Guida all’architettura di Milano 1954-2014

coverIntroduzione

Nel lungo piano-sequenza che apre La Notte (1961) di Michelangelo Antonioni, i vetri del Grattacielo Pirelli ancora circondato dagli ascensori di cantiere rispecchiano una Milano lucida e tersa, fatta di edifici moderni dagli angoli netti; poco più là, intorno alla Stazione Garibaldi, sono ancora visibili le ferite della seconda guerra mondiale; mentre più in lontananza, oltre la cerchia della circonvallazione esterna, si intuiscono le ciminiere fumiganti delle fabbriche e i corpi massicci degli edifici industriali.

Non molto diversamente si presentava la Milano “fissata” qualche anno prima da Piero Bottoni nella sua Antologia di edifici moderni in Milano (Editoriale Domus, Milano 1954). La Milano della metà degli anni cinquanta riecheggiava ancora delle urgenze della ricostruzione ma già presagiva gli effetti di una congiuntura economica straordinariamente favorevole (il boom – o miracolo – economico); era una città popolata di case economiche, di case prefabbricate, di case unifamiliari a schiera, ma anche di palazzi per uffici e autorimesse. A tale data non erano ancora stati eretti i due edifici destinati a simboleggiarne la rinascita e lo slancio verso la sua “missione” moderna: la Torre Velasca e il Grattacielo Pirelli, emblema bifronte del desiderio di confrontarsi con lo scenario internazionale, ma al tempo stesso dell’orgogliosa volontà di recitarvi una parte da protagonista, e non da semplice comparsa.

Gli anni sessanta e settanta saranno dedicati in gran parte alla costruzione dei “monumenti” del ceto medio e alto borghese, vale a dire del condominio multipiano, e dominati dall’opera di valenti professionisti, tra i quali svettano Ignazio Gardella, Luigi Caccia Dominioni e Vico Magistretti. Ma saranno anche gli anni della “welfare architecture” di Arrigo Arrighetti, dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune di Milano e propagatore sotto molteplici forme e tipologie del verbo del tardo modernismo.

La Milano dell’ultimo quarto del XX secolo appare profondamente trasformata, nello spirito non meno che nel corpo fisico: ora si presenta come una città attraversata da profonde tensioni sociali, benché abilmente mimetizzate dietro la maschera di un rampantismo sociale ed economico che avrà il suo momento di esplosione negli anni ottanta. L’obiettivo di un ruolo e di un riconoscimento mondiali risulta a questo punto centrato, quantunque Milano non divenga internazionalmente nota tanto per aspetti “strutturali”, quali la propria produzione industriale o culturale – e ancor meno per la propria architettura -, quanto piuttosto per la moda e, al più, per il design. Una “sovrastrutturalità” che riuscirà a produrre effetti concreti, ma che finirà per improntare di sé soprattutto una buona parte della società milanese nei decenni successivi. La Milano bancaria e finanziaria che si viene sempre più profilando, in sostituzione della Milano produttiva e industriale, ormai progressivamente in rottamazione, risulta poco convinta o capace di incidere sul volto reale della città, destinando ad essa una parte dei consistenti flussi monetari che transitano per il capoluogo lombardo. E se ancora grandi operazioni come quella della Bicocca rivelano – pur tra diverse incertezze e molte lungaggini – uno spirito imprenditoriale positivamente animato da una volontà innovativa, le successive trasformazioni di aree ex-industriali dismesse denunciano piuttosto l’estrema debolezza dell’imprenditoria milanese, affiancata nella subalternità del proprio ruolo da una classe politica del tutto prona e compiacente alle richieste del potere economico.

Tra gli anni novanta (segnati da una “bassa marea” morale, e conseguentemente da uno scarso livello qualitativo della produzione architettonica) e i duemila, smisurati interventi di “riqualificazione” di aree non più utilizzate come il quadrilatero dell’ex Fiera Campionaria o l’area delle ex Varesine, o quella dell’ex stazione di Porta Vittoria, si sono succeduti a un ritmo incalzante, modificando in modo significativo l’aspetto della città. Si tratta nella maggior parte dei casi di prodotti progettuali scarsamente approfonditi e consapevoli, e soprattutto poco avvertiti della cultura e della storia di Milano (una cultura che il milieu dell’architettura milanese, supportato da istituzioni come le Facoltà di Architettura del Politecnico, la Triennale e l’Ordine degli architetti ha invece sempre cercato tenacemente di sviluppare e supportare); prodotti d'”importazione” che non di rado hanno stentato a integrarsi e ad essere metabolizzati dalla città. D’altronde, è la stessa Milano – in modo più deciso dagli anni novanta ma in realtà già ben da prima – a presentarsi come la città italiana maggiormente propensa all’assorbimento dello “straniero”, del “diverso”, configurandosi come luogo d’elezione di una cultura pluralista e cosmopolita. Le differenti lingue che s’intrecciano nelle architetture “milanesi” dell’ultimo decennio sono quindi lo specchio di un’apertura mentale che rivela tuttavia anche un’eccessiva “cedevolezza” alle seduzioni del jet set architettonico internazionale: dove gli architetti sono spesso ridotti soltanto a nomi da distribuire strategicamente – come altrettante pedine – sulla scacchiera della città.

A questa Milano di “facciata” corrisponde, negli anni più recenti, in maniera certo meno vistosa ma in compenso più effettiva ed intensa, una Milano capace di recuperare forme di “resistenza” e di sopravvivenza culturale e sociale; “isole” di senso – alternative al senso comune, più consolidato e dominante – che rappresentano ulteriori possibilità nel modo di concepire e vivere la città. Da un punto di vista architettonico, ciò si traduce in “occasioni” di varia natura: dalla realizzazione di edifici socialmente utili e di nuovi luoghi di aggregazione, all’esecuzione di sottili opere di “ricucitura” del tessuto urbano e sociale; o ancora, al recupero di edifici andati in dismissione, destinati a nuovi impieghi ma pure riconquistati alla dimensione della memoria collettiva; “occasioni” il cui carattere può anche essere locale, le cui dimensioni possono anche essere spazialmente modeste, le cui disponibilità finanziarie possono anche essere limitate, e che nondimeno sono capaci di creare un sistema di relazioni nel mare magnum della città diffusa e dispersa. Ed è proprio quest’ultima – rispetto alla Milano ancora raccolta e compatta che aveva “fissato” Bottoni – a costituire la vera novità degli ultimi sessant’anni: l’esplosione della città ben oltre i confini comunali, ben oltre la “periferia”, e anche oltre l’hinterland. Parlare di essa, oggi, significa riferirsi a un’area metropolitana assai vasta, dove – al contrario di un tempo – non è infrequente, insieme a molte altre cose, imbattersi in architetture di qualità. E anche di queste deve tener conto chi voglia avere un’idea di quella mutevole realtà che risponde al nome di Milano.

Da: Guida all’architettura di Milano 1954-2014, a cura di M. Biraghi, G. Lo Ricco, S. Micheli, Hoepli, Milano 2013

24 ottobre 2013