È ciò che chiamiamo progresso…

 


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Oxford energy company, California



«E se l’inassimilabile, l’indigesto giocassero un ruolo fondamentale nel sistema? Quale riscatto teorico avremmo per ciò che resta?» 

[Friedrich Hegel]



Le realtà a noi più vicine, quelle della nostra quotidianità, rischiano spesso di essere tanto scontate da divenire presto inconoscibili: è quindi necessario prenderne distanza in modo da permetterne la loro comprensione. 


Nella grande fotografia piena di realtà animate e inanimate che abbiamo davanti, una in particolare reclama l’attenzione per il semplice fatto di essere sempre presente: i rifiuti che si presentano con la forza del tempo che passa ma anche con l’arroganza del presente stemperato nell’ironica leggerezza della quotidiana necessità. Con quell’aria impulsiva, decadente e nostalgica i rifiuti si mostrano infatti nel paesaggio con prepotenza e con il mutismo proprio dell’abbandono. 

Più che cumuli di immondizie potremmo intendere una somma di stati d’animo, un archetipo di racconto nazionale. Proprio le discariche, luoghi lontani dal nostro comune “voler vedere”, sanno essere contenitori e, al tempo stesso, testimoni del presente, specchi sinceri del mondo che ci circonda. Dunque gli oggetti abbandonati diventano presto protagonisti ed evocativi di qualcosa che non è più, ci rimandano quotidianamente a immagini sgradevoli, ostili e talvolta persino catastrofiche… 


Potremmo ora domandarci che cosa proviamo nell’osservare questo magma di rifiuti che invade la terra in modo talvolta rispettoso, controllato e talvolta invece del tutto libero di imporsi senza riguardo. Osserviamo infatti che il paesaggio si modifica continuamente per accogliere lo smaltimento e la raccolta dei rifiuti ma quanto siamo consapevoli del fatto che sarà una realtà che sempre accompagnerà il nostro vivere e quanto siamo disposti ad accettarla e quindi a vederla come occasione progettuale e non problema da combattere? 


D’altra parte notiamo che niente viene oggi più smaltito facilmente, i veleni del passato inesorabilmente ritornano e la presenza dei rifiuti è sempre più significativa sul nostro territorio. Nel prossimo futuro ogni comunità dovrà inevitabilmente fronteggiare i problemi generati dalla propria spazzatura e sarà comprensibilmente sempre meno disposta a fare da pattumiera per quella prodotta da altri generando, così, la oggi comune sindrome Nimby (not in my backyard: non nel mio cortile). Pertanto non possiamo più ignorare i nostri scarti, continuare a fingere di non vedere, mandarli nei Paesi del Terzo mondo o seppellirli in luoghi profondi e remoti perché, prima o poi, torneranno a tormentarci. 


Pulire il mondo, ripararlo e trasmetterlo dovrebbe quindi divenire altrettanto importante che usarlo. Dobbiamo farlo sebbene ci troviamo ancora fermi in una società attenta al consumo come forma di benessere e che inorridisce di fronte alle sue ovvie conseguenze. È noto, infatti, che la “società dei consumi” produce quantità straordinarie di materiale di scarto ed è oramai chiara l’urgenza di cambiamento nella gestione delle risorse di smaltimento. 


Effettivamente è questa proprio una realtà che invade il territorio in modi sorprendentemente diversi nel tempo e nello spazio. Del resto i rifiuti occupano il nostro mondo, “lo im-mondano”, ne sono una parte ineliminabile, una “parte” che non smette di confondersi col “tutto”. I rifiuti, infatti, come afferma Zygmunt Bauman, tendono sempre allo «stato liquido», vale a dire che non conservano mai a lungo la propria forma, e tendono, così, a trasformarsi in ogni altra cosa: «traboccano, si spargono e colano senza sosta…». Dunque i rifiuti si presentano come fossero un fiume in piena che inonda il nostro pianeta: sotto la spinta dei processi di globalizzazione il nostro pianeta sta diventando un’enorme discarica globale di una innumerevole quantità e varietà di scorie. D’altra parte quando il modo di vivere moderno ha smesso di essere un privilegio riservato a terre elette, i territori “vuoti” o “di nessuno” (più precisamente, i territori che, in virtù della differenza di potere, possono essere considerati e trattati come se fossero vuoti e adespoti) sono diventati lo sfogo primario nello smaltimento e stoccaggio dei rifiuti. Nonostante la nostra riluttanza a riguardo osserviamo che noi siamo essenzialmente ciò che buttiamo e ciò che rifiutiamo, pertanto potremmo dire “we refuse, therefore we are”, come fosse una variante contemporanea del celebre “cogito, ergo sum” cartesiano. 


Dunque possiamo ora riconoscere che i rifiuti costituiscono un vero e proprio mondo complesso e simmetrico a quello delle merci; un mondo che, dietro lo specchio in cui la civiltà dei consumi ama riflettersi e prendere coscienza di sé, ci restituisce la natura più vera dei prodotti che popolano la nostra vita quotidiana. I rifiuti sono, infatti, il “lato oscuro” di una realtà unica che accomuna indissolubilmente risorsa e rifiuto. Del resto questa società, attenta solo al consumo e fatta di oggetti e di immagini che passano senza lasciare alcuna traccia, presto porterà a non avere più “spazio”. Osserviamo che la  natura  invece non produce rifiuti: esiste di fatti una certa circolarità dove ciò che è residuo di un processo diventa subito alimento per altri processi successivi o paralleli. Ricordiamo inoltre che nel nostro quotidiano vivere siamo continuamente posti di fronte alla finitudine con il rischio associato di dover oggi affrontare anche la finitudine dell’ambiente naturale come viene evidenziato dal “rapporto pianeta vivente” presentato dal World Wide Fund for Nature. Secondo questo rapporto, la nostra impronta biologica, ovvero la superficie produttiva necessaria ad una popolazione per sostenere il proprio consumo di risorse e le proprie esigenze di assorbimento dei rifiuti, in certi Paesi supera già abbondantemente la capacità stessa della Terra. In altri termini, se tutta la popolazione mondiale tenesse uno standard di vita pari a quello di un Paese europeo, occorrerebbero più di due pianeti e se si consumasse come uno Stato americano ne occorrerebbero cinque!


In ciò risiede l’aspetto puramente ecologico della questione perché l’impronta biologica di cui si interessa questo rapporto ci parla unicamente di “superficie produttiva”, quindi di spazio e non di spazio-tempo, perciò non considera l’accelerazione del progresso tecnico che riduce a nulla la superficie occupabile. Inoltre ricordiamo che anche la produzione non è uguale in tutti i Paesi e che si è soliti esportare in altri luoghi ciò che non trova spazio in quello di origine. In linea di principio questo uso dell’ambiente sembrerebbe seguire un pensiero logico ma come possiamo facilmente intuire l’atteggiamento di esportazione dei rifiuti non è affatto una pratica accettabile e, in ogni caso, è difficile credere che possa cambiare in un futuro prossimo. Del resto, proprio di questa tempesta che trasforma il passato in un cumulo di detriti ci avverte lo stesso Walter Benjamin: «È ciò che chiamiamo progresso».


(to be continued…)



di Silvia Dalzero



Brescia, 15 gennaio 2009