Un edificio non è un cheeseburger…

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La città dalle molte identità

(Un edificio non è un cheeseburger, ma una città non è un dialetto)


di Marco Biraghi



1. La città generica non è un’“utopia negativa” o un’“oscura minaccia” agitata da Koolhaas. È il destino della quasi totalità delle città nell’attuale fase storica. È semplicemente la loro condizione reale.


2. Inutile farsi illusioni al proposito: se per “città generica” s’intende ciò che con essa intende Koolhaas (al quale semmai si potrebbe rimproverare la scelta non particolarmente felice del termine), ovvero quella città che ha perduto la propria identità unica, chiara e distinta, quell’identità che la fa riconoscere come tale (la “milanesità” di Milano, la “torinesità” di Torino, la “pariginità” di Parigi, la “londinesità” di Londra, la “pechinesità” di Pechino, ecc.), allora non si può che concludere che la gran parte delle città odierne sono città generiche.


3. La questione – almeno in prima battuta – non è dunque se tale evoluzione sia condivisibile o meno: la questione, piuttosto, è riconoscerne (o meno) l’esistenza. Ed è questo l’indubbio merito di Koolhaas.


4. Un simile riconoscimento non ha in nessun caso il potere di “creare” il problema: semmai quello di metterlo a fuoco, di imporlo ineludibilmente alla nostra attenzione. Se al contrario tale problema non sussistesse – se ogni città avesse conservato immutata e riconoscibile la propria identità –, nessuna semplice “teorizzazione” della sua perdita, nessuna affermazione della “genericità” o della “pluralità” del suo carattere, potrebbero minimamente sovvertire, o anche soltanto  sfiorare, una realtà che avrebbe dalla sua la forza dell’evidenza. E invece la realtà vera della città è sotto gli occhi di tutti.


5. Proprio coloro che difendono la “purezza” dell’identità urbana accusano molti architetti contemporanei di produrre un’architettura “spaesata” rispetto al contesto in cui sorge, un’architettura assimilabile a una “scultura”, isolata e autoreferenziale. In effetti, l’esistenza stessa di questa architettura – ormai diffusa un po’ ovunque – potrebbe essere assunta ad attestazione dell’esistenza del problema sopra esposto: la città oggi sta perdendo (e in numerosi casi, ha già perso) la propria identità.


6. In apparenza, parrebbe bastare non assecondare questa tendenza, interromperne il corso, ovvero invertirne la direzione di sviluppo, per ritornare magicamente all’epoca “felice” dell’identità, a quella sorta di mitica “infanzia” della città nella quale era (o perlomeno, sembrava) perfettamente chiaro a se stessa e agli altri chi essa fosse, quali fossero le sue “radici”, e dunque sulla base di quale patrimonio genetico si dovesse sviluppare in futuro. Tuttavia, le cose non sono così semplici.


7. Per cercare di capire come stanno le cose, bisogna innanzitutto domandarsi: che cos’è l’identità di una città? In che cosa consiste dal punto di vista dell’architettura?
L’identità di una città non è una cosa semplice: al contrario, si tratta di qualcosa di molto complesso: un complesso equilibrio, determinato da fattori ed elementi molteplici, al raggiungimento del quale necessita in pari misura uno sforzo collettivo e il contributo di diversi apporti individuali, una lucida consapevolezza e un’altrettanto significativa attività inconscia, una temporalità di lunga durata e una serie di “attimi” decisivi.


8. Tale complessità, per poter essere riconosciuta come identità, ha però bisogno anche di una certa dose di stabilità, di fissità, così da potersi depositare nelle cose, nelle consuetidini, nella memoria. In questo senso, l’identità è costitutivamente contrassegnata da una condizione d’“identità”, ovverosia da una condizione di autosomiglianza, di uguaglianza con se stessa. Per essere tale, insomma, l’identità deve presentare un alto grado di identicità.


9. Con tutto ciò, non va mai dimenticato che l’identità urbana (in una misura assai più consistente di quella umana) si connota storicamente, ovvero è sempre legata a un ben preciso momento storico. In questo senso l’identità di una città non rimane sempre la medesima. Ma come cambia tale identità? Prendiamo ad esempio Parigi: la Parigi della Terza repubblica possedeva un’identità straordinaria, che è stata mirabilmente fissata nei romanzi di Emile Zola, nei quadri di Camille Pisarro e di George Seurat, nelle fotografie di Eugène Atget. Questo “momento” della sua identità (oggi spesso e volentieri considerata l’essenza stessa della “pariginità”) comprende e fa proprie le trasformazioni avvenute nel corso del Secondo Impero, ovvero quella “haussmannizzazione” della città che sotto molti aspetti può essere considerata a sua volta il tradimento della precedente identità parigina, ancora impregnata dello spirito e della materia medievali. E lo stesso si potrebbe dire delle successive identità parigine, costruitesi sulla base di un’analoga dinamica di “trasmissione” (traditio), implicante tanto la prosecuzione quanto la trasformazione/tradimento di quel che le precedeva.


10. Sulla scorta di ciò si può affermare che ogni identità urbana, nella stessa misura in cui tradisce (al limite, anche inconsapevolmente) quella precedente, si sente tradita da quella successiva. La dinamica che regola i rapporti tra le diverse identità urbane di una stessa città è assimilabile a quella vigente tra le generazioni, tra padri e figli.


11. Ciò nondimeno, al di fuori di questa visione diacronica, si può altrettanto affermare che in un momento storico dato l’identità di una città sia una e una sola. Questo fa sì che, agli occhi di chi vive in una certa epoca, l’identità di una città possa “sembrare” immutabile.


12. In termini architettonici ciò si traduce nel fatto che l’identità di una città – in quanto “carattere dominante” di un determinato momento della sua storia o, in una versione più idealizzata, della sua intera esistenza – dovrebbe non soltanto essere riconducibile a un vago “spirito generale” in essa circolante, bensì dovrebbe essere deducibile da ogni suo edificio. Sotto questo profilo, l’architettura di una città, per rifletterne l’identità, dovrebbe caratterizzarsi in senso fortemente “identitario” – cioè a dire in senso mono-identitario. Ciò spiega la coerenza (e la riconoscibilità) del tessuto urbano di città come Venezia, o come Bologna, o come la Milano dell’Ottocento e della prima parte del Novecento.
L’identità della città, dunque, quando è tale, fa tutt’uno con l’identità della sua architettura.


13. Nell’epoca attuale – afferma Rem Koolhaas – la città deve «spogliarsi dell’identità». Ma che cosa intende Koolhaas per “identità”? Si legga: «L’identità è una trappola in cui un numero sempre maggiore di topi deve dividersi l’esca originaria e che, osservata da vicino, forse è vuota da secoli. Più forte è l’identità, più è vincolante, più recalcitra di fronte all’espansione, all’interpretazione, al rinnovamento, alla contraddizione. L’identità diventa un faro, fisso, inflessibile: può cambiare la sua posizione o il segnale che emette solo a prezzo di destabilizzare la navigazione. […] L’identità è accentratrice; insiste su un’essenza, su un punto».
Così come la concepisce Koolhaas, l’identità di una città è qualcosa di coercitivo (una «trappola»), qualcosa che si riproduce sempre uguale a se stessa – qualcosa che si riduce alla pura e semplice “identicità”. Ed è questa identità immutabile e oppressiva (benché forse non del tutto vera) che secondo Koolhaas la città dovrebbe “deporre”.


14. «Che cosa rimane, una volta deposta l’identità?» La domanda di Koolhaas può apparire provocatoria, o anche semplicemente pleonastica: dal momento che secondo la mentalità di gran lunga dominante nella cultura occidentale da molti secoli a questa parte all’identità è assegnata una valenza positiva (mentre alla mancanza d’identità una valenza negativa), il responso in merito a ciò che rimarrebbe dopo la sua “deposizione” è: niente.
La risposta che dà Koolhaas è radicalmente differente ma seguita da un punto interrogativo: «la Genericità?»


15. Con il termine “generico” Koolhaas vuole indicare ciò che si è liberato «dalla camicia di forza dell’identità».
In realtà, tale “liberazione” raramente equivale a un’assenza di identità. La “città generica” come la intende Koolhaas, piuttosto, «è “superficiale” come il recinto di uno studio hollywoodiano, che produce una nuova identità ogni lunedì mattina»: non ha una sola identità, ne ha
molteplici. «È la città senza storia», non perché non ne abbia nessuna, ma perché ne ha molteplici.


16. A ben guardare, dunque, la perdita – o la “deposizione” – dell’identità (ovvero della mono-identità) significa che la città è combattuta tra molte identità, nessuna delle quali riesce a prevalere sulle altre.


17. Vale a proposito dell’identità di numerose città contemporanee quanto Koolhaas scrive in merito alla composizione etnica della “città generica”: «La Città Generica è profondamente multirazziale, in media nera per l’8%, bianca per il 12%, ispanica per il 27%, cinese-asiatica per il 37%, indefinita per il 6%, d’altra razza per il 10%». Le percentuali possono variare, ma la sostanza rimane la medesima.
E lo stesso vale per i caratteri architettonici della “città generica”, la quale è «non solo multirazziale ma anche multiculturale. Ecco perché non è sorprendente vedere templi tra i palazzi per uffici, draghi sui viali principali, immagini del Buddha nei centri direzionali».


18. La “varietà” delle identità di una città di dimensioni e dinamicità culturale sufficienti oggi è paragonabile a quella delle offerte gastronomiche riperibili sulle tavole dei suoi ristoranti. Nessuno ormai più si stupisce di trovare in una stessa città piatti della cucina cinese, vietnamita, araba, spagnola, messicana, giapponese, greca, thailandese, eritrea, ecc.; di mangiare nordamericano nei centri commerciali, turco nelle stazioni ferroviarie, svedese all’Ikea, napoletano (la pizza!?) in qualsiasi angolo del pianeta.
In una città come Milano si possono gustare specialità toscane, pugliesi, liguri, piemontesi, sarde, siciliane, molto più facilmente di quelle milanesi o lombarde. E per quanto sia consistente il numero dei nostalgici della cucina “casalinga”, per quanto siano state recentemente varate leggi “anti-kebab”, sono ben pochi quelli che ambirebbero sul serio a ritornare a una monoculturalità alimentare.


19. E tuttavia si dirà: un edificio non è un cheeseburger.
E infatti non lo è.


20. Molte città oggi hanno perduto la loro originaria identità gastronomica, di pari passo alla perdita della loro originaria identità culturale e urbana. Anzi, nella gran parte dei casi hanno perduto la loro identità gastronomica in una misura assai maggiore di quanto non abbiano perduto la loro identità culturale e urbana. Ciò dipende indubbiamente dal fatto che è più facile cambiare menù di quanto non lo sia trasformare un brano di città. Ma la radice del fenomeno è la medesima. Sono diverse le vie attraverso le quali avviene la diffusione dei vari “apporti” (culinari e architettonici) che si vanno a innestare in un determinato contesto, ma in ambedue i casi la causa è riconducibile alla circolazione e al rimescolamento di esseri umani, che ha raggiunto ormai da tempo dimensioni planetarie.


21. È ineluttabile questo fenomeno? Sì, nella misura in cui è difficile ipotizzare un ritorno a condizioni di vita precedenti. No, nella misura in cui è possibile pensare a sviluppi differenti. Prendiamo ad esempio la lingua. Nessuna lingua che possa dirsi viva resiste incontaminata nella propria purezza; nel corso del tempo accumula una tale quantità di sedimenti provenienti da altri linguaggi da far sembrare impossibile che la sua identità non ne esca completamente distrutta. Eppure – a dispetto (o forse proprio in virtù) di tali inevitabili contaminazioni – ciascuna lingua conserva intatta la propria identità, che la rende distinguibile da tutte le altre. L’inglese, il tedesco, il francese, lo spagnolo, il portoghese, l’olandese, il giapponese, il cinese, il russo, il greco, l’italiano, ecc., per quanto possano ibridarsi l’un l’altro – e finiscano spesso per impiegare tutti un certo numero di vocaboli identici – non cessano però di essere lingue profondamente differenti. Soltanto in una proiezione dal sapore fantascientifico, la pluralità delle lingue si ridurrà in futuro a un’unica lingua “generica” – esperanto babelico derivante dalla sommatoria di tutte le identità linguistiche. Nella realtà, per quante mutazioni e corruzioni possano subire, l’“anglosassonità” dell’inglese, la “germanicità” del tedesco, la “francesità” del francese, l’“italianità” dell’italiano paiono destinate a preservarsi immutate.


22. Per quale ragione una lingua mantiene la propria identità nonostante i continui attentati alla sua “integrità”? E perché – al contrario – l’identità gastronomica di un luogo tende a dissolversi sotto l’“attacco incrociato” di svariate cucine etniche e regionali?
Se da un lato si tratta di un problema meramente quantitativo (come assaporare un gran numero di pietanze esotiche e troppo speziate rischia di uccidere il gusto per la cucina nostrana, oltreché di provocare una brutta indigestione, così usare troppe parole provenienti da altre lingue finirebbe per coprire il “sapore” della lingua in cui si vanno a inserire), dall’altro rivela di essere soprattutto un problema di “metabolizzazione”. Mentre infatti una lingua assorbe gradatamente nella propria struttura sintattica parole e modi di dire ad essa estranei in precedenza, in cucina è assai più comune la sostituzione che non l’assimilazione. (In tempi relativamente recenti, quest’ultima – quando si verifica – assume il nome di “
fusion”).


23. La “soluzione” per la sopravvivenza dell’identità urbana sembrerebbe dunque essere indicata dai meccanismi regolativi della lingua, piuttosto che da quelli della gastronomia. Ma come  impadronirsi di tali meccanismi? Innanzitutto è indispensabile comprenderli. Nessun tentativo di opposizione forzata all’assorbimento di nuovi vocaboli ha mai sortito effetti benefici. Nessun Ufficio della Difesa della Lingua è mai riuscito a ergersi a barriera contro l’“invasione” di parole straniere. Se una lingua non vuole languire o morire è costretta incessantemente a trasformarsi, ad accogliere l’altro da sé all’interno delle sue strutture sintattiche.
Ma accoglierlo significa al tempo stesso
appropriarsene, assimilarlo fino a farlo diventare parte integrante di sé. Ciò produce, di pari passo, una metamorfosi di quanto è assorbito. Spesso soltanto gli etimi – come fedeli certificati di nascita – rimangono a testimoniare la provenienza delle parole, ormai dissimulate sotto le spoglie assunte in seguito all’acquisizione della loro nuova cittadinanza.


24. Ovviamente la conoscenza della storia di una lingua – le sue etimologie, le “stratificazioni” che in essa si sono accumulate nel tempo – ne agevola l’uso. Ma sarebbe sbagliato attribuire a tale conoscenza un ruolo determinante. Per chi sa parlare una lingua non è affatto indispensabile conoscere tutte le altre alle quali la propria è debitrice. Chi parla l’italiano, ad esempio, non necessariamente deve conoscere il greco, il latino, il francese, l’inglese e svariate altre lingue per riuscire a padroneggiarlo.


25. Una città, in ogni caso, non è una lingua. Ma ancor meno è un dialetto. Per chi si erge a difensore di una determinata identità urbana l’errore più tragico sarebbe quello di identificare quest’ultima con un linguaggio esclusivamente suo proprio, fatto soltanto di alcune “espressioni” locali, ossessivamente ripetute. Il “milanese” a Milano, il “torinese” a Torino, il “berlinese” a Berlino, il “pechinese” a Pechino, sono idiomi da preservare soltanto a patto che non finiscano col tradursi nella difesa di una cultura vernacolare, o con quella della purezza della “razza”.


26. Nell’epoca in cui il venir meno dei caratteri identitari si accompagna all’inasprirsi dell’affermazione dell’identità (che spesso diventa rivendicazione rabbiosa di appartenenza territoriale, linguistica, culturale, razziale), l’identità non è poi un valore così integralmente positivo come siamo abituati a pensare. E la perdita di un’identità troppo univoca va forse salutata come la liberazione da una chiusura mentale che a conti fatti non ha nulla di sano.


29.10.2009