Gae Aulenti, l’opera museografica

 

 Palazzo Grassi, Venezia

 di Alberto Anselmi

Un paio di mesi or sono, quando, mi è stato chiesto se avrei gradito presentare una lezione di Gae Aulenti, ho immediatamente intrapreso la compilazione di una breve bibliografia, ho consultato la rete, ho proceduto, in sintesi, come si fa, di regola, in tali circostanze. E mi sono rapidamente reso conto che il solo regesto delle opere dell’architetto, quale si può consultare sul suo sito www.gaeaulenti.it, consta di ben tredici pagine. Pagine preziose, che registrano un’attività intensa, ma la concisione dell’elenco non arriva a descrivere lo specifico modo dell’architetto di affrontare le scelte progettuali.

Per questa ragione mi sono risolto a tentare di leggere per mio conto un’opera dell’architetto Aulenti, anche se la mia, principalmente per ragioni di spazio, non può che essere una lettura parziale, brevissima: un saggio, un piccolo esperimento di decrittazione condotto attraverso un classico procedimento “per confronti”.

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Per il mio esperimento ho scelto le sale di palazzo Grassi a Venezia già disegnate da Gae Aulenti e recentemente ri-allestite da Tadao Ando. Nelle due immagini affiancate si possono osservare (a sinistra) la sistemazione di Palazzo Grassi a Venezia come appare oggi, dopo l’intervento curato da Tadao Ando nel 2005/06 per la fondazione Francois Pinault; (a destra) quella del medesimo edificio così come era stata realizzata a cura di Gae Aulenti nel 1985/86 per FIAT. Ad un primo sguardo superficiale, le differenze che si colgono tra i due allestimenti potrebbero anche non apparire così rilevanti, così significative: è stato rifatto, certo, il progetto illuminotecnio, ma poco altro, sembra. Ho provato, allora, ad ampliare il mio raggio d’analisi con un’indagine retrospettiva: in tal modo sarei, magari, riuscito a cogliere qualche altro elemento utile ad una lettura comparata dei due interventi. 

Nella ricca monografia dedicata a Palazzo Grassi e pubblicata contestualmente alla sua inaugurazione a seguito dell’intervento firmato da Gae Aulenti [G. Romanelli, G. Pavanello, Palazzo Grassi, Venezia 1986] gli autori offrono una ricostruzione filologica riccamente documentata, un’analisi minuziosa e dettagliata degli elementi compositivi, nonché puntuali raffronti con edifici coevi oltre che con le teorie dei maggiori esponenti dell’ambiente architettonico veneziano dell’epoca di Giorgio Massari, l’architetto a cui si deve il progetto. Ovvero, quello che, sinteticamente, si può definire un lavoro storiografico serio ed accurato. Dalla lettura del volume apprendo che, a partire da metà dell’Ottocento – a circa un secolo dalla sua costruzione – per Palazzo Grassi inizia una vorticosa serie di cambi di proprietà con conseguenti radicali ri-allestimenti, rifacimenti e trasformazioni, fino a quando, nel 1983, viene acquistato dalla FIAT, che nel 1984 costituisce la società Palazzo Grassi S.p.A.

Nel 1985 prendono avvio, quindi, i lavori per il restauro e il ri-allestimento, curati rispettivamente dall’architetto Antonio Foscari e dall’architetto Gae Aulenti. Aulenti e Foscari, che si trovano a operare in un organismo già da tempo adibito a ospitare attività culturali, adottano una precisa strategia d’intervento, che Romanelli e Pavanello non mancano di riportare nella monografia tramite un breve saggio firmato congiuntamente dagli architetti stessi i quali pongono l’accento, in particolare, su due aspetti del loro intervento. Se da un lato sottolineano i vincoli tecnologici e normativi imposti dall’ammodernamento dell’edificio, per i quali la committenza fissa tempi molto stretti e obiettivi ambiziosi, d’altro canto insistono sulle questioni e le difficoltà connesse alle esigenze di un restauro per il quale vengono profusi impegno e professionalità inusitati.

 

In soli tredici mesi – apprendo che i lavori iniziano l’11 marzo 1985 e si concludono il 15 aprile 1986 – il palazzo viene letteralmente smontato e rimontato: i solai vengono irrobustiti per sopportare i previsti cospicui flussi di pubblico; le murature vengono isolate dalle fondazioni per impedire quei fenomeni di risalita dell’umidità che il nuovo impianto di climatizzazione avrebbe accentuato; tutti i serramenti vengono adeguati alle nuove esigenze di sicurezza richieste dalla funzione museale; vengono installati sistemi di allarme e anti-intrusione. Ma nel fare tutto ciò – raccontano gli architetti – la preoccupazione costante pare essere il coerente rispetto per la struttura originaria del palazzo: ecco che, per esempio, l’integrità strutturale della costruzione è stata riguadagnata grazie a un accurato restauro delle murature con un puntuale risarcimento di tutte le lesioni e degli scassi tramite l’utilizzo di mattoni vecchi, ottocenteschi, recuperati perlopiù dalle demolizioni delle aggiunte. «Dalla logica che ha ispirato quest’operazione – scrivono Foscari e Aulenti – è discesa una importante decisione progettuale: quella di evitare di intaccare nuovamente le murature antiche, appena restaurate, per inserire la nuova rete impiantistica che si andava, contemporaneamente, progettando.»

L’accento sul rispetto per il manufatto antico, sull’attenzione per la storia dell’edificio, è, d’altronde, posto anche dal portavoce della società di Palazzo Grassi, Feliciano Benvenuti, che nella premessa al volume scrive: «Il libro che presentiamo ha questo significato: accanto all’opera sapiente degli architetti e degli artefici, la ricerca, si vorrebbe dire, della vita che ha animato il palazzo, ultimo della grande stagione veneziana […]. E ciò non esclusivamente, dunque, per carpirne il segreto costruttivo e architettonico, ma anche e soprattutto per evitare ogni stonatura nel ridargli una funzione civile. Finiti i tempi delle grandi dinastie mercantili e nobiliari, irripetibile il modo di vivere di famiglie che costituivano delle vere corti, non rimane oggi se non di riprendere quella tradizione di dedizione al fatto culturale che quegli antichi signori portavano con sé fin dalla nascita e lasciavano in eredità, come impegno d’onore ai successori, al momento della loro scomparsa».

 

Riepilogando dunque: per la costituzione di una moderna “industria delle mostre” – potrei sintetizzare così l’attività di Palazzo Grassi –, tra le prime e più prestigiose in Italia, FIAT, a metà degli anni Ottanta, commissiona un’accurata indagine storica di cui è co-autore Giandomenico Romanelli, riconosciuto esperto di storia lagunare e futuro direttore dei musei civici veneziani; chiama Antonio Foscari, a propria volta storico dell’architettura, ad occuparsi degli aspetti della progettazione più specificatamente attinenti al restauro; presenta l’intero intervento – costosissimo e condotto, come ho ricordato, con ritmi serratissimi – come un doveroso compito da assolvere per perpetuare un’eredità culturale

Dopo questa lunga digressione, cerco, infine, di capire come si inserisce Gae Aulenti in tutto ciò. E nel tentativo di dare una risposta al mio interrogativo consulto anche i suoi scritti, pur sapendo che mi accingo a compiere un’operazione pericolosamente delicata e ricca di insidie.

Riporto soltanto un paio di stralci, a puro titolo esemplificativo: «Si possono oggi riconoscere tre costanti generali nelle modalità di lavoro e nella attitudine progettuale da me condotta anche in altre esperienze museali: [… di tali costanti, una] è una relazione che riguarda il luogo di fondazione, cioè l’edificio esistente, il programma museografico e la nuova architettura. Occorre innervare un doppio sistema di relazioni: con le opere d’arte, viste come sostanze materiali, e con l’architettura dell’edificio che occorre trasformare». [G. Aulenti, Opere in-relazione, in «Anfione Zeto» 11, 1995].

«L’architettura è spazio concreto, cosa positiva che si costituisce con la città dove fatti privati e fatti collettivi partecipano alla trasformazione della natura con l’azione della ragione e della memoria. […] Allora si tratta di far apparire le cose nella loro complessità e nel loro spessore, anche se l’effetto non può che rappresentare una delimitazione del campo, una utilizzazione di frammenti. […] Nel progetto l’oggetto emergente è composto da elementi che sono costituiti in modo da mantenere evidenti i loro motivi originali, ma nel contempo possono essere disponibili a precisare i motivi del proprio futuro.» [G. Aulenti, L’opposizione formale, in E. Ambasz (a cura di), Italy: the new domesticlandscape, catalogo della mostra, Moma, NY, 1972].

I due stralci che ho riportati sono soltanto un esempio, tra i numerosissimi, in cui Gae Aulenti pone il rapporto, la relazione, tra il proprio progetto e le stratificazioni che lo scorrere della storia ha depositato, in particolare nel tessuto della città, al centro delle proprie riflessioni: ma è poi così strano?

«Raccontare del tuo lavoro, della sua qualità e importanza – scrive Vittorio Gregotti in una lettera aperta a Gae Aulenti – mi sembra indivisibile, non solo istituzionalmente, dal ruolo che la nostra generazione ha giocato nell’architettura italiana di questi ultimi trent’anni […]. Non vi è dubbio che fu Rogers a insegnare a leggere e a scrivere alla nostra generazione, fu lui che ci fece capire il dovere morale di essere intellettuali prima che artisti o bravi professionisti ed è da questa responsabilità che aprimmo le nostre critiche al Movimento Moderno, nelle parole e con i progetti». [V. Gregotti, Buildinga Passage, in Artforum International, n. 8, aprile 1986]

La biografia di Gae Aulenti riporta, tra i numerosi incontri che l’hanno formata o soltanto influenzata, quello, fondamentale, con Ernesto Nathan Rogers. Senza indugiare in note biografiche, è sufficiente sottolineare che lo stretto rapporto con Rogers, sottolineato non casualmente da Gregotti, è, qui, sufficiente a collocare storicamente le riflessioni attorno al rapporto con la memoria, alla relazione con la città, di cui Gae Aulenti parla così frequentemente e di cui sono spesso intessute le riflessioni degli architetti italiani all’indomani della seconda guerra mondiale, tanto che si può affermare che hanno animato una lunga stagione dell’architettura, ma direi in generale della cultura italiana, quanto mai ricca. 

Sulla scorta di queste sintetiche informazioni aggiuntive, ritorno adesso alle due immagini di partenza e ricomincio la mia analisi, disponendo, questa volta, di qualche elemento in più. Innanzitutto, posso sospettare, se non un vero e proprio programma, almeno alcuni indirizzi generali della committenza. In secondo luogo, comincio a scorgere, da parte dell’architetto, un orientamento culturale preciso, densissimo e approfondito, che potrebbe, il condizionale è ancora d’obbligo, avere qualche consonanza con gli indirizzi della committenza. Posso, quindi, osservare, riguardando le due immagini, come il semplice rifacimento dell’impianto illuminotecnico, quello che notavo all’inizio, modifichi profondamente la percezione del soffitto, ma, soprattutto, derivi da una concezione profondissimamente diversa del rapporto da instaurare con la preesistenza. Nel progetto di Gae Aulenti, il soffitto è percepibile nella sua interezza, comprese le cornici, ed è interamente illuminato da un campo luminoso diffuso. Analogamente vengono lasciati in vista i pavimenti, recuperati grazie al restauro; e quando ciò non sia possibile – come nelle sale più grandi dove l’uso di tappeti consente il contenimento dei brusii di sottofondo – i tappeti occupano soltanto il centro della sala lasciando almeno intravedere, come fosse un bordo, la pavimentazione sottostante. 

La scelta, nell’intervento più recente, di lasciare in ombra i soffitti, di ricoprire interamente il pavimento con del linoleum, instaura, quindi, con la preesistenza un rapporto completamente differente. Ma ancora: se la decisione di non intaccare le strutture giustifica la scelta di un rivestimento interno degli ambienti che contenga un’intercapedine entro cui celare gli impianti, l’impiego di pannelli di gesso armato “staccati”, all’apparenza, dalle pareti, dal pavimento e dal soffitto indica, al contrario, una precisa volontà, da parte di Gae Aulenti, di distinguere senza ambiguità il “nuovo” dal “vecchio”.

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Lo “stacco” dal muro, quella fascia verde che si vede nella fotografia a destra – a sinistra invece la soluzione di Tadao Ando – è volutamente sottolineato con l’uso di un colore che gli è proprio: mentre il supporto espositivo è bianco, così da costituire uno sfondo muto su cui attaccare i quadri, oppure uno sfondo neutro pronto ad accogliere su di sé le scelte cromatiche dell’allestitore, lo “stacco” è connotato da un colore che lo identifica e lo distingue. Ma non basta: a scanso di equivoci, il foglio di gesso bianco è leggermente più largo rispetto allo “stacco” verde, fa risalto, si distingue, cioè, anche geometricamente, non soltanto cromaticamente. Mi appare, dunque, più evidente il ragionamento di Gae Aulenti: all’interno di ciascuna sala riesco a riconoscere per intero la stanza dell’antico palazzo – con le dimensioni, i colori, i materiali che le sono propri – distinta dalla nuova sala espositiva. Quest’ultima è concepita come una sorta di scatola bianca che quasi galleggia dentro agli ambienti antichi – non tocca il pavimento, né le pareti, né arriva ai soffitti –, una scatola senza fondo né coperchio ma con il bordo inflesso, al margine superiore, in cui sono inseriti i celeberrimi cestelli progettati da Pietro Castiglioni. Quella piegatura, di pochi gradi, del bordo superiore è un brillante espediente scenografico, da professionista consumato, grazie al quale l’architetto modifica significativamente la percezione dello spazio interno alla sala, assegnandogli, in tal modo, una nuova misura.

Il medesimo principio è applicato, per fare un ulteriore esempio, alle alte porte esistenti che vengono “ridimensionate” da Gae Aulenti senza però imporre loro alterazione alcuna: gli alti portali in marmo preesistenti rimangono evidenti allo sguardo del visitatore che li può percepire nitidamente  – nella loro dimensione esatta, nei loro colori e materiali restaurati – attraverso dei tagli appositamente operati sulla nuova parete di gesso che non si esime, però, dal disegnare un’altra apertura, più contenuta della precedente, probabilmente più rispondente, a giudizio dell’architetto, a un percorso espositivo.

Ogni elemento è, quindi, connotato architettonicamente da Gae Aulenti per entrare, in modo autonomo, in rapporto con tutti gli elementi circostanti e con ciascuno di essi singolarmente, nuovi o preesistenti che siano: le sale dell’antico palazzo, nel loro insieme, ma anche nelle loro singole componenti – il soffitto, il pavimento, le cornici delle porte … –, e il nuovo allestimento, ancora una volta nel suo insieme – la nuova sala, proporzionata in modo autonomo rispetto alle preesistenze – come nei suoi singoli componenti – ad esempio lo “stacco” verde, che diventa elemento autonomo, investito di un preciso ruolo, al contempo funzionale ed architettonico.

Ecco che Gae Aulenti, qui, ha messo in atto tutto un repertorio di “pezzi di bravura” all’altezza del miglior professionismo, con l’obiettivo di costruire legami specifici, instaurare nessi precisi, tra l’architettura antica, in cui si trova ad operare, e la sua architettura nuova, nei quali nessi, all’interno, cioè, della relazione tra le diverse architetture, ogni identità risulti assolutamente distinta e distinguibile in un rapporto, però, di rispetto reciproco altrettanto assoluto.

Ora il Palazzo Grassi di Gae Aulenti, così come sono riuscito a decrittarlo, mi racconta, più che testimoniarmi, di un modo di concepire il lavoro dell’architetto proprio di una stagione della cultura italiana. Un modo di concepire il lavoro dell’architetto che, per i propri stessi presupposti, non può prescindere da un rapporto con ogni aspetto dell’esistenza umana, e, dunque, anche dell’abitare: ecco perché gli oggetti che Gae Aulenti ha concepito per i propri allestimenti non si possono correttamente definire oggetti di design ma si collocano invariabilmente, indipendentemente dalle loro dimensioni, come progetti di architettura. E, naturalmente, ecco perché i progetti di Gae Aulenti, come quelli di molti altri architetti italiani che condividevano i presupposti teorici e culturali del suo operare, hanno inevitabilmente intrecciato la propria storia a quella delle numerose aziende italiane che hanno prodotto il “design italiano famoso nel mondo”: dalle fabbriche di mobili a quelle di lampade e di automobili, come, appunto, la FIAT.

Treviso, 29 maggio 2010

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Il presente testo deriva dalla lezione tenuta da Alberto Anselmi (alla presenza di Gae Aulenti) presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano il 19 aprile 2010 al corso di Progettazione architettonica di Matteo Franceschin. 

Per le immagini fotografiche, tratte da Tadao Ando per François Pinault, Milano 2009, si ringraziano Palazzo Grassi e Tadao Ando Architect &Associates.