La possibilità di un arcipelago di assolute differenze


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L’ultimo libro di Pier Vittorio Aureli, The Possibility of an Absolute Architecture (The MIT Press, Cambridge, Mass. 2011), ha il coraggio di riaccostarsi ancora una volta ai luoghi più comuni della disciplina architettonico-urbanistica. Lo fa mantenendosi distante dalla pratica, assai diffusa negli ultimi anni, di “creare” nuovi concetti per cercare di spiegare una realtà contemporanea spesso vista come inesorabilmente “mutante” rispetto al passato, e dunque del tutto inconciliabile con questo; ma al tempo stesso lo fa senza cedere alla tentazione – altrettanto diffusa e frequente – di rifugiarsi nella sterile negazione della realtà, o di farsi paladino di una critica programmaticamente “contro” o “anti-“.

Non soltanto la gran parte dei progetti e degli oggetti architettonici scelti da Aureli per sostenere il proprio discorso sono tra i più noti e citati dalla storia e dalla critica architettonica, ma anche i concetti e i termini a cui egli fa ricorso sono tra i più “basilari” e consueti in questo settore: a partire dal campo stesso d’indagine da lui preso in considerazione, il territorio che abbraccia architettura e città.

È proprio su questo terreno che si lascia misurare fin da subito il coraggio e la “portata” del libro di Aureli: esso infatti prova a ristabilire un nesso intrinseco tra architettura e città, non più però sulla scorta delle “ragioni” morfologico-tipologiche che ormai cinquant’anni fa avevano guidato le ricerche, tra gli altri, di Aldo Rossi e Carlo Aymonino. E neppure lo fa ricorrendo ad alcuna tra le tante “sociologie della città” (o della metropoli) correnti ai nostri giorni. È piuttosto dalle categorie del “politico” e del “formale” – categorie fondative e in una certa misura “preliminari” rispetto al campo considerato – che il suo discorso prende le mosse. Lasciando momentaneamente da parte gli “avanzamenti” e gli “aggiornamenti” disciplinari, Aureli fa dunque ritorno ai fondamenti. E sono le parole, anzitutto, che egli interroga alla ricerca del loro senso perduto, o rimosso. A partire dall’etimologia di ab-solutus, l’aggettivo che qualifica la sua idea di architettura: «qualcosa che è risolutamente se stesso dopo che è stato “separato” dal suo altro». Da ciò discende che «la condizione effettiva della forma architettonica è di separare ed essere separata».

Aureli palesemente non è interessato all’aspetto “formale” dell’architettura in senso estetico-figurativo: ciò che vuole mettere in luce è la natura finita, definita, delimitata, della form, non la sua shape. Il problema della forma è dunque quello stesso del limite. Come già cent’anni fa rilevava Georg Simmel: «Il segreto della forma sta nel fatto che essa è confine; essa è la cosa stessa, e nello stesso tempo, il cessare della cosa, il territorio circoscritto in cui l’Essere e il Non-più-essere sono una cosa sola».

Assumere come punto di partenza del discorso su architettura e città la questione della forma in quanto limite significa additare come fondamentale la questione delle differenze. I limiti infatti sono le differenze. «Nel suo separare ed essere separata, l’architettura rivela in uno l’essenza della città e la propria stessa essenza come forma politica: la città come composizione di parti (separate)». Il legame tra architettura e città, allora, non è qualcosa che scaturisce dall’assunzione di uno specifico punto di vista interno alla disciplina, quanto piuttosto qualcosa che appartiene già da sempre – ontologicamente – alla relazione dialettica che connette tra loro le componenti che vi entrano in gioco. Questo legame si dà nella forma della composizione delle differenze. In ciò consiste, in definitiva, la città: architetture conviventi nel loro radicale differire. E qui le differenze non vanno intese tanto in senso tipologico o funzionale bensì in senso formale, come oggettivazione di un limite.

Per Aureli l’idea di un’architettura assoluta si traduce “concretamente” in una serie di isole chiare e distinte, relazionate tra loro nella forma dell’arcipelago. La parola “arcipelago” non è certo inedita nell’ambito del discorso architettonico e urbano degli ultimi anni. E tuttavia, nell’impiego che egli ne fa non vi è traccia di alcuna sudditanza nei confronti delle “mode” – anzi, proprio il fatto di impiegarla dimostra la sua totale indifferenza per queste. D’altronde, per lui l’arcipelago non è minimamente riducibile a una metafora, un’espressione figurata da lasciar cadere non appena questa abbia svolto il proprio compito di portare là dove si voleva arrivare. Semmai egli intende l’arcipelago come un “archetipo”, un paradigma spaziale che, fin dalla Grecia antica, esprime una ben precisa (benché non aprioristicamente definita) relazione tra corpi: una pluralità di enti differenti (sia pure tra di loro congeneri), più o meno raggruppati o sparpagliati, ma in qualunque caso discontinui. «Il concetto dell’arcipelago descrive una condizione in cui le parti sono separate ancorché unite dal terreno comune della loro giustapposizione». È questa condizione topologica che Aureli pensa come nesso essenziale tra architettura e città, e in ultima analisi come forma stessa della città.

Ma in quale accezione va inteso quest’ultimo termine? Ben lungi dall’essere utilizzato in modo casuale o generico, anche il termine “città”, nel libro, viene vagliato sotto il profilo etimologico nelle sue diverse versioni: polis, civitas e urbs. E se la polis greca raccoglie entro i suoi limiti dati i polites che la abitano come una comunità omogenea per genos, logos ed ethos; se la civitas romana equivale alla somma dei suoi cives, che nulla (almeno potenzialmente) hanno in comune tra loro se non il fatto stesso di occupare lo spazio sempre crescente che li ospita, è invece l’urbs a incarnare nel modo più compiuto la costruzione materiale della città: «Mentre la polis greca era la città strettamente circoscritta entro il suo perimetro murato, l’urbs romana non era pensata per essere limitata, e di fatto si è espansa nella forma di un’organizzazione territoriale, in cui le strade hanno giocato un ruolo cruciale».

Sarà proprio l’urbs, infatti, a divenire nel corso della storia la specie di città planetariamente dominante – e addirittura, l’unico modello di aggregazione umana apparentemente possibile. Ildefons Cerdà, l’ingegnere e urbanista iberico del XIX secolo, ha introdotto per la prima volta il termine “urbanizzazione” per esprimere la condizione di illimitatezza e la completa integrazione di movimento e comunicazione determinata dal capitalismo. È questo «vasto e turbinante oceano di persone, di cose, di interessi di ogni sorta, di migliaia di elementi diversi» (Teoría general de la urbanización, 1867) che definisce con esattezza la realtà delle città odierne, il loro status di metropoli oltre la metropoli, senza più centro o periferia.

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È in opposizione al mare dell’urbanizzazione, dilagante a macchia d’olio e di fatto ormai sconfinata, che Aureli propone la sua idea di città: che, se non si limita a confermare le condizioni attualmente esistenti, non coltiva però alcuna illusione di poter ricreare le condizioni di esistenza della polis. La città-arcipelago non è pensata in alternativa alla realtà dell’urbanizzazione: semmai come integrativa di essa. In questo senso, si prefigura come un’inevitabile immersione nel mondo dell’urbanizzazione, punteggiato di architetture finite, distinte, limitate; isole, appunto, che non arrivano tuttavia mai a formare un intero.

Al primo capitolo, Toward the Archipelago. Defining the Political and the Formal in Architecture, a carattere eminentemente teoretico e fondativo, ne seguono altri quattro, dedicati ad altrettanti “casi” storici: l’architettura di Palladio e il progetto di una città anti-ideale; il Campo Marzio di Piranesi versus la pianta di Roma del Nolli; l’architettura di Boullée come “stato di eccezione”; l’idea di City within the City in Ungers e Koolhaas. In questi capitoli Aureli mostra una solida conoscenza dell’architettura e della sua storia. Ma non è strettamente da questo punto di vista che vanno letti. La ragione di tali approfondimenti non è quella di presentare documenti “inediti” o di fornire nuove interpretazioni di quelli già noti. Essi piuttosto sono funzionali al discorso di Aureli, che in questo modo cerca nel passato gli “indizi probatori” – o piuttosto gli adeguati “sostegni” – della propria teoria.

Non mancano, in questi capitoli, alcune forzature (basti a titolo esemplificativo l’applicazione alle architetture disegnate di Boullée della categoria schmittiana-agambeniana dello “stato di eccezione”). Sarebbe però pedante, oltre che in fondo inutile, rimproverare ad Aureli un uso troppo disinvolto della storia, dal momento che è proprio un uso troppo rigido e poco interessante della storia che si può e deve spesso e volentieri rimproverare agli storici “di professione”. Le “forzature” di Aureli vanno dunque lette come positivamente strumentali alla sua costruzione teorica, non diversamente da quanto si potrebbe fare con alcuni testi di Robert Venturi, Peter Eisenman o Rem Koolhaas, dove la storia è dichiaratamente – e in fondo non illegittimamente – reinterpretata in chiave contemporanea.

La finitio classica palladiana, la sommatoria di edifici privi di “tessitura” urbana del Campo Marzio piranesiano, la sequenza di edifici pubblici monumentali di Boullée come “progetto per una metropoli”, la città “fatta di isole” dei progetti di Ungers, servono tutte ad Aureli per dimostrare l’esistenza storica del rapporto tra architettura e città nel medesimo senso in cui egli stesso lo afferma.

L’indicazione immediata che scaturisce da tutto ciò è la necessità di un radicale ripensamento dell’architettura rispetto alla logica che informa gli edifici “iconici” contemporanei: landmark “solisti” che si inseriscono perfettamente nella trama senza fine dell’urbanizzazione. Contro tale logica, Aureli propone come modello di architettura per la città-arcipelago l’isolamento e l’innalzamento dell’edificio sopra un basamento, come dimostrativamente illustrato nel progetto koolhaasiano The City of the Captive Globe, o come insistentemente ribadito nella gran parte dei progetti e degli edifici di Mies van der Rohe. È proprio da una rilettura in tal senso delle opere miesiane – dalla Haus Riehl (1907) alla Nationalgalerie di Berlino (1962-68), passando per il Padiglione di Barcellona (1929) e per il Seagram Building (1954-58) – che Aureli trae il miglior paradigma realizzato della propria teoria e che la tesi del libro trova una sua persuasiva conferma: «I basamenti di Mies reinventano lo spazio urbano come un arcipelago di artefatti urbani definiti». E ancora: «Il basamento introduce un arresto nella fluidità dello spazio urbano, evocando così la possibilità di comprendere lo spazio urbano non come ubiquo, pervasivo e tirannico, bensì come qualcosa che può essere inquadrato, limitato, e in tal modo potenzialmente situato come cosa tra altre cose». La lezione di Mies viene così assunta per la sua capacità di definire un’architettura che è al tempo stesso «un’attitudine particolare nei confronti della città». Secondo Aureli, questa attitudine a inquadrare e a delimitare deve essere sviluppata «sia come forma materiale di architettura sia come principio politico di progettazione».

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L’indicazione teorica di portata più vasta e dalle conseguenze più ampie che si può trarre dal libro è quella già messa in luce in precedenza, ma che vale la pena di tornare nuovamente a sottolineare: contro la generalizzata omogeneizzazione, confusione delle differenze, o la loro semplice negazione – la composizione delle differenze. In questo senso «l’architettura assoluta come forma finita non è semplicemente l’affermazione tautologica dell’oggetto in quanto tale; è anche il paradigma per una città non più guidata da un ethos di espansione e inclusione bensì dall’idea positiva di limiti e confronto». È su questo piano che “formale” e “politico” s’incontrano e dimostrano di poter essere una cosa sola. «Invece di sognare una società perfettamente integrata che può essere ottenuta soltanto come supremo compimento dell’urbanizzazione e del suo avatar, il capitalismo, un’architettura assoluta deve riconoscere la separatezza politica che potenzialmente si può manifestare, nel mare dell’urbanizzazione, attraverso i confini che definiscono la possibilità della città». È qui – più e meglio che altrove – che si lascia riconoscere il già ricordato coraggio di Aureli: nell’affermare, oggi, la separatezza (ovvero, ancora una volta, la differenza) come un valore politico, non anti-politico: l’unico – l’ultimo – modo, forse, per poter stare insieme davvero.

L’identico coraggio, del resto, che lo porta a sostenere, nell’ormai completo e generalizzato asservimento delle idee alla loro “verifica” pratica, l’autonomia della teoria. In questo senso, se con The Possibility of an Absolute Architecture egli definisce con tutta evidenza il campo operativo nel quale si muove come architetto, è significativo però che rinunci a presentare nel libro i propri progetti: una rinuncia che è nel contempo la miglior “dimostrazione” in azione del suo stesso discorso sul limite.

Marco Biraghi

20 giugno 2011