MONU. Magazine on urbanism

 di  Luca Vandini

 

 

 

 

Cover «MONU» #13, © MONU
Cover «MONU» #13, © MONU

 

 

 

 

 

 

Il panorama della pubblicistica ad argomento architettonico è sicuramente oggi molto vasto. Da una ricerca svolta dalla rivista on-line WONDERLAND (www.wonderland.cx, magazine n°3, 2009) risultano esserci in Europa circa 218 riviste specializzate in architettura. Nonostante l’evidente appeal che l’argomento riesce a suscitare nel pubblico – sottolineato anche dalla presenza, spesso crescente, sulle riviste e sui quotidiani generalisti, e quindi l’interesse commerciale che stimola – trovare delle differenze tra le diverse pubblicazioni è molto più difficile che trovare delle somiglianze. Spesso i palinsesti editoriali hanno come differenza solo l’ordine di presentazione.

 

Come nel panorama musicale e letterario, si sta però affermando anche in quello architettonico la tendenza a slegarsi dagli editori tradizionali, le majors, per proporre prodotti che nella loro indipendenza forniscano la garanzia di imparzialità nei giudizi, peculiarità negli argomenti trattati e freschezza nei punti di vista proposti. Nella creazione delle riviste indipendenti internet gioca sicuramente un ruolo fondamentale, anche se spesso il richiamo della carta è ancora forte, come nel caso di «MONU», magazine on urbanism, rivista indipendente tedesco-olandese che nel giro di pochi anni ha saputo farsi conoscere e da strumento di corrispondenza personale è diventato occasione per molti ignoti parolieri dell’architettura di farsi conoscere.

 

«MONU», acquistabile in Italia per ora solo on-line del sito www.monu-magazine.com, è una rivista che si occupa del fatto urbano nei suoi molti aspetti. Esce due volte l’anno e raccoglie articoli da redattori provenienti da tutto il modo che partecipano alla semestrale “call for submission” (chiamata all’invio), con cui l’editore Bernd Upmeyer (fondatore dello studio Board-Bureau of Architecture, Research and Design, www.b-o-a-r-d.nl/) seleziona gli articoli, i lavori artistici e grafici da pubblicare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista a Bernd Upmeyer

di Luca Vandini

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LV: Vorrei iniziare chiedendoti di introdurre «MONU», come ti piace descriverlo brevemente?

 

BU: MONU – magazine on urbanism, è una sorta di forum-rivista internazionale che esce solo due volte l’anno, e che raccoglie il lavoro di artisti, scrittori e progettisti su argomenti come la cultura, lo sviluppo e la politica urbana. Ogni numero raccoglie saggi, progetti e fotografie da mittenti che inviano il loro materiale da tutto il mondo a proposito di un dato argomento. «MONU» è una piattaforma per analisi comparative.

 

 

LV: Quando è nato «MONU», come e perché avete deciso di dare vita a una rivista sperimentale di questo tipo?

 

BU: L’idea è nata circa 6 anni fa (2003, n.d.r.), ma la prima copia è uscita nell’estate del 2004. Originariamente è nata come un modo per rimanere in contatto con un mio amico, Thomas Soehl, che è stato appunto il co-fondatore di «MONU». Abbiamo studiato insieme a Kassel, ma subito dopo la laurea nel 2002 decidemmo di intraprendere avventure diverse; io mi trasferii nei Paesi Bassi, mentre lui si spostò negli Stati Uniti. Cercammo quindi uno strumento che ci consentisse di rimanere in contatto e che ci desse la possibilità di continuare a essere stimolati intellettualmente a vicenda, così come avevamo fatto negli anni passati all’università. La prima uscita fu veramente ridotta, circa 300 copie, stampate grazie al finanziamento dall’Università di Kassel, presso la quale io stavo insegnando e facendo ricerca.

 

 

LV: «MONU» ha avuto in questi cinque anni di vita alcuni cambiamenti, come si è evoluta dal quel primo numero dell’estate 2004?

 

BU: E’ innanzitutto aumentata progressivamente la qualità dei contributi. Ma abbiamo anche migliorato il layout e la struttura della generale rivista. Abbiamo anche provato a “facilitare” l’accesso alla rivista attraverso l’introduzione di progetti artistici ed illustrazioni che servissero da complemento per il testo. Ci siamo voluti aprire ad un pubblico più ampio.

 

 

 

 

Cover «MONU» #12, © MONU
Cover «MONU» #12, © MONU

 

 

 

 

 

LV: «MONU» , il titolo della tua rivista è un acronimo dove la lettera U sta per “urbanism”. Si riferisce di più a un fenomeno (l’urbanesimo) o a un ambito di studi (l’urbanistica)? In altre parole, è «MONU» più legato a una dimensione fenomenologica o a discussioni interne all’urbanistica come disciplina?

 

BU: «MONU» si occupa molto di più dei fenomeni urbani. Ciò che cercavamo fin dall’inizio era la possibilità di esplorare ogni tipo di dimensione urbana, ogni attività che appartenesse alla dimensione cittadina. Siamo sempre stati interessati a scoprire quelle verità nascoste e quelle interdipendenze di natura politica, sociale ed economica. Nonostante ciò continuo a pensare che un giorno potrei fare un numero dedicato a tematiche tradizionali, come lo spazio e la densità. L’aspetto migliore dell’usare la città come soggetto è che puoi parlare quasi di tutto e questo era forse ciò che ci attraeva di più sin dall’inizio.

 

 

LV: La scelta di pubblicare una rivista interamente sul fenomeno urbano risulta abbastanza particolare in un mondo sovraccarico di riviste di interni, paesaggio o architettura. È questa una scelta che appartiene solo a un sentire personale, o è una sorta di reazione a una presupposta mancanza, o ancora si basa su una concezione modernista che vede la città venire prima ed andare oltre all’oggetto architettonico?

 

BU: Penso che questa scelta sia stata fortemente influenzata dal tipo di educazione che ho ricevuto all’Università di Kassel, dove ho studiato negli anni novanta e dove anche se eri studente di architettura, come me, venivi costretto ad iniziare un progetto sempre dalla grande scala. Per la progettazione di qualsivoglia architettura, si doveva sempre iniziare non tanto dal contesto, ma da una visione complessiva sulla città. Credo che questo modo di procedere abbia veramente formato il mio approccio progettuale e sia stato poi trasferito dentro «MONU» . All’inizio pensavo che ricevere un tipo di educazione che andava in questa direzione mi avrebbe sottratto a molti aspetti, per i quali avevo iniziato  interessanti. Mi ero infatti iscritto ad architettura non per progettare città ma oggetti architettonici. Ben presto però capii le potenzialità di questo modo di procedere, tant’è che oggi come vedi non riesco a farne a meno. A Kassel ero più o meno costretto a sviluppare progetti insieme a studenti di progettazione urbana e paesaggistica. Per questo motivo la scala urbana diventò il principale argomento di discussione.

 

 

LV: Ogni uscita di «MONU» ha un titolo/argomento che pone a fianco della parola “urbanism” un aggettivo o un sostantivo. Perchè avete adottato questa strategia? Pensi di poter continuare in questo modo per la titolazione dei prossimi numeri?

 

BU: Tutto ebbe inizio con l’argomento scelto per la prima uscita “Paid Urbanism” (Urbanità a pagamento). “Paid urbanism” è il titolo di un progetto che io e Thomas ideammo alla fine degli anni novanta, ma che non mettemmo mai in pratica. Il progetto si basava sull’idea di pagare persone perché popolassero spazi pubblici altrimenti deserti dopo la chiusura dei negozi. Creammo il “Paid Urbanism Project” per iniettare vita artificiale ad aree urbane morte. Era una reazione alla condizione a cui assistevamo nel centro di Kassel dopo le 5 del pomeriggio. Ciò che sembrava all’inizio solamente un gioco per divertire noi studenti, divenne nel tempo più serio e finì per essere l’argomento della prima uscita di «MONU». Nel secondo numero abbiamo voluto occuparci delle classi medie e del loro impatto sulle città, così decidemmo di continuare con il termine “Urbanism” nel titolo, e chiamare quindi quell’uscita “Middle Class Urbanism” (Urbanesimo della classe media). Dopo di che questa strategia divenne una routine e continua fino ad oggi. All’inizio abbiamo avuto ovviamente molti dubbi nell’usare ripetutamente il termine “urbanism”, ma abbiamo anche iniziato a comprendere il potere della ripetizione. E’ diventato molto semplice da riconoscere e da ricordare, per cui spero di essere capace di continuare con questa strategia.

 

 

LV: «MONU» nasce come un lavoro di gruppo, anche adesso che sei rimasto l’unico editor rimane comunque una dimensione condivisa attraverso lo strumento del “call for submission” (chiamata all’invio). Perché avete adottato questa modalità di raccolta degli articoli, e quali pensi che siano gli aspetti positivi e negativi?

 

BU: Lo strumento del “call for submission” si è basato fin dall’inizio sulla consapevolezza che il modo di vedere di una persona fosse limitato. Volevamo aprire la rivista a diverse e differenti prospettive. Comprendemmo che non era poi così interessante che ogni uscita fosse scritta sempre dalle stesse persone. Così decidemmo di focalizzarci sulla diversità, e di farne il nocciolo della rivista. Credo che questo aiuti «MONU» a rimanere un prodotto fresco.

 

 

LV: Potresti spiegare un po’ più in specifico qual’è il ruolo del direttore editoriale di una rivista come «MONU»?

 

BU: L’idea è che un direttore editoriale debba essere un sorta di moderatore, che dia il la ad un argomento. Come in una conferenza, sia colui che lancia la palla e cerca di aiutarla a rotolare il più lontano possibile. Tu proponi un argomento e speri che arrivino delle interessanti reazioni con le quali poi fai la rivista. In qualche modo è molto simile a quando conduci un seminario universitario, dove tu crei una discussione che poi porti alla fine ad una pubblicazione. Ma uno degli aspetti più interessanti del processo è che il risultato è imprevedibile e anche per me normalmente è sorprendente e inaspettato. Imparo sempre molte cose nuove e questo è veramente eccitante e avvincente per me.Il coinvolgimento di diverse prospettive di differenti autori crea sempre qualcosa che non può essere immaginato all’inizio. Le “chiamate all’invio” sono sempre molto speculative e sono nella maggior parte dei casi condotte con la speranza che l’argomento possa avere un potenziale.

 

 

 

 

Cover «MONU» #11, © MONU
Cover «MONU» #11, © MONU

 

 

 

 

 

LV: Nel numero #10 di «MONU» si prende in prestito per la copertina il lavoro di un artista. Qual’è il ruolo di altre discipline, come l’arte; è «MONU» una rivista che vuole andare oltre il fatto urbano inteso in senso tradizionale, o è una rivista che assume una prospettiva più interna?

 

BU: L’integrazione crescente con lavori di artisti e anch’essa basata sull’idea che la diversità e le differenti prospettive conducano alla fine ad una più approfondita conoscenza delle cose. Non solo, dopo l’uscita del numero #7 capii che la rivista doveva includere anche “pezzi” che avessero un tempo di lettura abbastanza breve. Volevo creare diversi accessi per entrare in «MONU» , per chi facesse solo una veloce panoramica di 10 secondi, per chi sfogliasse la rivista per 10 minuti, ma anche per chi si soffermasse a leggere per un’ora, e per chi volesse compiere un attento esame di otto ore. Era impossibile creare questi diversi accessi senza immagini, illustrazioni e opere d’arte. Da allora «MONU» si presenta con un maggior presenza di opere d’arte.

 

 

LV: Passiamo adesso un attimo a parlare della struttura di «MONU» . La tua rivista, per esempio, sembra priva di un editoriale, almeno in senso tradizionale, e di ogni tipo di rubrica periodica. Sono questi aspetti relativi a una personale concezione o sono piuttosto legati a episodi avvenuti durante questi cinque anni?

 

BU: In verità un editoriale è sempre presente. Sulla prima pagina scrivo sempre un editoriale che descrive e spiega i contenuti. E’ una sorta di panoramica degli aspetti salienti di quel numero. Una specie di riassunto che ti permette di capire di cosa è fatto. Magari quando tu parli di editoriale ti aspetti quel tradizionale e breve articolo, in cui l’editore espone la propria personale visione di un qualsiasi argomento. Abbiamo smesso di scrivere editoriali di quel tipo dopo il secondo numero perché non volevamo essere troppo pesanti. Trovo che possano diventare facilmente troppo autoreferenziali. Volevamo semplicemente dare un’ampia panoramica del contenuto. Credo che il mio punto di vista appaia in maniera abbastanza evidente attraverso la selezione degli articoli pubblicati, e credo di non aver bisogno di un articolo specifico per puntualizzarlo. Non voglio costringere i lettori a sorbirsi la mia opinione tutte le volte. La cosa più noiosa delle classiche riviste di architettura è di dovermi confrontare ogni volta proprio con l’opinione dell’editore che si diverte troppo a esprimere se stesso e il suo personale punto di vista sulle cose. 

 

 

LV: Anche la scelta della grafica è abbastanza particolare. Il bianco&nero è semplicemente un modo di ridurre i costi o è anche questa una scelta personale?

 

BU: A proposito della grafica bianco&nero, vorrei poterti raccontare una storia interessante, ma in realtà, come hai detto anche tu, era un modo all’inizio per contenere i costi di pubblicazione. Più tardi è diventato uno stile e un modo ironico di rendere riconoscibile la rivista in mezzo a scaffali pieni di super-colorate pubblicazioni. Ma ciò che mi piace dell’estetica del bianco&nero è che ha un sapore radicale, il che rispecchia bene il contenuto. Un giorno «MONU» potrebbe presentarsi in colore. In generale siamo comunque più interessati al contenuto che a come si presenta.

 

 

LV: Una rivista, come altre pubblicazioni, è sempre uno modo per mostrarsi. Con MONU tu concedi la possibilità di mostrare il proprio lavoro a persone che non sono famose, o al più non conosciute. Perché hai preso questa scelta, e cosa aggiunge a «MONU» tutto ciò? Ti sei scoperto talent scout?

 

BU: «MONU» è diventata così senza che io lo volessi all’inizio. Il classico mittente di articoli per «MONU» è qualcuno all’inizio della propria carriera accademica o professionale, come dottorandi, contrattisti,o giovani architetti e artisti che cercano strade per allargare e scambiare le proprie idee e pensieri, in funzione di una migliore comprensione delle città. In questo senso «MONU» è diventata una piattaforma per molti giovani professionisti  intelligenti e talentuosi. Sono particolarmente orgoglioso e stimolato da tutto ciò, proprio perché non avrei mai potuto immaginare quando tutto è incominciato che questo potesse accadere.

 

 

LV: Spostandoci su un piano un po’ più generale, quale pensi che sia il ruolo delle parole scritte per il contemporaneo studio delle città?

 

BU: Pensare qualcosa è diverso che pensare e scrivere qualcosa, perché scrivere aiuta ad organizzare e a scoprire nuovi aspetti. Scrivere per me è come mettere molti pezzi su un tavolo, e cercare poi assemblaggi e relazioni tra di loro. Quando scrivi riesci a trovare connessioni altrimenti impossibili e incomprensibili in una discussione. E’ un po’ come il processo progettuale, dove inizi con alcune regole che poi si trasformano durante lo sviluppo. Qualcosa di nuovo e inaspettato può apparire e così hai la possibilità di imparare di più su un certo argomento. Scoprire nuovi aspetti sulle città è la principale motivazione per produrre una rivista come «MONU» .

 

 

LV: Se dovessi farti una auto-critica, qual’è l’aspetto o il punto di «MONU» che individueresti come il meno forte?

  

BU: Suona strano, ma penso che «MONU» sia in qualche modo troppo ambiziosa e troppo densa di significati per una rivista. «MONU» è molto difficile da consumare e quindi molto probabilmente non raggiungerà un esteso pubblico. «MONU» è condannata a rimanere piccola, e questo rende molto difficile la sua sopravvivenza. Non sono comunque interessato a portarla verso una maggiore superficialità solo per l’interesse di raggiungere un più ampio pubblico.

 

  

  

 

Cover «MONU» #10 © MONU
Cover «MONU» #10 © MONU

 

 

 

 

Le immagini allegate alla presente intervista sono state fornite dalla redazione di  «MONU».

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Milano, 8 gennaio 2010