L’architettura come sistema di differenze

Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1944, prospettiva con il volume principale a destra.
Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1944, prospettiva con il volume principale a destra.
Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1944, prospettiva con il volume principale a destra.
Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1944, prospettiva con il volume principale a destra.

di Marco Biraghi

Tra il 1943, anno della sua prima versione, e il 1959, anno in cui viene inaugurato, il Guggenheim Museum di New York subisce numerose modifiche: non soltanto nel senso che il suo progetto evolve nel corso del tempo, e neppure soltanto nel senso che esso cambia posizione più volte all’interno della griglia di Manhattan, migrando qua e là a seconda della disponibilità dei blocchi individuati da Robert Moses per conto di Solomon Guggenheim. Le variazioni che Frank Lloyd Wright compie sul corpo del Guggenheim Museum consistono soprattutto nello scambio tra le diverse parti di cui esso è composto, segnatamente la torre a spirale, che ospita la galleria principale, l’annesso più basso al suo fianco, destinato a varie funzioni, e l’edificio alto alle sue spalle, contenente gli uffici e altri servizi, aggiunto in un secondo momento da Wright e realizzato soltanto dopo la sua morte.


Osservando i vari disegni elaborati a distanza di anni – ma spesso anche contestualmente – salta agli occhi con grande evidenza come Wright disponga indifferentemente i due corpi affiancati della galleria e degli annessi, entrambi affacciati sulla Fifth Avenue, ora l’uno a destra e l’altro a sinistra, ora nell’ordine inverso. Come in un gioco di specchi, l’immagine del Guggenheim si presenta così “diritta” oppure “invertita”, senza che ciò sembri comportare alcuna reale differenza per l’architetto. Quanto pare sancito da tale libero scambio di posizione è dunque l’assoluta equivalenza delle due configurazioni, da un lato, e l’assenza di considerazione per il contesto in cui il complesso museale dovrà andarsi a inserire, dall’altro.


Se a ciò si aggiunge il fatto che il volume proposto fin dall’inizio da Wright per ospitare la collezione di arte “non oggettiva” acquisita da Guggenheim attraverso la mediazione dell’amica pittrice Hilla Rebay assume a volte la conformazione di una torre a spirale che si restringe salendo, e altre volte – come poi nel progetto definitivo – la conformazione di una spirale rovesciata; e se addirittura in alcune versioni tale spirale “diritta” è correttamente denominata da Wright “Ziggurat”, mentre allorché la rovescia la denominazione si rovescia con essa, divenendo “Taruggiz”, si capisce come per l’architetto americano la questione del “verso” del progetto – e dell’architettura che essa prefigura – sia del tutto reversibile.


03. Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1943-44, prospettiva con il volume a “ziggurat”.
Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1943-44, prospettiva con il volume a “ziggurat”.
Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1943-44, prospettiva con il volume a “taruggiz”.
Frank Lloyd Wright, Solomon Guggenheim Museum, New York, 1943-44, prospettiva con il volume a “taruggiz”.

Non è frequente tuttavia una simile “indifferenza” per la disposizione degli elementi dell’architettura. Non c’è bisogno di risalire al De Architectura di Vitruvio, dove la dispositio – in quanto «appropriata collocazione degli elementi in modo che l’insieme renda un effetto di eleganza sul piano della qualità» – costituisce una delle categorie fondamentali dell’architettura, per scoprire l’importanza che essa riveste per la cultura architettonica di tutti i tempi. Tutti gli effetti prospettici, che si tratti della navata di una cattedrale o di una chiesa rinascimentale, o di un asse viario barocco, segnato da punti focali sapientemente collocati e distribuiti, si basano appunto sul fatto che in architettura esistono differenze posizionali – esistono versi diversi – e che in essi l’architetto confida per costruire il senso del proprio “discorso”. Come nella costruzione di una frase, la sequenza – e dunque la disposizione – delle parole cambia a volte in modo sostanziale il significato finale, così nell’architettura – techné priva di traducibilità linguistica – la successione degli elementi – e dunque la loro posizione-disposizione – conta in maniera essenziale. E ciò non soltanto sulla superficie di una facciata o nello spazio di un piano ma anche nella collocazione relativa dei “corpi”. In questo senso, se tutto lo spazio è topologico, l’architettura rappresenta il trionfo della topologia. Essa, da questo punto di vista, è non soltanto il “luogo” delle differenze, ma è lo strumento attuativo – la costruzione – di tali differenze. Al punto che sarebbe fin troppo facile dimostrare la loro esistenza. E tuttavia – e per converso –, se sarebbe indubbiamente di grande interesse analizzare le singole architetture nel loro costruire in concreto un sistema di differenze, sarebbe però quasi vano cercare di dimostrare – e di avvalorare – il suo significato in quanto tale. E non perché non ci sia, evidentemente, quanto piuttosto perché tale significato è “assorbito” integralmente dalle funzioni, dalle circostanze e da tutti gli altri fattori che guidano un architetto nel disporre in un certo modo le parti di un certo edificio. Insomma, la differenza c’è (e si vede): ma soltanto molto faticosamente si potrebbe “strapparla” al suo contesto, alle “logiche” nelle quali è immersa. E in molti casi probabilmente risulta semplicemente impossibile.


Carlo Rainaldi, Piazza del Popolo, prospettiva delle due chiese, Roma, 1661.
Carlo Rainaldi, Piazza del Popolo, prospettiva delle due chiese, Roma, 1661.
Piazza del Popolo, Roma: a sinistra Santa Maria di Monte Santo, a destra Santa Maria dei Miracoli.
Piazza del Popolo, Roma: a sinistra Santa Maria di Monte Santo, a destra Santa Maria dei Miracoli.

Più ancora che cercare di provare la sensatezza – e la necessità addirittura – di un certo “verso” in architettura, può dunque essere interessante analizzare quei casi in cui l’“ovvietà” della regola viene disattesa, o per meglio dire sovvertita, o invertita: quei casi cioè – com’è quello del Guggenheim di Wright – in cui tale sensatezza e tale necessità non ci sono. E non soltanto “non ci sono” sulla base di condizioni oggettive o di scelte (o idiosincrasie) soggettive, bensì in un certo qual modo a priori. È questo il caso del doppio in architettura. Non si tratta tanto (o soltanto) di una semplice simmetria, in cui ciò che vi è a destra vi è anche a sinistra, quanto piuttosto di una ripetizione di elementi indipendenti, autonomi ma relazionati tra loro.


Come nel caso dell’asse viario sopra citato, anche in quello del doppio il periodo barocco assume una particolare rilevanza: basti pensare, tra i molti esempi possibili, alle due chiese gemelle di Piazza del Popolo, Santa Maria in Monte Santo e Santa Maria dei Miracoli, realizzate su progetto di Carlo Rainaldi sotto il pontificato di Alessandro VII. In questo come negli altri casi, il raddoppio barocco va inteso non certo come espressione di una necessità materiale (non c’era bisogno di due chiese in Piazza del Popolo – senza contare la terza già da prima esistente, Santa Maria del Popolo), quanto piuttosto di un espediente scenografico, di un’intensificazione del messaggio visivo. La precisa corrispondenza tra destra e sinistra (non soltanto all’interno dell’organizzazione dei “segni” delle due chiese identiche, ma anche – e soprattutto – all’interno dell’organizzazione dei “segni” della sistemazione urbana) istituisce anche in questo caso un sistema di differenze, ma tale per cui esse, anziché annullarsi, si enfatizzano. Due chiese, così come due obelischi o due colonne celebrative (si pensi alla Karlskirche di Johann Bernhard Fischer von Erlach a Vienna), non producono lo stesso effetto che la loro semplice – e del tutto teorica – somma.


Il discorso è diverso per quanto riguarda il mondo contemporaneo. Il valore del doppio – come molte altre cose nell’architettura, e non solo – sembra radicalmente cambiato. L’esempio delle Twin Towers di Minoru Yamasaki, in tal senso, sembra poter essere assunto per il suo significato emblematico. Jean Baudrillard ha dedicato loro una riflessione in un momento precedente la loro distruzione: «Perché ci sono due torri al World Trade Center di New York? Tutti i grandi buildings di Manhattan si sono sempre accontentati di affrontarsi in una verticalità concorrenziale, da cui risultava un panorama architettonico a immagine del sistema capitalistico: una giungla piramidale, tutti i buildings all’assalto gli uni degli altri. Il sistema stesso si profilava nella celebre immagine che si aveva di New York arrivando dal mare. In alcuni anni questa immagine è completamente cambiata. […] I buildings non sono più obelischi, ma si affiancano gli uni agli altri, senza più sfidarsi […]. Questa nuova architettura incarna un sistema non più concorrenziale, ma contabile, e in cui la concorrenza è scomparsa a vantaggio delle correlazioni. […] Questo grafismo architettonico è quello del monopolio: le due torri del WTC, parallelepipedi perfetti di 400 metri d’altezza su base quadrata, vasi comunicanti perfettamente equilibrati e ciechi – il fatto che ve ne siano due identiche significa la fine di qualsiasi concorrenza, la fine di qualsiasi referenza originaria. […] Affinché il segno sia puro, occorre che si raddoppi in se stesso: è il raddoppiamento del segno a mettere fine a ciò che esso designa. Tutto Warhol è qui: le repliche moltiplicate del viso di Marilyn sono allo stesso tempo la morte dell’originale e la fine della rappresentazione. Le due torri del WTC sono il segno visibile della chiusura di un sistema nella vertigine del raddoppiamento».


Nel caso delle Twin Towers (o almeno di esse nella lettura che ne dà Baudrillard), il sistema delle differenze creato è immediatamente riequilibrato, e dunque virtualmente annullato. Le Torri gemelle hanno raggiunto il punto di perfetto equilibrio omeostatico del capitalismo: non più un “duopolio”, «sdoppiamento tattico del monopolio», bensì un monopolio “raddoppiato”, gelidamente rispecchiantesi in se stesso. Segno “puro”, e dunque vuoto.


Minoru Yamasaki, World Trade Center, New York, visione concettuale dall’Hudson River, 1962 ca.
Minoru Yamasaki, World Trade Center, New York, visione concettuale dall’Hudson River, 1962 ca.

Se in diversi momenti della storia il doppio ha potuto variamente indicare una certezza tanto importante da dover essere rimarcata, oppure un’incertezza bisognosa di conferma, una pienezza di senso, oppure uno svuotamento completo di esso, allora bisogna forse leggere in altre posizioni e relazioni architettoniche altrettante possibilità espresse o sottaciute: ad esempio, nell’insistente volontà dell’architettura di Peter Eisenman e di Bernard Tschumi di porsi in-between, tra gli altri edifici, una sorta di paradigma “parassitario”, che rivela ora il desiderio di entrare in contatto, ora semplicemente di sfruttare gl’interstizi esistenti; oppure nel tendenziale isolamento dell’architettura degli scorsi due decenni un ennesimo sistema di differenze: ma una differenza che tende a diventare assoluta, e non più – come dovrebbe essere – relativa, e quindi relazionale: non più qualcosa di cui e con cui misurare i rapporti reali, effettivi – rapporti di “prossimità” e di “distanza” –, bensì qualcosa presieduto da un proprio statuto, qualcosa che si sostiene da sé. Una “differenza in sé”. È forse per questo che l’architettura a cavallo del secolo ha teso con inquietante frequenza ad affermare se stessa come un’entità autonoma, che quantomeno nelle sue aspirazioni si vorrebbe totalmente “trascendente” – per forma, aspetto e dimensioni – lo spazio che occupa e il luogo in cui s’inserisce. Un’architettura che sembra spesso avere perduto i suoi “orienti”, il suo davanti, il suo dietro, la sua destra e la sua sinistra, il suo sopra e il suo sotto, nell’ansia estrema – e forse piuttosto nell’estrema paura – di doversi confrontare.


Ma oggi l’architettura vive probabilmente già un’altra fase: in un momento di ripiegamento economico globale e di ripensamento disciplinare l’architettura sembra ricercare – e a tratti ritrovare – le relazioni prossemiche che la definiscono come cosa tra cose. Senza con ciò ipotizzare l’esistenza di intese a priori, di linguaggi universali. È così che in edifici come il Rolex Learning Center di Losanna di SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa) il corpo stesso dell’architettura può trasformarsi in una straordinaria boîte à merveilles topologica: un edificio che si dispiega come un paesaggio naturale fatto di rilievi e avvallamenti, pendenze e passaggi sotterranei; un edificio che “mina” dall’interno la presunta omogeneità dello spazio, facendone un terreno pieno di “buchi” e addensamenti, muoversi dentro il quale equivale a esperire – senza la minima possibilità di “spiegarle” – le sue molteplici differenze.


SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa), Rolex Learning Center, Lousanne, 2005-10 (©photo by Hisao Suzuki).
SANAA (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa), Rolex Learning Center, Lousanne, 2005-10 (©photo by Hisao Suzuki).

25 gennaio 2013


Per le vicende della costruzione del Guggenheim Museum, cfr. F. Dal Co, Il tempo e l’architetto. Frank Lloyd Wright e il Guggenheim Museum, Electa, Milano 2004.


Vitruvio, Dell’architettura, a cura di G. Florian, Giardini Editori, Pisa 1978, I, 2, pp. 14-15.


Cfr. R. Krautheimer, «Roma alessandrina», in Id., Architettura sacra paleocritstiana e medievale e altri saggi su Rinascimento e Barocco, Bollati Boringhieri, Torino 1993, pp. 293-310; R. Wittkower, Carlo Rainaldi and the Architecture of the High Baroque in Rome, in Id., Studies in the Italian Baroque, Thames and Hudson, London 1975, pp. 9-52.


J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 82-83.


Cfr. E. T. Hall, The Hidden Dimension, Anchor Books, New York 1990, pp. 165-180.