Porta Nuova Shopping Center

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di Riccardo Villa

Politecnico di Milano


La vicenda dell’area oggi conosciuta come «Porta Nuova» dura da più di cinquant’anni. Il vuoto nato dalla dismissione delle ferrovie Varesine e che il PRG del 1953 avrebbe voluto rendere la sede di un nuovo centro amministrativo della città di Milano [1] non è stato mai colmato fino a tempi recenti. Passato da «centro direzionale» a «Città della Moda», il progetto voluto dal sindaco Albertini può finalmente realizzarsi solo nel 2003, grazie alla coincidenza di alcune condizioni favorevoli: l’introduzione, nel 1999, dei Piani Integrati d’Intervento e la vendita pressoché totale delle aree pubbliche a un unico operatore privato [2].


Il progetto presentato dall’impresa immobiliare texana Hines ha successo ove altri hanno fallito grazie anche all’adozione di una serie di strategie mirate, prima fra tutte quella della partecipazione. L’amministratore delegato italiano della società, Manfredi Catella, attua infatti dei progetti volti a coinvolgere i cittadini della zona in una serie di eventi legati a Porta Nuova, ospitati perlopiù all’interno della fondazione intitolata al padre, ove trovano spazio anche alcuni servizi (un parco giochi, una bocciofila ed un giardinetto) che tentano di compensare l’invasività del gigantesco cantiere e di attenuare gli eventuali malumori dei residenti.


A fianco di Catella troviamo inoltre Stefano Boeri, chiamato da Hines come mediatore di una serie di dibattiti con la cittadinanza, dibattiti durante i quali l’architetto milanese riesce a convincere parte delle associazioni di quartiere ad abbandonare la «Stecca», l’edificio storico in cui si erano insediati e in cui avevano elaborato alcune controproposte al progetto approvato. Facendo ciò, Boeri riesce a guadagnarsi l’incarico dell’«incubatore per l’arte», una sorta di nuova stecca che avrebbe accolto i comitati e gli artisti che avevano lasciato il vecchio edificio [3], ma soprattutto sgombra l’area per l’altro progetto affidatogli da Hines, quello per un complesso residenziale all’interno del P.I.I. Isola-De Castillia.

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Il progetto – che inizialmente prevedeva tre volumi a torre di altezza poco rilevante, connessi tramite corpi bassi – in meno di un anno subisce un cambiamento radicale: le volumetrie si raggruppano in due torri di 19 e 24 piani, entrambe rivestite di una fitta coltre di alberi e cespugli. Nasce così il progetto del «Bosco Verticale». Quella del verde è un’ulteriore strategia che accomuna Porta Nuova a molti altri progetti milanesi: un «camouflage naturalistico, apparentemente verdolatrico» [5] che pare voler distogliere l’attenzione dai volumi incombenti.

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La parte principale dell’intervento è forse però quella delle ex-Varesine, ove l’archistar sudamericana Cesar Pelli disegna una promenade di architetture di gusto internazionalista, ognuna opera di un progettista diverso. Tutti gli edifici poggiano su un basamento di sei metri d’altezza, volto ad ospitare i parcheggi e a separare i percorsi pedonali dal livello della strada [6]; i piani terra degli edifici posti su tale “podio” sono destinati inoltre ad ospitare negozi: si tratta di un vero e proprio centro commerciale. È grazie al salto di quota colmato da scale mobili – il dispositivo dello shopping per eccellenza – e al panopticon [7] della piazza, che si attiva il cosiddetto «Gruen transfer», ovvero quel senso di spaesamento che un centro commerciale dovrebbe indurre nel momento in cui se ne varca la soglia [8]. La forma circolare della piazza di testa è inoltre molto simile a quello che proprio Victor Gruen, primo teorico del centro commerciale, definì come «attrattore» [9], ovvero un edificio polarizzante in grado di attirare i flussi dei consumatori attraverso uno spazio commerciale; flussi sapientemente raccolti da punti strategici del tessuto circostante: come una walking city [10], Porta Nuova lancia i suoi «tentacoli» verso Corso Como, Porta Garibaldi e verso il parco. Fatta eccezione per tali punti, «atterrando» nel mezzo del tessuto consolidato della città, il progetto di Pelli non si preoccupa troppo di rapportarsi ad esso ma si collega idealmente mediante automobile e metropolitana ad altri “podi”: CityLife, Portello, Milanofiori. Azzerando le distanze di connessione fra tali non-luoghi [11] si potrebbe dunque delineare una mappa simile a quelle descritte dalla psicogeografia di Debord. Non la consueta immagine di Milano ma di qualcos’altro: un assembramento di super-luoghi [12] che determinano una sorta di «super-città», sovrapposta alla precedente e svincolata da essa così come dalla gerarchia della distanza fisica. Una nuova città che – come un’astronave – atterra su quella presistente: una città aliena [13].


[Milano, 8 settembre 2011]



Note:


[1] – Per un approfondimento sulle vicende dell’area «Garibaldi-Repubblica» e del centro direzionale si veda: Comune di Milano, AIM, Progetti per Milano: concorso di idee per il polo direzionale-finanziario nell’area Garibaldi Repubblica, Abitare Segesta, Milano, 1992.


[2] – Nel 2003 le principali case di moda milanesi dichiarano di non essere interessate ad aderire al progetto della «Città della Moda», la Società di Sviluppo Garibaldi-Repubblica (costituita da Comune, Provincia e Regione) vende dunque l’86% delle aree edificabili a Hines: a tal proposito si veda Matteo Bolocan Goldstein, Bertrando Bonfantini (a cura di), Milano incompiuta: interpretazioni urbanistiche del mutamento, Franco Angeli, Milano, 2007, pp. 69-70.


[3] – Stando all’articolo di Armando Stella, “Pronta la nuova Stecca, ma resta chiusa”, apparso il 26 Aprile 2011 sul Corriere della Sera, il Comune ha deciso di non affidare più l’Incubatore per l’arte al gruppo ADA (Associazione di Associazioni Stecca degli Artigiani), come inizialmente gli era stato promesso.


[4] – Danilo Daniel, avvocato dei comitati di quartiere, nella puntata di “Report” trasmessa su Rai 3 il 18 Novembre 2007 dichiara che sarebbero ancora cento gli ettari di parco mancanti per compensare l’oltrepassamento dell’indice di edificabilità.


[5] – Pierluigi Nicolin, Biopolitica ed architettura: una riflessione, in “Lotus” n. 135 (2008), pp. 124-126


[6] – Con questo schema Pelli sembra abbia voluto fare riferimento esplicito al progetto di Kahn per il centro di Philadelphia, in particolar modo se si osserva la parte delle torri da lui progettate.


[7] – Panopticon inteso qui non nel senso di un luogo da cui si può vedere tutto, ma in cui ogni sguardo è precluso: in questo caso dalla struttura circolare del grattacielo che avvolge la piazza, solo al centro della quale esso si rende scrutabile nella sua interezza, esattamente come nel panottico architettonico del carcere. (Sul rapporto fra centro commerciale, panottico e architettura carceraria si faccia riferimento agli studi di Rem Koolhaas)


[8] – “Gruen transfer”, M. Jeffrey Hardwick, Mall Maker: Victor Gruen, Architect of an American Dream, University of Pennsylvania, 2003


[9] – A tal proposito si veda V. Gruen, L. Smith, Shopping Towns USA: the planning for shopping centers, Reinhold, New York, 1960.


[10] – La walking city è un progetto di “città semovente”, una sorta di enorme edificio-robot, che il gruppo inglese Archigram elaborò attorno al 1964.


[11] – Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009


[12] – Il «super-luogo» è la reinterpretazione contemporanea del non-luogo di Augé; a tal proposito si veda AA.VV., La civiltà dei superluoghi, Damiani, 2007.


[13] – Il fatto che ciò si presenti come “alieno” rispetto alla città precostituita non significa che esso sia da considerarsi altro rispetto alla città in generale. Si può tentare foucaltianamente di definire la nuova cosa con una nuova parola, così come ha recentemente fatto Stefano Boeri con «l’Anti-Città»: lungi dall’attribuire ad essa un’aprioristica caratterizzazione negativa, Boeri affronta l’argomento in quanto «è cruciale individuare le forme dell’Anticittà […] evitare sia di rimuoverle che di considerarle estranee alla nostra vita. […] l’Anticittà, ci piaccia o no, siamo noi.»