Stop City by Dogma

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di Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara

Stop City: per una architettura non-figurativa della città (dopo la città post-fordista)

E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità.

Niccolò Machiavelli

Al tramonto della società dello spettacolo, una densa economia materiale è percepibile alla base della produzione culturale. Il controverso aforisma di Debord può essere finalmente invertito: “il capitale è spettacolo ad un livello così alto di accumulazione che è ormai diventato un immenso paesaggio di cemento”

Matteo Pasquinelli

1.

Nelle Tesi sul Nuovo Fascismo Europeo, Paolo Virno afferma che la conquista e l’amministrazione della totalità dei soggetti ha abbandonato da tempo la tradizionale messa in scena del potere “dall’alto” e ha invece assunto le forme instabili e caleidoscopiche che caratterizzano la vita della metropoli contemporanea. Virno descrive il nuovo fascismo europeo come il terrificante “fratello gemello” di tutte quelle istanze di novità sociale che sono emerse con la fine del lavoro fordista. Il fascismo oggi non è solo quello esplicito del ministero dell’interno, ma è anche (e soprattutto) quello che si organizza e si riconfigura nelle pratiche “informali” che sfuggono alla rappresentazione politica.

Partendo da queste osservazioni si può affermare che se oggi esiste una avanguardia strategica del capitale essa è proprio quel complesso di pratiche informali e dal basso – creatività, partecipazione, organizzazioni non-governative, ipertrofica moltiplicazione degli stili di vita, movimentismo identitario, ecologismo, open source, creative commons etc. – che fino a qualche anno fa erano prerogativa delle forze di emancipazione sociale.

Nella produzione di architettura, la manifestazione di questo stato delle cose sono il successo di paradigmi come la “città informale”, l’ossessivo ricorrere a parole quali “partecipazione” e “sostenibilità”, “urban farming”, concetti che una volta indicavano pratiche alternative e che oggi sono la retorica ufficiale della governance liberista. È proprio nella complessa e aleatoria coreografia delle pratiche informali, che animano il corpo sempre più precario della città, che è possibile individuare la cifra del nuovo paradigma gestionale del potere.

2.

Contro la retorica della molteplicità e della conseguente moltiplicazione artificiosa dei soggetti e delle identità, il progetto della città non può che implicare una concezione comune e, dunque, generica dello spazio. Per comune intendiamo non solo i beni della natura che fino al seicento erano giuridicamente considerati accessibili a tutti, ma anche il vasto regno della produzione, come lo spazio immateriale e generico della cooperazione prodotta dal lavoro vivo. A queste declinazioni del comune aggiungiamo anche ciò che è stato storicamente il prodotto e poi il contesto del lavoro vivo ovvero la città fisica, i suoi spazi concreti, la sua architettura.

Per questo, dare forma al comune della città oggi vuol dire prima di tutto stabilire un limite contro la sua frammentazione e parcellizzazione.

Con il concetto di limite ci riferiamo all’essenza dell’architettura che è quella di porsi quale limite fisico dello spazio abitabile. Ma la ricchezza del concetto di limite scaturisce dall’ambivalente significato dell’atto stesso di stabilire un limite. Se il concetto di limite ha origine nella formazione degli insediamenti umani, esso – come ha spiegato Carl Schmitt nel suo lavoro sullo Jus Publicum Europaeum – è anche il punto di inizio per qualsiasi forma di giurisdizione. L’atto di limitare non è semplice atto primordiale di formazione di uno spazio, ma riguarda anche ciò che questo spazio immediatamente significa ovvero la forma del coabitare tra più persone.

Proponiamo una interpretazione critica di questo concetto attraverso i nostri strumenti disciplinari, ovvero con i disegni e le parole per un progetto di città. Il progetto che presentiamo è un modello di città che abbiamo chiamato “Stop City”.

3.

Stop City è una ipotesi di linguaggio non figurativo per la città. Stop City, assumendo la forma del bordo che separa l’urbanizzazione dallo spazio vuoto, si propone come limite e, dunque, come forma stessa della città. Stop City si sviluppa verticalmente. Stop City è un arcipelago di isole urbane ad alta concentrazione. La crescita di Stop City avviene in virtù del proprio limite ovvero per ripetizione puntuale dell’unità di base quando l’unità è completata. Ciascuna unità di Stop City contiene una città di 500.000 abitanti ed è composta da otto grandi edifici lamellari di 500 per 500 metri di grandezza e 25 m di spessore, posizionati sul bordo di un’area di 3 km per 3 km destinata a rimanere “vuota”, vale a dire occupabile da attività che non necessitano del supporto di strutture costruite. Ciascun edificio di Stop City è una città nella città, una Immeuble Cité, vale a dire una città non caratterizzata da alcun programma o attività poiché essa stessa supporto di innumerevoli programmi ed attività. La residenza è composta solo da stanze per una persona (al massimo due) ciascuna. La foresta è lo spazio vuoto, un grande spazio ipostilo aperto, il limite dell’urbanizzazione e vera forma di Stop City.

La nostra proposta per la Stop City persegue una architettura ohne eigenschaften, – una architettura comune, senza attributi – vale a dire una architettura liberata dall’immagine, dallo stile, dall’obbligo della stravaganza, dell’inutile e umiliante invenzione di forme nuove. In ultima analisi Stop City propone un architettura liberata da se stessa, per costituirsi soltanto come forma della città.


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4.

All’indomani della crisi del 1929, Walter Benjamin propose l’interpretazione onirica e allo stesso tempo materialista dei passages, le gallerie commerciali di Parigi. Potenti forme spaziali del capitalismo del XIX secolo, i passages erano già obsolete nel momento in cui Benjamin li assumeva a paradigmi urbani. Das Passagen-Werk era la proposta di un lessico storico sulle origini capitaliste della modernità attraverso immagini e descrizioni di esperienze urbane passate ma che solo nella congiuntura vissuta da Benjamin svelavano finalmente l’arcano del potere che le aveva create. Benjamin ci ricorda come la città nelle sue espressioni più materiali è, contemporaneamente, caposaldo fondamentale e anello debole per eccellenza del capitalismo perché proprio nella forma fisica della città le forze sempre mobili del capitale sono costrette a lasciare le tracce più vistose e durature. Nello stesso modo in cui Benjamin si appropriava dell’architettura ormai malinconicamente obsoleta e passé delle gallerie con l’intento di farne una mappa per capire il suo presente, noi ci siamo appropriati del progetto per la No-Stop City degli Archizoom nel momento in cui questo progetto non è più una visione utopica della città (se mai lo è stata) ma una necessaria e disincantata cassetta degli attrezzi concettuali per comprendere – retroattivamente – l’origine politica della città che abitiamo oggi.

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5.

Ispirata al marxismo operaista degli anni Sessanta e ad una interpretazione fredda della Pop-art, intesa come una nuova forma di realismo socialista al tempo del così detto “Neocapitalismo”, No-Stop City proponeva una radicalizzazione ad absurdum delle forze industriali, consumistiche ed espansionistiche della metropoli capitalista nella forma di una città continua e senza qualità. Neutri istogrammi di una informe e diffusa crescita urbana, i grandi plinti orizzontali della No-stop City dispiegavano il piano continuo dell’urbanizzazione entro spazi interni illuminati e climatizzati artificialmente. La No-Stop City non era una utopia, bensì una profezia che portava alle estreme conseguenze l’affermazione di un modello di metropoli astratto, totalizzante, neutro, rappresentabile soltanto attraverso se stesso, ovvero attraverso la pura quantità. Riducendo l’ambiente urbano a catena di montaggio di fatti sociali, la No-Stop City proseguiva gli studi urbani che Ludwig Hilberseimer aveva impostato con imperturbabile freddezza tra gli anni venti e gli anni trenta al fine di definire una forma senza alcuna connotazione espressiva che non fosse il sistema urbano stesso – mobilità, residenza, lavoro – ma ridotto al grado zero. Perseverando in questa tradizione inaugurata da Hilberseimer, la No-Stop City consisteva nell’ipotesi di un linguaggio non figurativo liberato dalle ingenue brame futuristiche e “high-tech” dei gruppi di avanguardia degli anni Sessanta – dal Metabolismo giapponese ad Archigram – che traslavano una visione semplicistica dello sviluppo tecnologico mediante gli attributi iconici dell’architettura. Al contrario la No-Stop City rifiutava la ridondanza formale dell’immagine riducendosi a strumento di governo materiale ed immateriale della città. Per questo la No-Stop City non è stato un progetto né di avanguardia né una visione utopica, ma un progetto deliberatamente realista.

A quasi quarant’anni di distanza la nostra proposta di una Stop City continua l’ipotesi del linguaggio non figurativo e realista sviluppato da Hilberseimer e Archizoom, ma ribaltandone completamente la tesi urbana. Se Hilberseimer e Archizoom concepivano la città come generica ed estesa senza limiti, la Stop City, assumendo la forma del bordo che separa l’urbanizzazione dallo spazio vuoto, si propone al contrario come limite assoluto e, dunque, come forma stessa della città.

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6.

La nostra proposta per Stop City muove dall’osservazione che oggi la relazione che esiste tra chi abita e lavora nella città, pur attraverso forme radicalmente diverse, ha potenzialmente lo stesso valore politico della relazione che legava la classe operaia alla fabbrica fordista. Come ha affermato Carlo Vercellone “la moltitudine sta alla metropoli come la classe operaia stava alla fabbrica”.Se la fabbrica era dominata dalla coreografia spaziale e temporale della catena di montaggio, oggi il dominio capitalista sulla città prende forma attraverso la pervasività e informalità delle relazioni sociali. In questo contesto l’ottimistica ed euforica moltiplicazione di identità e soggettività che caratterizza il paesaggio della città post-fordista, e che i sociologi, gli architetti e gli urbanisti hanno mappato e celebrato in tutte le sue complessità e contraddizioni come il trionfo della possibilità di scelta, della spontaneità vernacolare e dell’auto-organizzazione dal basso, non è altro che la scorza ideologica più insidiosa della grande fabbrica sociale contemporanea che mette al lavoro l’intero spettro sociale fino ai suoi più reconditi e infiniti aspetti. Eppure è proprio osservando la superficie della fabbrica sociale dispersa nel territorio che si può comprendere come la moltiplicazione continua di identità poggia su un comune ethos, fatto di forme di vita generiche e astratte di cui i luoghi comuni costituiscono l’ossatura principale. Lo stato di precarietà permanente che oggi è il centro dell’apparato gestionale capitalista favorisce lo sviluppo di forme di vita adattabili a qualsiasi contingenza fatte di attributi generali e comuni come la povertà di istinti specializzati, perenne stato di sradicamento e soprattutto di precarietà.

Stop city è la teoria di una forma della città nella quale le conseguenze culturali di questo stato delle cose ovvero astrazione, sradicamento, genericità non sono rifiutati in nome di un presunto ritorno all’autenticità dei luoghi delle identità, ma sono radicalizzati. Invece di intendere astrazione e genericità come effetti sociali, “stop city” li sviluppa come attributi politici della città, ovvero come la forma stessa del “contropiano” dentro e contro la città post-fordista. Al contrario, però, delle visioni di Archizoom e Hilberseimer, dove il progetto della città era fondato sull’Eschaton di un totalizzante sviluppo dell’urbanizzazione, Stop City utilizza lo stesso linguaggio “non-figurativo” e realista nel segno opposto del Kathecon, ovvero di una forza politica fatta delle stesse conseguenze culturali dello sviluppo, ma che invece di esserne la semplice continuazione ne diventa la forma limite.

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7.

Nel 1970 la No-Stop City profetizzava l’urbanizzazione totale della città. Quaranta anni dopo Stop City vuole essere l’inizio di una lenta ma inesorabile rivincita della città intesa come forma politica sull’urbanizzazione intesa come apparato gestionale. La distinzione tra città e urbanizzazione implica prima di tutto una distinzione politica tra cittadino – l’abitante della città – e individuo – l’abitante dell’urbanizzazione. Occorre dunque resistere alla tentazione di tradurre in architettura questo conflitto che è prima di tutto un conflitto di immaginari, di modi di abitare e concepire il mondo. Allo stesso tempo però noi pensiamo che la forma della città e l’immaginario che presiede al suo progetto possa essere un contributo fondamentale alla formazione di scenari politici alternativi a quello oggi imposto dalla democrazia liberale del mercato. Se l’immaginario urbano della democrazia liberale coincide con le premesse teoriche della No-Stop City – diffusione, ubiquità, individualizzazione – l’immaginario a cui facciamo riferimento è quello della vita comunitaria discretizzante, ovvero stile di vita politico e sociale che introduce un rinnovato spirito di scissione all’interno degli spazi lisci e totalizzanti del capitalismo-mondo. Immaginare la forma della vita comunitaria come fenomeno discretizzante, anziché identitario, significa immaginare il limite contro il quale l’idea di vita comunitaria si costituisce. Questo limite è un “gruppo critico”, vale a dire il limite dimensionale – l’essere minoranza forte invece che maggioranza silenziosa – entro il quale è possibile per ogni comunità politica di esercitare la decisione e la gestione della propria autonomia. Anziché intendere la decisione e l’organizzazione dell’autonomia politica come azione spontanea, questo progetto intende fornire una teoria (nel senso originale e non intellettuale del termine di visione) della città nella forma assoluta del progetto di architettura.

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Questo testo rielabora alcune riflessioni sviluppate da un altro testo pubblicato sulla rivista di urbanistica della Graduate School of Design della Harvard University (Pier Vittorio Aureli, Martino Tattara, Architecture as Framework: The Project of the City and the Crisis of Neoliberalism, in «New Geographies» 1, 2009

http://www.gsd.harvard.edu/academic/upd/agakhan/newgeographies/web_issue01.htm

Il progetto Stop City è stato elaborato tra il 2007 e il 2008.

I disegni di Stop City sono stati acquisiti dalle collezioni del Frac di Orleans nel 2009.

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15 gennaio 2009