturiscono le finte grotte e montagne tardorinascimentali e barocche, il bugnato e l’ordine rustico, il Großes Schauspielhaus di Berlino (1918-19) e il progetto di Festspielhaus di Salisburgo (1920-21) di Hans Poelzig, le Endless Houses di Frederick Kiesler (1953-59), e molto altro ancora. E da qui deriva anche una serie di edifici-caverna realizzati da alcuni architetti al principio del XXI secolo: tra questi, i già citati Green Corner Building di Anne Holtrop e il Ristorante + alloggio di Junya Ishigami. Ma è soprattutto Ensamble Studio, fondato nel 2000 dagli spagnoli Antón García-Abril (1969) e Débora Mesa (1981), a lavorare con maggior continuità e convinzione sul tema primitivista. Il «manifesto» con il quale presentano il loro lavoro esordisce così: «Pensiamo con le mani, sperimentiamo. Cerchiamo di controllare i processi più accuratamente dei risultati. Perché trovare la logica nello sviluppo rende più difficile sbagliare»[16]. Mescolando abilmente materia bruta e tecnologia contemporanea, Ensamble Studio si misura con l’odierna difficoltà di costruire con la pietra viva. È quanto accade nel Musical Studies Centre a Santiago de Compostela (2000-03), un volume semicubico le cui facciate tutte diverse sono costituite ciascuna da sette fasce di blocchi di granito la cui larghezza maggiore o minore determina l’apertura di strette finestre. Nella stessa città – e a non molta distanza – García-Abril e Mesa realizzano gli Uffici centrali della Sociedad General de Autores y Editores (2005-07), un corpo edilizio allungato che si incurva seguendo l’andamento della strada. Nei livelli inferiori, interrati, l’edificio ospita un auditorium, alcune aule e gli uffici veri e propri; al piano terreno si configura come un lungo porticato, in parte libero e in parte occupato dalla direzione, da una sala riunione e dall’archivio. È a questo livello che Ensamble Studio erge un muro composto di grossi massi irregolari di granito che formano «figure» trilitiche come lettere di un alfabeto preistorico o come una versione tridimensionale de L’art de la conversation (1950) di René Magritte.

Ma il «pezzo» primitivisticamente più rilevante è una piccola residenza estiva denominata «The Truffle», realizzata sulla costiera galiziana, in provincia di La Coruña, in località Costa da Morte (2006-10). La procedura di fondazione ha avuto inizio primitus con lo sterro di un terreno posto di fronte al mare; su di esso è stato gettato del cemento sopra il quale sono stati disposti diversi strati di balle di fieno; nuove colate di cemento hanno determinato un volume chiuso, stratificato, assimilabile a un megalito, nel corpo del quale gli architetti hanno fatto scavare per inserirvi una porta e una grande finestra. L’ultimo atto di tale progettazione performativa è consistito nel far mangiare a una vitella il fieno contenuto nel «tartufo». Passato un anno la vitella è divenuta adulta e i 50 m3 di fieno hanno lasciato il posto a un pari volume vuoto: una casa-grotta artificiale. Vivere «al riparo» dalla tecnologia in un rifugio di «roccia» cementizia manipolato in ogni sua parte è la contraddizione insita nel «Truffle» di Ensamble Studio. Una contraddizione costitutiva, comune anche a tutti gli altri tentativi odierni di «fuga» da una condizione senza via di uscita.

6. Necessità e virtù: «Tutta la storia delle donne è stata fatta dagli uomini». E tuttavia, «la donna libera sta nascendo»[17]. La profezia di Simone de Beauvoir si è rivelata esatta, nonostante tutte le discriminazioni e le resistenze che ancor’oggi rendono di sovente quello femminile un «secondo» sesso. Nello specifico, in campo architettonico la presenza femminile costituisce ormai una componente dimensionalmente rilevante e strategicamente essenziale, senza la quale sarebbe difficile anche solo immaginare l’esistenza stessa di un’attività progettuale. Qui la storia delle donne è ormai fatta dalle donne. E più in generale, quella storia (dell’architettura) che fino a non molto tempo fa era fatta pressoché esclusivamente dagli uomini ha iniziato ora a essere anche prerogativa delle donne.

Nata a Vittoria, in Sicilia, Maria Giuseppina Grasso Cannizzo (1948) si trasferisce a Roma per studiare architettura all’Università «La Sapienza». Conseguita la laurea, nel 1974, inizia un percorso di insegnamento a fianco di Franco Minissi, punto di riferimento per il restauro e fondamentale in particolar modo per i suoi interventi all’interno di siti archeologici siciliani. Nel 1980 si sposta a Torino, dove inizia una collaborazione con Fiat Engineering, lavorando alla ricostruzione dei centri storici terremotati della Basilicata. Nel 1986 decide di fare ritorno in Sicilia e qui di aprire uno studio professionale nella sua città natale. La traiettoria tracciata da Cannizzo non ha dunque nulla a che fare con un «destino» fatale, con una via «segnata» o peggio ancora, passivamente «seguita»; piuttosto con la costruzione cosciente di un proprio personale percorso che prevede di dover/voler affrontare da donna tutte le problematiche legate alla professione progettuale in Sicilia. Applicandosi con attenzione e caparbietà ad opere private di piccola scala – spesso le uniche alle quali poteva ambire il suo studio in quel periodo – Grasso Cannizzo studia i materiali, ascolta i committenti, ricuce tra di loro elementi in precedenza connessi. Il tentativo è quello di tornare a controllare per intero il processo progettuale ed esecutivo secondo una modalità «artigianale» apparentemente appartenente ad altre epoche, ma in realtà praticabile ancor’oggi. E se nella Torre di controllo nel porto turistico di Marina di Ragusa (2008-09) Grasso Cannizzo sovrappone tre volumi diversi per struttura e materiali, riuscendo tuttavia a conferirle un’identità unitaria, nella Casa-studio ricavata nell’ex-Albergo Italia, a Vittoria (1991-2001), e nella trasformazione dell’ex-asilo di Mazzarone, Catania, in casa unifamiliare (2018), lavora su edifici già esistenti, nel primo caso mantenendone l’involucro e svuotandone l’interno (non una semplice opera di rimozione bensì la creazione di un «vuoto attivo»)[18], e nel secondo conservando la distribuzione dell’asilo e riadattandola alla nuova funzione residenziale. Interventi compiuti con «consapevole partecipazione […] procedendo caso per caso»[19], in un’operatività che ha con tutta evidenza come proprio modello il restauro, pur differenziandosene negli obiettivi finali.

Provenienti da due piccoli centri dell’Irlanda, le giovani Yvonne Farrell (1951) e Shelley McNamara (1952) si conoscono all’University College di Dublino, dove studiano entrambe architettura e dove si laureano nel 1974. Nel 1978 fondano assieme ad altri tre colleghi il loro studio professionale, ubicato al numero 97 di Grafton Street, una delle vie commerciali più note di Dublino; da qui il nome dello studio, Grafton Architects. Rimaste abbastanza presto da sole, dedicano la loro attività prevalentemente alla progettazione residenziale e scolastica. Nel 1992 si aggiudicano il masterplan per la riqualificazione della Temple Bar Square, nel cuore di Dublino (1992-96); qualche anno più tardi, nella non lontana Little Strand Street, una stretta e anonima via, realizzeranno un edificio per uffici (1997-99) che per la sua laconica durezza riecheggia la Maison de verre di Chareau e Bijvoet; mentre il Department of Mechanical and Manufacturing Engineering, al Trinity College di Dublino (1994-96), ha qualcosa dell’Engineering Building a Leicester di Stirling & Gowan, per quanto assai più «raffinato». Si inaugura con questo la particolare dedicazione di Grafton Architects per edifici a destinazione universitaria che – insieme alla predilezione per i rivestimenti in pietra «contrappuntati» alle abbondanti superfici vetrate (si veda ad esempio l’ampliamento dei Government Buildings dell’Office of Public Works di Dublino, 2001-08) – segna fortemente la seconda fase della carriera di Farrell e McNamara. Ed è con l’affermazione nel concorso per l’ampliamento dell’Università Bocconi a Milano (2002-08) che tale fase ha ufficialmente inizio. Qui infatti Grafton Architects risolve in modo convincente non soltanto il complesso puzzle di funzioni da stivare nell’articolata volumetria, ma anche il rebus di dare un volto a tutto ciò, sebbene non per forza unitario. Il grande sbalzo dell’aula magna, la serrata ritmica dei corpi degli uffici, parlano ciascuno a modo proprio della loro appartenenza alla città, del loro rappresentare uno spazio pubblico, per quanto privata sia l’università che li ospita.

Nei moltissimi complessi che seguiranno (la Toulouse School of Economics, 2009-19, lo University Campus UTEC a Lima, completato nel 2015, la Town House della Kingston University di Londra, 2019, la London School of Economics, 2022, per citarne solo qualcuno) Farrell e McNamara dimostrano una grandissima abilità nel dare una solida immagine ai loro edifici, tanto più pregevole in un’epoca di inquietante transitorietà come quella attuale. E della stessa capacità di conferire una solida consistenza al loro operare testimonia anche la mostra Freespace, da loro curata in qualità di direttrici della XVI Biennale di Architettura di Venezia, nel 2018, in cui si sono impegnate nel «trovare in ogni progetto una nuova e inattesa generosità, anche nelle condizioni più private, difensive, esclusive o commercialmente limitate»[20]. Una ricerca per nulla facile nel mondo contemporaneo, e tuttavia proprio per questo ancora più indispensabile e pregevole.

Dopo avere studiato in Spagna, a Valladolid e a Granada, Elisa Valero (1971) si trasferisce a Città del Messico per insegnare e dove ha l’occasione di eseguire la riqualificazione del Ristorante Los Manantiales a Xochimilco, pièce de résistance di Félix Candela. Nel 1997 apre il suo studio a Granada. I suoi edifici sono tutti caratterizzati da una radicale durezza: la scelta del cemento armato («la pietra artificiale del nostro tempo», come afferma ella stessa)[21], impiegato secondo una particolare tecnica che aumenta le sue prestazioni termiche e diminuisce la quantità di materiale utilizzato e i costi di costruzione, assume altresì un valore simbolico. In tal senso va considerato l’uso che ne viene fatto nella Chiesa di Santa Josefina Bakhita, a Granada (2015-16): dove la nettezza del parallelepipedo in cemento lasciato «nudamente» a vista «parla di sincerità costruttiva e di sobrietà, valori atemporali che depurano l’architettura dall’ornamento e consentono alla sola luce di plasmare lo spazio». Mentre nelle 8 «viviendas sociales» a Málaga (1999-2008), e ancora di più nelle 8 «viviendas experimentales» a Granada (2015-16), Valero lo usa a fini bioclimatici, con una conseguente riduzione dei costi energetici e un notevole vantaggio economico per i loro abitanti.

Da tutto ciò l’architetta ha desunto la propria «teoria del diamante»[22], una teoria che al tempo stesso le serve fattivamente nella pratica del progetto: sulla base di essa, esiste un’analogia stringente tra il lavoro dell’architetto e quello del tagliatore di diamanti, per entrambi i quali è indispensabile la più grande precisione esecutiva. Come infatti soltanto un taglio preciso riesce a ottenere il meglio dalla pietra grezza, così soltanto attraverso la massima precisione di tutte le azioni finalizzate alla progettazione e costruzione è possibile conseguire uno spazio architettonico davvero soddisfacente.

«Il tessuto è un prodotto culturale che è in movimento, condivisibile e in definitiva aperto a incontri con il mondo esterno che preludono a continue trasformazioni, un tessuto a trame aperte»[23]. Il lavoro di Francesca Torzo (1975), architetta di Padova con studio a Genova dal 2008, è assimilabile a un’accurata tessitura. Che si tratti dei pavimenti di una casa di tufo (Casa due a Sorano, nei pressi del Lago di Bolsena, 2007-10), oppure delle pareti e dei soffitti dell’estensione di un  preesistente museo d’arte, design e architettura (Z33, ad Hasselt, Belgio, 2011-19), oppure ancora, di un vestito o di un oggetto d’arredo (disegnati per la galleria MANIERA di Bruxelles, 2018-20), il modo in cui Torzo vi si accosta prevede sempre un legare e un annodare. Come scrive ancora Ellis Woodman, in essi aleggia una domanda: «Che tipo di architettura potrebbe risultare dall’annodare linee piuttosto che dal montare blocchi?»[24]. La risposta è fornita dalla stessa Torzo, allorché afferma di predisporre – progettando – «una struttura narrativa di esperienze aperta, e tuttavia precisa, dove all’interno di una rigidità fisica, costruita, si possono incontrare diverse possibili soluzioni a disposizione della interpretazione della gente»[25]; ciò che assimila il creare spazi alla scrittura, ovvero – ancora una volta – a una fitta orditura di segni dotati di significato all’interno dei quali il lettore/abitante può muoversi.

La riservatezza e la lealtà con cui Francesca Torzo pratica il proprio mestiere, così come la cura e la caparbietà con cui lo pratica Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, l’affidabilità con cui lo praticano Yvonne Farrell e Shelley McNamara, la precisione con cui lo pratica Elisa Valero, dimostrano come tali virtù siano essenziali per l’architettura. E nondimeno lo sono quelle di tante altre donne architette che popolano la scena attuale: la danese Dorte Mandrup (1961), specializzata nell’intervenire «in irreplaceable places»[26], in special modo alle latitudini estreme, mettendo a frutto le proprie competenze in materia di scultura, medicina e ceramica, che nel 2022 le hanno fatto guadagnare il Global Award for Sustainable Architecture; l’indiana Anupama Kundoo (1967), vincitrice del medesimo premio e autrice di numerosi progetti nel suo paese in cui cerca di conseguire – avvalendosi spesso di materiali di scarto e di manodopera non specializzata appartenente alle comunità locali – una «right-tech» (giusta tecnologia), a disposizione di tutti, e non solo di pochi privilegiati; la brasiliana Carla Juaçaba (1976), il cui Humanidade Pavilion, realizzato a Rio de Janeiro in occasione della United Nations Conference on Sustainable Development 2012 (un edificio di ragguardevoli dimensioni realizzato con una struttura metallica lasciata a vista), le è valso l’arcVision Prize, un premio internazionale assegnato alle donne in architettura; la libanese Lina Ghotmeh (1980), che facendo propria la dura lezione che la guerra ha impartito ai palazzi delle città del suo paese, prova a produrre un’architettura che confina con la rovina (Torre residenziale «Stone Garden» a Beirut, 2011-20), alla ricerca di un’«archeologia del futuro»[27], capace di oltrepassare l’ingannevole «ottimismo» delle facciate in acciaio e vetro.

Questo elenco – estremamente limitato per ragioni di spazio – è destinato ad allungarsi a dismisura in futuro.

7. Refurbishment: tra le pratiche adottate nel campo delle costruzioni attuale è quella certamente più diffusa, ma è anche la più «umile». I grandi studi di architettura non fanno «refurbishment»: al più «restoration», «preservation», «renovation». Fra coloro che dichiarano di farlo, non tutti sono studi «minori», per importanza e grandezza. Non lo è sicuramente David Chipperfield Architects, autore di alcuni tra i più interessanti interventi in tal senso, primo fra tutti quello compiuto sul Neues Museum a Berlino (1997-2009). Realizzato su progetto di Friedrich August Stüler sulla Museumsinsel intorno alla metà dell’Ottocento, l’edificio esistente era stato bombardato nel corso della seconda guerra mondiale e in seguito lasciato in rovina. Dopo essersi aggiudicato il concorso internazionale, lo studio di Chipperfield, pur ristabilendo al suo interno l’originaria funzione di museo dedicato alle collezioni egizie, mantiene in molte sue parti un aspetto esplicitamente délabré (lo scalone monumentale centrale ne costituisce un meraviglioso esemplare), reintegrandone altre per mezzo di materiali e di un’estetica altrettanto esplicitamente contemporanei. L’accostamento di frammenti d’intonaco, lacerti di affreschi, colonne classiche, mattoni faccia a vista e lisce superfici cementizie genera un inedito «incontro» nel quale il consueto senso del «neue» assume risonanze del tutto diverse.

A questo intervento ne seguiranno numerosi altri, tutti condotti con l’elegante maestria della quale David Chipperfield è capace. Vale qui la pena ricordarne due tra quelli più recenti: il vero e proprio «refurbishment» della Neue Nationalgalerie di Berlino di Mies van der Rohe (2012-21), e il riuso delle Procuratie Vecchie di Venezia (2017-22). E se in entrambi i casi è ricercata la «massima conservazione del tessuto esistente, con una minima compromissione visiva dell’aspetto originale dell’edificio»[28], nel secondo il lunghissimo fronte che prospetta su piazza San Marco – opera tra gli altri di Mauro Codussi e di Jacopo Sansovino – viene rispettato, mentre agli spazi interni è aggiunta una distribuzione orizzontale precedentemente assente. In ogni caso, «sia che si tratti di riparare il tessuto storico o di aggiungere nuovi elementi, sono state utilizzate tecniche costruttive e artigianali antiche, locali e tradizionali per creare una continuità materiale in tutto l’edificio e rafforzarne l’integrità»[29]. Non per nulla, dalla relazione di progetto dello studio inglese con sedi a Londra, Berlino, Milano e Shanghai riemergono «antichi» termini del costruire tradizionale italiano come «intonaco di marmorino», «scialbatura», «pastellone», «terrazzo».

Diversamente da David Chipperfield Architects, Flores Y Prats Architects, aperto nel 1998 a Barcellona da Ricardo Flores (1965) ed Eva Prats (1965), è un «piccolo» studio maggiore che non disdegna di compiere ristruttuazioni (ovvero, con linguaggio significativamente fisiatrico, «riabilitazioni») di spazi ed edifici di differenti complessità e dimensioni: è il caso della riabilitazione di un mulino del XVI secolo a Palma de Mallorca al fine di ospitarvi il Museo dei Mulini delle Isole Baleari (1997-2002), o di quella di Casal Balaguer, un palazzo barocco nel centro storico della stessa città, per farne un Centro culturale (2009-16). In entrambi il lavoro compiuto consiste nell’aggiunta di un livello di «storicità» all’edificio, anziché della cancellazione dei precedenti; un’opera di attenta sutura tra parti vecchie e parti nuove, «in un continuum temporale che ha come effetto che i nuovi interventi si fondono con il resto»[30]. Ma l’esito forse più felice di queste pazienti stratificazioni e metamorfosi non per forza vistose è l’intervento realizzato da Flores Y Prats sull’edificio abbandonato della «Cooperativa Paz y Justicia» a Poblenou, quartiere ex operaio di Barcellona, per trasformarlo nella nuova Sala Beckett, Obrador Internacional de Dramatúrgia (2010-16). Nonostante le sue condizioni di degrado, l’edificio costituiva una presenza importante nella memoria collettiva degli abitanti del quartiere, ciò che ha fatto propendere Flores Y Prats per una sua sostanziale conservazione nello stato in cui si trovava. E nondimeno negli interni, mediante un minuzioso lavoro di salvataggio di spazi e di frammenti materici, gli architetti hanno dato vita a un palinsesto straordinario, concrezione di rosoni, piastrelle, portali e murales di vari stili ed epoche, alla quale si assommano nuovi spazi, nuove materie e nuovi colori. Accostando l’occhio a questo variegato caleidoscopio la storia non soltanto risulta visibile ma addirittura si lascia toccare con mano, e si mostra «in azione» proprio mentre si fa.

«Valorizzare il piccolo, il minuscolo, il quasi impercettibile. Osservare e seguire l’architettura da vicino, da molto vicino. Perseguire e farsi perseguitare fino all’ultimo dettaglio, senza possibilità di fermarsi prima. Arrivare, in certi casi, all’aggregato con cui verrà eseguito il giunto tra due piastrelle, far dipendere il progetto da esso e sapere che il progetto dipende da esso»[31]. Con queste parole Irene Pérez Piferrer (1976) e Jaume Mayol Amengual (1976) – in arte TEd’A arquitectes – rendono plasticamente manifesta la loro idea di architettura, consistente nel mettere in primo piano

i materiali, non per farne una maschera dietro la quale celarsi, bensì esattamente al contrario per dare la parola alle loro «incoerenze» e «incertezze». Nel progetto per Can Picafort a Santa Margalida, Mallorca (2013-17), nella fattispecie, oggetto dell’intervento è un appartamento su due piani in uno stabile degli anni sessanta all’interno del quale gli architetti operano strategici spostamenti di tutti gli ostacoli presenti per aprire lo spazio in senso longitudinale, in modo da collegare visivamente il fronte verso il mare e quello sul retro, e compiono sapienti accostamenti di laterizi (mattoni forati e piastrelle irregolarmente fatte a mano). L’interno diventa così una sorta di «testo», frutto di un accordo non necessariamente armonioso tra la cancellazione dei segni precedentemente esistenti e la scrittura di nuovi layers, che tuttavia tengono conto delle tracce rimaste. Intesa in questo modo l’architettura diventa ben più che l’espressione di un disegno di progetto: piuttosto un vero e proprio «corpo a corpo» con le sue superfici e i suoi spazi. E non è forse secondario che, prima ancora di indicare una nuova «strutturazione» di entrambi, la parola «refurbishment» custodisca dentro di sé il senso del «furbish» (pulire, lucidare), vale a dire qualcosa che si fa utilizzando le mani.

8. Rigore: uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro dell’austerità. Dopo la proliferazione della blob architecture nel corso degli anni novanta e del primo decennio del Duemila (ma già anni prima Manfredo Tafuri tuonava contro i «carnevali della forma» e i «vagabondaggi arbitrari»)[32], dopo la crisi finanziaria del 2007-08, diversi architetti europei – tedeschi, svizzeri, in qualche caso anche inglesi e italiani – hanno imboccato la via di una sobrietà che non si traduce automaticamente in un maggiore risparmio economico, e che rientra piuttosto in quella che si potrebbe definire un’«economia del segno».

Che non si tratti (tanto) di una questione di uso parsimonioso delle risorse risulta evidente osservando le opere degli architetti e degli studi che verranno citati: dove la scelta di un supremo prosciugamento linguistico è frutto – nella gran parte dei casi – di una decisione estetica consapevole, e niente affatto di circostanze esterne fortuite; mentre in alcuni casi, addirittura, è frutto di una vera e propria ossessione. Non si lascerebbero spiegare altrimenti edifici come la Biblioteca Diocesana, a Münster (2002–05) e lo Jacob und Wilhelm Grimm Zentrum della Humboldt Universität, a Berlino (2006-09), di Max Dudler (1949); la Mobimo Tower, a Zurigo (2002–11) e la Maison Davidoff, a Basilea (2011–17), di Diener & Diener Architekten; l’Humboldt Forum/Castello di Berlino (2008-20) di Franco Stella (1943), per citarne solo qualcuno. Attraverso la mediazione più o meno diretta di Oswald Mathias Ungers, di Giorgio Grassi e di Hans Kollhof, tali architetti sono approdati a un’architettura «ostinata», maniacale, sotto certi aspetti «protestante», luterana. E infatti, ascetismo, ripetizione, semplificazione, astrazione, sono alcuni dei termini che si potrebbero usare per rendere l’idea del loro ritmico alternare i pieni ed i vuoti, del loro inesausto incrociare le travi e i pilastri, del loro far rispecchiare tridimensionalmente le griglie perfettamente regolari. Più che di neorazionalismo ha senso parlare di neorigorismo, dal momento che non necessariamente tale regime di segni ha qualcosa a che fare con la ragione. Mentre a un estremo rigore può essere ricondotto il criterio procedurale che è comune a tutti costoro. Precisione, meticolosità, esattezza, sono infatti gli ulteriori attributi che potrebbero essere assunti per definire i loro lavori così come quelli di altri: cui non è estranea comunque neppure la nozione di «contesto», inteso principalmente come inserimento in un ambiente urbano. Studi come Miller & Maranta, Atelier Kempe Thill, Caruso St John Architects, lavorano tutti alla costruzione di una città europea che, pur non essendo niente affatto «ideale», deve rispondere a un’immagine che i loro rigorosi edifici cercano di riflettere. E ciò, che si tratti della Berlino in cui Quintus Miller (1961) e Paola Maranta (1959) inseriscono l’edificio per uffici am Hamburger Bahnhof (2011-17); o della Antwerp nella quale André Kempe (1968) e Oliver Thill (1971) ambientano il Nieuw Zuid Housing (2015-16); o ancora, della Zurigo lungo la cui Europaallee, a fianco della stazione ferroviaria, Adam Caruso (1962) e Peter  St John (1959) dispongono un blocco edilizio a uso misto (2007–13).

Nel caso invece di Emanuel Christ (1970) e Christoph Gantenbein (1971), la loro ricerca architettonica si intreccia allo studio approfondito che compiono sugli edifici diffusi – e per questa ragione «anonimi» – delle città del mondo (Hong Kong, Roma, New York, Buenos Aires, Parigi, Delhi, San Paolo, Atene), per mettere a fuoco attraverso di essi le tipologie urbane ricorrenti, e ancora di più, il carattere distintivo di ogni città: «Nella selva di una città cerchiamo la logica della sua forma, in altre parole, ciò che è tipico del suo sviluppo, o semplicemente la tipologia – cerchiamo i paradigmi sottostanti» [33]. E ancora: «La maggior parte degli edifici che costituiscono la città moderna sono soluzioni standard. E spesso a prima vista appaiono poco interessanti o addirittura noiose. Ma l’architettura tipica della città moderna è proprio questo. E per quanto noi architetti possiamo essere tentati di concentrarci sull’oggetto bello, ideale, sull’eccezione perfetta, in realtà consideriamo la norma architettonica, il caso tipico, più importante – e spesso anche più intrigante in termini di design»[34]. È da qui che Christ & Gantenbein desumono la lezione dell’architettura urbana che essi stessi progettano: e se la candida «anonimia» del Westhof Housing a Monaco di Baviera (2011-18) è perfettamente calata nella parte della soluzione standard per la città moderna, l’estensione del Museo Nazionale Svizzero (2000-16) e quella del Kunstmuseum (2010-16), ambedue a Basilea, testimoniano della capacità degli architetti di rendere «parlanti» degli oggetti rigorosamente muti.

All’esercizio di un inflessibile rigore è devoluto anche il lavoro di Christian Kerez[35]. Ma di più ancora che nella scuola a Leutschenbach (2002-09) o nell’edificio per uffici a Lyon Confluence (2013-18) – intelligenti variazioni sul tema della griglia-scheletro trave-pilastro – è nella House with One Wall, (2007) e nella House with a Missing Column (2014), entrambe nei pressi di Zurigo, che Kerez sottopone le regole della costruzione a un’esigente verifica, mettendole in una condizione di deliberata «privazione» o «emergenza»: nel primo caso, rinunciando a una disposizione planimetrica consueta, un unico spesso muro in cemento armato zigzagante in orizzontale e in verticale è costretto a farsi carico del compito di articolare gli spazi della casa, con l’esito sorprendente di renderla una scatola interamente vetrata; nel secondo, un effetto simile è ottenuto riportando all’esterno l’intera struttura portante d’acciaio e la distribuzione verticale, e aumentando di conseguenza le dimensioni delle travi orizzontali. Attestazioni entrambe dell’irrefrenabile passione nutrita da Kerez per la pulizia dello spazio e per una trasparenza panottica, a 360°; ma pure dimostrazioni innegabili – queste, così come quelle precedentemente illustrate – che il rigore, e non già alcuna permissività o «indulgenza», quando praticato con cognizione di causa, genera la vera libertà.

9. Italian Style: al di là delle retoriche che continuano a identificarvi dei prodotti caratterizzati da una particolare eleganza, lo «stile italiano» ha perduto – da qualche decennio a questa parte – il suo indiscusso primato; e se quest’ultimo resiste ancora nel campo della moda, sicuramente ha cessato di essere tale per quanto riguarda l’architettura e il design.

Lasciati alle spalle gli anni cinquanta e sessanta, con la loro eccezionale concentrazione di «professionisti colti» (Ignazio Gardella, Franco Albini, Vico Magistretti, Luigi Caccia Dominioni, Mario Asnago e Claudio Vender, per citarne sono qualcuno)[36], oltrepassati anche gli anni settanta, con il loro «impegno» da un punto di vista intellettuale e politico (Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino, Aldo Rossi, Guido Canella, Giorgio Grassi, Franco Purini)[37], l’architettura italiana ha attraversato la lunga «notte» degli anni ottanta e novanta (a parte poche eccezioni come Gabetti & Isola, Umberto Riva e Francesco Venezia), per rivedere la luce soltanto nel primo decennio degli anni Duemila[38]. Pur senza tornare a vivere i fasti dell’aurea stagione appena citata, allorché la sua influenza aveva raggiunto dimensioni internazionali, e pur senza spesso rendersi distinguibile per caratteristiche e qualità specifiche all’interno di un panorama europeo al quale – nei casi migliori – sempre più si uniforma, l’architettura italiana attuale ha tuttavia ritrovato una propria «misura», che le era appartenuta in passato[39]. La possiedono sicuramente le opere di Paolo Zermani (1958), «fissate» nella rievocazione delle forme assolute, «esaltate», del tardo Settecento francese, assennatamente riportate però a un radicamento terreno (Villa Zermani, Varano dei Marchesi, Parma, 1997; Tempio della cremazione, Parma, 2006-10); la possiedono le residenze di Cino Zucchi (1955) nell’area ex Junghans alla Giudecca, Venezia (1995-2003), e quelle di edilizia convenzionata e libera al Portello, Milano (2002-08): edifici che, nella scelta delle calcolate dissimmetrie e delle ricercate impaginazioni «sparse», dimostrano di avere assunto a propri «timidi eroi» quei «professionisti colti» (soprattutto milanesi) poco più sopra nominati. E sulla medesima linea si colloca pure Onsitestudio (Giancarlo Floridi, 1973, e Angelo Lunati, 1973) in edifici come l’Hotel Duca d’Aosta (2012-15) e il Pirelli Building Cinturato (2016-20), entrambi a Milano: riprove di una sensibilità per il contesto e di una capacità di «ambientamento» che si appropria, unitamente ad alcune soluzioni linguistiche, dello spirito più profondo dei «maestri» milanesi.

Hanno una loro «misura» – contemporanea e urbana – gli Uffici Dolce & Gabbana (2006) e il Porta Nuova Building (2006-13), entrambi a Milano, di Piuarch (Francesco Fresa, 1963, Germán Fuenmayor, 1961, Gino Garbellini, 1964, e Monica Tricario, 1963); hanno una «misura» domestica e umana, il Centro socio-educativo (2004-11) e i Laboratori per persone con disabilità (2019) «Noivoiloro» a Erba, e la Wiggly House a Ponte Lambro, Como (2014-15), di Studio ifdesign (Ida Origgi e Franco Tagliabue Volontè); hanno una «misura» nonostante la collocazione periferica, l’Asilo nido della GlaxoSmithKline a Verona (2004-05), di ACPV Architects (Antonio Citterio, 1950, e Patricia Viel, 1962), e The Hub per Comunità Nuova-Don Gino Rigoldi a Milano (2013-16) di Calzoni architetti (Sonia Calzoni, 1962).

Apparentemente «fuori misura», e tuttavia in grado di rendere comunicativo il proprio «eccedere», è il Complesso parrocchiale di San Paolo Apostolo a Foligno (2000-09) di Massimiliano e Doriana Fuksas. Realizzata in seguito al devastante terremoto che ha colpito l’Umbria nel 1997, la chiesa è costituita da due parallelepipedi di cemento armato, l’uno inserito dentro l’altro: una muta e torreggiante presenza, animata soltanto da irregolari aperture, che sembra rimanere estranea alla tranquilla periferia di Foligno. Ma è proprio attraverso tali aperture – in realtà travi cave che connettono diagonalmente i due gusci (e mantengono sospeso quello più interno) – che qui avviene il luminoso «miracolo» della transustanziazione della materia.

In altre occasioni, più che in una questione di «misura», lo «spirito italiano» si lascia rintracciare in una capacità di trovare una soluzione «brillante» a un problema apparentemente insolubile. Tale è il Teatro elisabettiano di Danzica (2004-14) progettato da Renato Rizzi (1951), combinazione ingegnosa di un Globe Theatre shakespeariano e di un teatro all’italiana, come richiesto dal bando. Dotandolo di «ali» di copertura apribili verso l’alto, però, Rizzi fa letteralmente «spiccare il volo» al suo edificio, un denso corpo catafratto di mattoni «pieno» di vuoto che fa da cerniera tra il centro storico e la nuova Gdańsk. Un «volo» che non «distrae» minimamente l’edificio dai suoi uffici e che anzi lo riporta alla vera arché dell’architettura.

Del tutto diversa, ma altrettanto inventiva, è la Cantina Antinori a San Casciano in Val di Pesa (2003-12) di Archea Associati (Marco Casamonti, 1965). Letteralmente immersa nelle colline di produzione del chianti classico, la Cantina si sviluppa su diversi livelli e con diversi gradi di penetrazione nel terreno: così, al di sotto di una prima terrazza-«facciata» orizzontale rivestita di vigneti si accede alle zone destinate all’imbottigliamento e all’immagazzinamento; fori circolari e un grande scalone elicoidale che bucano la seconda terrazza-«facciata» permettono di raggiungere le aree che ospitano gli uffici e gli spazi espositivi e infine – scendendo e addentrandosi ulteriormente – le cantine vere e proprie, dove il vino matura in barriques. Un percorso produttivo e «iniziatico», il cui «segreto» è custodito sotto suggestive volte panneggiate in laterizio.

Ben diverso «segreto» è quello contenuto su un fianco della Stazione Centrale di Milano, in corrispondenza della vecchia Stazione postale. Da qui, durante la seconda guerra mondiale, partivano i convogli senza ritorno per i campi di concentramento nazisti. Ed è qui che Morpurgo de Curtis (Guido Morpurgo, 1964, e Annalisa de Curtis, 1969) hanno realizzato il Memoriale della Shoah (2004-21): un viaggio dolente attraverso una storia volutamente rimossa, emblematicamente inaugurato nel segno di una sorda «indifferenza» ma illuministicamente concluso nel segno della conoscenza.

Se qualcosa accomuna tutte questi «casi» – oltre alla loro unicità e straordinarietà, difficilmente replicabile – è un’«intelligenza delle cose» che va spesso oltre il progetto e che richiede altre capacità e competenze da parte degli architetti. Un’«arte di arrangiarsi», come è stata chiamata, in cui gli italiani sanno spesso eccellere.

10. Open Call: «Un municipio, un’infrastruttura culturale, una scuola, un complesso residenziale, un istituto di cura, un ponte, un paesaggio verde o urbano: devono essere realizzati, il budget è disponibile, ma come si fa a trovare un progettista con cui dialogare sul progetto? A partire dal 2000, il Team Vlaams Bouwmeester [Mastri costruttori fiamminghi] ha sviluppato la procedura Open Call per aiutare i committenti pubblici a selezionare i progettisti per incarichi nei settori dell’architettura, della pianificazione urbana, della progettazione del paesaggio, dello spazio pubblico e delle infrastrutture. I progetti governativi per i quali i progettisti sono ricercati tramite Open Call sono raggruppati e pubblicati due volte all’anno in tutta Europa. Architetti e designer in Belgio e all’estero sono invitati a candidarsi per uno o più progetti. Open Call rimane un modo unico e innovativo di selezionare e negoziare progetti. La stesura della loro definizione, che viene poi trasformata in una bozza di progetto da parte non di uno ma di diversi team di progettazione, e la discussione che ne consegue, aiutano il committente pubblico a fare una scelta ponderata del progettista che preferisce. Open Call è un mezzo per lavorare costantemente su una cultura edilizia visionaria in cui l’edificio è una risorsa sociale a tutti gli effetti, non un fine in sé, né semplicemente un modo per soddisfare rapidamente un bisogno»[40]. A vent’anni dal suo avvio il programma Open Call ha prodotto più di 300 interventi, e ha dato la possibilità di realizzare edifici ad architetti e studi rinomati come Zaha Hadid Architects, Eduardo Souto de Moura, OFFICE Kersten Geers David Van Severen o Studio Associato Bernardo Secchi Paola Viganò, ma anche a giovani studi alla loro prima occasione[41]. Oltre le consuete modalità dell’architettura contemporanea.


[1] Riferimento d’obbligo al proposito rimane il libro di G. Dorfles, Nuovi riti, nuovi miti (1965), Skira, Milano 2003.

[2] Cfr. J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei (1980), Bollati Boringhieri, Torino 2015.

[3] Cfr. A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966; Id., Fra antropologia e storia dell’arte. Saggi, conferenze, frammenti, a cura di M. Ghelardi, Einaudi, Torino 2021.

[4] https://www.fondazionerenzopiano.org/it/.

[5] https://renzopianog124.com/.

[6] https://normanfosterfoundation.org/.

[7] https://www.fosterandpartners.com/.

[8] E.N. Rogers, Continuità, in «Casabella-continuità», 199, 1953-54, pp. 2-3.

[9] https://barozziveiga.com/projects/on-continuity. Cfr. anche Barozzi Veiga, a cura di D. Trinari, Verlag der Buchhandlung Walther König, Köln 2021.

[10] Le Corbusier, Verso una architettura (1923), Longanesi, Milano 1992, p. 67.

[11] Ibidem, p. 85.

[12] Cfr. Lacaton & Vassal, G. Gili, Barcellona 2006; F. Druot, A. Lacaton & J.-Ph. Vassal, Plus: la vivienda colectiva, territorio de excepcion, G. Gili, Barcellona 2007; A. Lacaton, J.-Ph. Vassal, Freedom of use, Harvard University Graduate school of design, Cambridge (MA), Sternberg press, Berlino 2015.

[13] BIG, Yes is More. An Archicomic on Architectural Evolution, Taschen, Köln 2009.

[14] BIG: Formgiving. An Architectural Future History, Taschen, Köln 2020.

[15] The Why Factory, W. Maas, Visionary Cities, Nai 010 publishers, Rotterdam 2009; Id., The Vertical Village: Individual, Informal, Intense, Nai 010 publishers, Rotterdam 2012; The Why Factory, W. Maas, A. Ravon, J. Arpa, PoroCity: Opening up Solidity, Nai 010 publishers, Rotterdam 2018.

[16] https://www.ensamble.info/about.

[17] Simone de Beauvoir, Il secondo sesso (1949), Il Saggiatore, Milano 1961, p. 272 e p. 685.

[18] Cfr. M.G. Grasso Cannizzo, Vuoto attivo, Libria, Melfi 2011.

[19] Cfr. M.G. Grasso Cannizzo, Restauro, in Recycled Theory: Dizionario illustrato, a cura di S. Marini, G. Corbellini, Quodlibet, Macerata 2016, p. 539.

[20] Y. Farrell, S. McNamara, Freespace-Manifesto, in Freespace, catalogo della XVI Mostra Internazionale di Architettura – Biennale di Venezia, Venezia 2018, p. 51.

[21] https://swissarchitecturalaward.com/it/edizioni/2017-2018/vincitore/.

[22] Cfr. E. Valero Ramos, La teoria del diamante e il progetto di architettura, LetteraVentidue, Siracusa 2021.

[23] E. Woodman, On the Loose/Trame aperte, in F. Torzo, Among Quiet Things/Racconti in silenzio, Thymos Books, Napoli 2021, p. 13.

[24] Ibidem, p. 9.

[25] F. Torzo, Scaffold. Episodio 35, in dialogo con M. Blunderfield, in Id., Among Quiet Things, cit. p. 49.

[26] https://www.dortemandrup.dk/profile#paragraph-937.

[27] https://www.domusweb.it/it/architettura/gallery/2019/11/10/intervista-a-lina-ghotmeh-non-sarebbe-assurdo-costruire-un-grattacielo-di-vetro-a-beirut.html.

[28] https://davidchipperfield.com/project/neue-nationalgalerie-refurbishment.

[29] https://davidchipperfield.com/project/procuratie-vecchie.

[30] https://floresprats.com/archive/casal-balaguer/.

[31] https://divisare.com/projects/398520-ted-a-arquitectes-jose-hevia-laia-and-biel-s-home.

[32] M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1945-1985, Einaudi, Torino 1986, p. 211.

[33] E. Christ, Ch. Gantenbein, Typology Transfer – Towards an Urban Architecture, in Id., Typology: Hong Kong, Rome, New York, Buenos Aires, Park Books, Zürich 2012, p. 5.

[34] E. Christ, Ch. Gantenbein, Modern Cities, in Id., Typology 2: Paris, Delhi, São Paulo, Athens, Park Books, Zürich 2015, p. 3.

[35] Cfr. Christian Kerez (1992-2015), El Croquis, El Escorial 2022.

[36] Cfr. M.V. Capitanucci, Il professionismo colto nel dopoguerra, Solferino Edizioni, Milano 2015.

[37] Cfr. Italia 60/70. Una stagione dell’architettura, a cura di M. Biraghi, G. Lo Ricco, S. Micheli, M. Viganò, Il Poligrafo, Padova 2009.

[38] Cfr. M. Biraghi. S. Micheli, Storia dell’architettura italiana 1985-2015, Einaudi, Torino 2013.

[39] Cfr. F. Purini, La misura italiana dell’architettura, Laterza, Roma-Bari 2008.

[40] https://www.vlaamsbouwmeester.be/en/instruments/open-call/more-info.

[41] Cfr. Celebrating Public Architecture. Buildings from the Open Call in Flanders 2000-21, a cura di F. Heilmeyer, Jovis / Team Vlaams Bouwmeester / Flanders Architecture Institute, Berlin 2021; More Than a Competition. The Open Call in a Changing Building Culture, a cura di M. Liefooghe e M. Van Den Driessche, Team Vlaams Bouwmeester

/ Flanders Architecture Institute, Antwerpen 2021.