Parlare di architettura con Peter Zumthor

Intervista di Marco Masetti



9 dicembre 2009, Haldenstein, Grigioni


Haldenstein è un piccolo paese montano, ma, a differenza di altri paesi, qui le case non sono costruite “in stile”, orrenda espressione per indicare una mancanza di cultura architettonica: lo stratificarsi di ciò che è antico o vecchio e di ciò che è contemporaneo non avviene a discapito del primo, ma le due anime si conciliano e in un qualche modo si contemplano l’un l’altra, senza snaturarsi a vicenda. L’Atelier Zumthor è rappresentativo di questa pacifica convivenza nel silenzio del paesaggio alpino: la sua struttura, il metodo costruttivo, e l’uso dei materiali sono moderni e riconoscibili, ma la sua presenza non danneggia la dimensione storica del luogo.

Olivia Schmidt, una collaboratrice dell’architetto, mi accoglie nell’Atelier; la luce entra dalle ampie finestre e illumina i tavoli su cui si trovano numerosi plastici. Sembra un ambiente perfetto per lavorare. Mi accompagna quindi nello studio personale di Peter Zumthor, adiacente alla sua abitazione. La prima cosa che faccio è lasciare in una piccola stanza le mie scarpe per indossare delle ciabatte, così come è richiesto a chiunque entri nella sua casa. Attraversando un ambiente pieno di modelli e fogli, che testimoniano l’intensa attività lavorativa dell’architetto, raggiungo la sala per l’intervista. Mi siedo di fronte a lui, e mentre sistemo le apparecchiature per registrare l’incontro, si sente una musica provenire dalla stanza accanto: una inaspettata batteria, pochi secondi di rock, poi il silenzio. L’intervista può cominciare.


Molteplicitˆ e Memoria 2.



Marco Masetti: Lei scrive che «il mondo è stracarico di segni e informazioni, rappresentativi di cose che nessuno comprende pienamente perché a loro volta questi segni non risultano essere altro che segni rappresentativi di altri segni. La cosa vera e propria rimane nascosta. Nessuno riesce mai a vederla»

(P. Zumthor, Pensare architettura,  Milano, Electa, 2007). 

Come può l’architettura essere un linguaggio che oppone «resistenza» alla «dissipazione gratuita di forme e significati»? E quali sono per lei i progetti (quelli a cui si è maggiormente ispirato) che più incarnano questo concetto di “architettura resistente”?


Peter Zumthor: Non ci sono… Io non lavoro così, con questi riferimenti. Io provo a lavorare come una persona normale, come lavorava mia madre ad esempio, per seguire le necessità della funzione, dell’uso: cosa vuole il luogo, cosa chiede il luogo. Non è un lavoro accademico, questi riferimenti mi disturbano.


MM: Quando progetta, qual è la prima cosa che fa?


PZ: Sentire, pensare, stare attento… non è niente di speciale, no? Usare common sense, essere intelligente, “sensitivo”…


MM: Nella prima “fase” della progettazione, lei pensa alle necessità del luogo e a quello che manca. Dopo come evolve il progetto?


PZ: Non penso solo al luogo, io visito il luogo, perché è un’esperienza fisica, e tutto si può pensare sul luogo. In architettura c’è sempre un bisogno dietro. Penso al bisogno, all’uso: quello che faccio è valido? Mi piace? E cosa manca? Provo a pensare e a sentire assieme le necessità della funzione e dell’uso e delle particolarità del luogo. Nella fisicità del luogo, quando viene osservato, c’è tutta la storia, perché la storia si fa vedere nel corpo del mondo. Molto di più che nei libri [ride]. Anche nei libri, certo, ma la storia, la memoria, è diventata narrativa perché viene studiata all’università e quindi c’è bisogno del racconto dei libri. Ma la vera storia, quella delle nostre famiglie, delle nostre persone, è qui, e qui, è lì, e ancora qui, no? [indicando dei punti della stanza e del giardino]. Quindi questo è il mio lavoro: osservare, e capire cosa vedo, o provare a capirlo.


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MM: Nella sua opera l’emozione diventa memoria. Come si fa a suscitare in chi vive l’architettura, l’emozione giusta, che rimandi al ricordo che l’architetto vorrebbe che si avesse in un preciso luogo? Penso in particolare alla residenza per anziani a Masans…


PZ: Non avviene in modo così accademico. È molto più semplice. È usare il buon senso: cosa è bello, cosa sarebbe bello avere, cosa ti suscita un sentimento positivo, il benessere, quali sono le cose che quando tu sei anziano vorresti… Perché non si può fare un progetto emozionale. Tu cerchi la bellezza tu cerchi l’emozione: è sempre sbagliato. È bello quando succede questo, ma non si possono progettare le emozioni. Non è mai un atto di volontà, c’è sempre qualcosa dietro, che ha molto più a che fare con i materiali del mestiere. L’architettura è sempre queste due cose: il luogo e l’uso. Si può fare qualcosa dove si sta bene e dove tutto è fatto molto bene per l’uso e la funzione. La bellezza forse viene dopo, se sei fortunato [ride]. Io lavoro così. Sono molto legato alle cose, alle sensazioni e alle esperienze. Per mettere insieme certe cose ci vuole un minimo di talento, mi pare. Non tutti sono compositori. Devi avere un po’ di talento per vedere le cose.


MM: Quindi lei non “progetta” i ricordi?


PZ: Non direttamente. Si lavora con questo: tu vedi qualcosa, e tutte le cose al mondo hanno la loro storia, è inevitabile. Tutto, anche le cose brutte, ha la sua storia. Tutto racconta una lunghissima storia, non solo per gli architetti, per tutti. Quindi è molto normale lavorare con i ricordi. Ma bisogna essere coscienti di queste cose e saperle vedere senza perdersi in un discorso accademico.


MM: Lei ha detto che «quando ti piace un materiale e ti avvicini ad esso con animo sincero, lo tratti bene, con tenerezza» (Barbara Stec, Conversazioni con Peter Zumthor, in «Casabella», 719, febbraio 2004 ). Come sceglie i materiali che entrano a far parte delle sue costruzioni?

Non tutti sono in rapporto con il luogo di progettazione, ad esempio è il caso del cemento, che è un materiale in un certo senso universale, ma a seconda della lavorazione assume un aspetto diverso, al tatto e alla vista viene percepito in modi differenti. I materiali delle sue architetture sono sempre esatti e precisi. Quale principio guida questa scelta?


PZ: Io credo che ogni progetto abbia il suo tema. E questo deve essere formulato in modo molto forte cosicché tutto nell’edificio, tutte le cose, si giustifichino con questo tema principale. Il tema principale per me è un’idea fisica, non astratta. L’architettura che mi interessa è l’architettura concreta, non l’architettura come progetto. Quindi c’è già un corpo, l’idea è un corpo reale. Spero ci sia sempre una logica per la scelta dei materiali di ogni edificio. Anche per questo [riferendosi al suo studio]. Mi piace sempre quando i tedeschi o gli stranieri mi chiedono da dove proviene questo cemento [indica il pavimento], e io posso dire “è  della Toscana”. [ride] È la pietra serena di Michelangelo! [ride]

All’inizio parliamo sempre di un’idea per un edificio, con una struttura che ha i suoi materiali, e piano piano, durante la progettazione, si capiscono e si conoscono maggiormente i suoi dettagli. Ma sin dall’inizio c’è un’idea: è fatto di calcestruzzo, o è fatto di legno, o è fatto di calcestruzzo ma dentro ci sono tante cose di legno…


MM: L’architettura è anche un linguaggio, è soprattutto un linguaggio…


PZ: Non sono d’accordo. Non è soprattutto linguaggio. L’architettura è qualcosa per vivere, non linguaggio. Mia madre vuole una casa per vivere, non un linguaggio! Non si può abitare in un linguaggio.


MM: Lei infatti riduce i segni del linguaggio architettonico a quelli fondamentali…


PZ: Questo discorso mi annoia [ride]. Perché sono molto legato al fare case buone e tutto il resto mi disturba. Sono forse anche troppo vecchio. C’è un linguaggio, e lo sapete bene. Vale la pena essere intelligenti su tutte queste cose, ma questo non è al centro del mio compito. Mi piace la filosofia, ma non la filosofia degli architetti, la filosofia dei filosofi. È meglio per me.


MM: Torniamo un attimo ai materiali. Come si sviluppa nel suo lavoro  la ricerca di quelli giusti?


PZ: Quando viene la prima idea, il tema, penso a come reagiscono, come se fossero un alchimia, gli elementi del luogo, i miei sentimenti sul luogo, la mia idea sull’uso… è tutto insieme. Il momento forse più affascinante del progetto è l’inizio. È sempre l’inizio la cosa più bella. Quando tutte le cose ci sono e non ci sono, quando tutto è possibile. Non c’è il rigore, gli obblighi di costruire o i costi… Tutto è leggero, tutto è sogno, tutto è desiderio. È un bellissimo momento.


MM: Questa alchimia tra materiali, viene ricercata oppure è un risultato?


PZ: No, questa è una grande ricerca. È sempre una nuova ricerca. Perché c’è un’idea e tante volte non sappiamo come realizzarla. In questo senso io penso di essere abbastanza coraggioso, perché non sono molto timido e penso che all’inizio tutto sia possibile. Per me è importante all’inizio essere molto generoso ed aperto per tutto, e, successivamente, diventa una ricerca. Perché niente è normale. Questo Atelier non fa architettura commerciale, fa architettura “d’autore”. Forse la metà dei dettagli sono standard, a volte meno, quindi dobbiamo cercare di inventare questi dettagli. E qui c’è un campo di ricerca vasto.


MM: I suoi progetti sono tutti su scala architettonica, non sembra volersi spingere oltre questa dimensione. Il suo primo pensiero non sembra rivolto alla città, all’urbanistica. Anche nei suoi scritti raramente ne parla. Perché? Qual è il rapporto tra la sua architettura e la città?


PZ: Io non so tanto della città. È bello sapere la storia della città. Come nel libro che ha scritto Aldo Rossi, che è pieno di emozioni e parla anche della città della memoria, non solo della città fisica, come Benevolo, che fa un racconto. Adesso, quando io leggo i testi scritti da architetti sulla città, penso che dopo poco diventano artificiosi. “Cosa vuol dire questo tipo?” Io ho un’immagine della città, ma è vero che non ne ho mai parlato. Due anni fa l’ho fatto per la prima volta per caso parlando di paesaggio e architettura.

Sarebbe un bel tema per essere onesto su ciò che io so e cosa io non so… Molte cose capitano senza gli architetti, sono il risultato dell’economia, della politica, e di tante altre cose, e gli architetti vedono cosa succede. È vero, è un tema interessante… per la prossima volta! [ride]


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MM: Ad esempio a Bregenz, ha inserito il museo all’interno di un tessuto urbano…


PZ: Anche a Colonia…


MM: Esatto, anche a Colonia. Cosa significava inserire un museo in quella città, in quel contesto urbano?


PZ: Il museo di Bregenz è molto preciso. Ho pensato a come è fatto e perché è fatto così in questa piccola città. Era dal medioevo che, in un certo senso, non si costruiva un edificio con una valenza urbana in quel luogo.


MM: Una delle cose più belle delle sue architetture è il fatto che siano costruite per uno scopo. Ho una breve esperienza in campo architettonico dal momento che sono solo agli inizi, però guardandomi attorno mi sembra che questo modo di lavorare si stia perdendo e penso sia un peccato. Spesso l’architettura è diventata pura invenzione, pura imposizione del modo di pensare dell’architetto, che invece, come lei ha scritto, dovrebbe a un certo punto “ritirarsi”…


PZ: In Italia, ma anche negli Stati Uniti, ci sono degli architetti accademici che restano fuori dal mercato. Professori che forse non hanno mai costruito più di un garage, ma parlano molto e hanno una cultura che produce architetti che nel mondo, nel duro mondo del commercio, non sono capaci di avere resistenza perché non sanno niente. E questo è un peccato. Ma forse cambierà. Speriamo che cambi di nuovo. Mi dicono che Ferrara sia una buona scuola, molto legata al fare le cose. Quando le cose vanno per il verso sbagliato, nasce sempre un altro movimento. Altrimenti questa professione viene ridotta al fare forme e tutto il resto lo fanno gli altri. È forse meno importante che fare vestiti. L’architetto che fa questi disegni poi viene escluso da chi deve realmente fare il progetto. [ride]


MM: Ci può parlare dei nuovi progetti che sta seguendo adesso?


Peter Zumthor mi indica una lavagna in cui sono segnati una ventina di progetti in corso, sparsi in tutto il mondo, tra cui la nuova sede del LACMA, museo d’arte di Los Angeles.

Non parla più. Sono i progetti a comunicare. Il suo carattere schivo e contenuto, ma di grande disponibilità, mi fa capire che il nostro dialogo è finito. Il suo linguaggio rimane però integro nel suo fare architettura. Dopo un austero saluto, mi sono rimesso le scarpe e sono uscito, senza bisogno di essere accompagnato.

La neve copre le montagne che circondano Haldenstein. Un paesaggio da cui deriva la dettagliata sobrietà dell’architetto. L’ambiente alpino è fatto di roccia, di acqua, di luce e di silenzio, elementi carichi di energie naturali che sono l’essenza del corpo architettonico delle opere di Zumthor.




11 gennaio 2011