(Qual è) la responsabilità dell’architettura

Una conferenza di Tadao Ando

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Se si volessero cercare nelle parole pronunciate dal maestro giapponese nella conferenza tenuta qualche giorno fa presso l’aula magna di Santa Lucia a Bologna le risposte alla domanda suggerita nel titolo dato all’iniziativa bisognerebbe ammettere di dover compiere un notevole sforzo.

Tadao Ando viene introdotto prima dal Magnifico Rettore, Ivano Dionigi, che essendo un latinista di formazione e di professione non può che iniziare citando Vitruvio e il De Architectura, per accedere quindi alle molte interpretazioni della sua famosa triade. Dopo questa libera citazione ne segue un’altra, ormai diventata anch’essa un topos della retorica architettonica, almeno da Massimo Cacciari in poi: ovvero l’interpretazione che Walter Benjamin dà del quadro Angelus novus di Paul Klee, in cui l’angelo con lo sguardo ancorato al passato viene spinto dal vento del progresso che piega le sue ali verso il futuro. Forse, più che alla responsabilità, le due citazioni rimandano al destino o all’ambizione dell’architettura.

L’introduzione continua con le parole di Giovanni Leoni, fresco direttore del Dipartimento di Architettura dell’università bolognese, che aiutandosi con le parole con cui Francesco Dal Co apre la monografia dedicata all’architetto giapponese, ne presenta le principali peculiarità, terminando l’intervento con la sottolineatura dell’importanza della bellezza, categoria abbastanza singolare, se tirata in ballo in una conferenza in cui almeno apparentemente il tema principale erano le implicazioni etiche della pratica architettonica e non il suo valore estetico.

Finalmente è il momento dell’architetto Ando, il quale rifiuta la poltroncina che gli era stata assegnata e preferisce parlare in piedi, ammettendo che la posizione seduta lo mette a disagio. La conferenza inizia con un’introduzione dal sapore catastrofistico, la cui durata viene dilatata forse anche troppo dalla fissità dell’unica immagine presentata: la terra vista dallo spazio, su cui campeggia la scritta a caratteri cubitali giapponesi “70 miliardi” a sottolineare il problema della crescita demografica. I primi progetti presentati sono idee rimaste (purtroppo) solo sulla carta, e propongono un’architettura che intende rispondere alla soffocante crescita urbana che la città di Osaka ha subìto dopo il secondo conflitto mondiale. Si tratta di un’architettura incentrata sul potere “naturalizzante” del verde e degli alberi, come giardini pensili o boschi urbani.

Tuttavia, dopo aver segnalato con sollecita attenzione le difficoltà del pianeta, Tadao Ando – proprio come le sue prime idee, bloccate dall’incomprensione delle autorità municipali -sembra arrestare il suo intento sensibilizzatore, non proponendo alcuna reale soluzione o risposta ai problemi contemporanei. Se non si vuole considerare la responsabilità di un architetto quella a cui lo stesso Ando è stato posto dinnanzi all’inizio della sua carriera: dopo aver costruito una casa per una famiglia con un unico figlio, infatti, nel momento in cui la stessa si è accresciuta di altri due componenti, è stato costretto dal committente a “prendersi le sue responsabilità”, ovvero a ricomprare l’immobile, divenuto ormai troppo piccolo per la famiglia per cui era stato progettato, per poi farlo diventare nel tempo (con successivi ampliamenti) il proprio studio.

Ando descrive un architetto – se stesso – che è vissuto e cresciuto molto più con le esperienze che con lo studio; esperienze di viaggio ad esempio, in particolare uno da lui compiuto alla soglia dei venti anni intorno al globo, lungo la transiberiana e poi a bordo una nave merci. Alla rivelazione dell’architetto giapponese di non essersi mai laureato, somma è la soddisfazione del migliaio di studenti di architettura presenti alla conferenza. Ando crede molto più nell’applicazione e nella costanza che nello studio: «se non ti applichi un giorno, rimani indietro di tre, se non ti applichi tre giorni rimani indietro di una settimana», come ha ripetuto più volte, in giapponese; per sua stessa ammissione, infatti, la passione per l’architettura lo ha sempre sottratto dall’impegno di imparare l’inglese.

L’immagine dell’architetto come uomo di pratica e fattività è senz’altro chiara, ma manca ancora una riflessione sulle sue reali responsabilità e sui suoi compiti. A meno di non voler ritenere tale il suo rifiuto di dotare una casa da lui realizzata di una connessione coperta tra due zone dell’abitazione, per la volontà di anteporre la presenza di un patio intermedio e di non fornire alla costruzione un impianto di riscaldamento, per mancanza di fondi da parte del committente.

L’unico possibile e chiaro accenno al tema proposto per l’incontro può essere letto nel rifiuto di inserire degli schermi vetrati (in seguito comunque inseriti per volere dei fedeli) in due delle sue prime opere religiose: la Chiesa della luce, a Osaka, e la Cappella sull’acqua, Tomamu. Ando sembra quindi affermare che la responsabilità dell’architetto è più verso la ricerca poetica e spirituale che verso la sensibilità bioclimatica dell’edificio o le richieste dell’utente.

La conferenza scorre piacevole, grazie pure al modo di fare ironico e divertito del maestro giapponese, anche quando al termine chiude chiarendo come abbia ottenuto la committenza per la nuova casa dublinese del cantante degli U2 Bono. Quest’ultimo, sceso con il suo elicottero nei pressi di un’opera recente di Ando in Francia per osservarla da vicino, accortosi della presenza dell’architetto è stato convinto che non avrebbe potuto ammirare meglio un’opera simile che non facendosene costruire una personale.

La sensazione che rimane è che l’opera di Ando, la sua capacità d’immaginazione architettonica e la sua passione siano assolutamente mirabili, e giustamente rimarcate dall’assegnazione del Pritzker Prize nel 1995. Ma che siano prive dello slancio decisivo per dare risposte efficaci a ciò su cui altri architetti, critici, teorici e tecnici si sono interrogati: come e verso chi assumersi delle responsabilità attraverso l’architettura. Alimentando così le ragioni di chi, come Orhan Pamuk, ha trovato più motivazioni per “non essere un architetto” che per cimentarsi con questa professione.

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Luca Vandini

3 maggio 2012