Campo in città

di Marco Biraghi

Con ogni evidenza i luoghi in cui il passato viene conservato sono oggi i luoghi dove il passato è più cambiato, dove è più distante (come se lo si vedesse dall’estremità sbagliata di un telescopio) o addirittura completamente eliminato.
Rem Koolhaas, La Città Generica (1995)

A dispetto della sua assenza la storia è la principale preoccupazione, anzi la principale attività, della Città Generica.
Rem Koolhaas, La Città Generica (1995)

Wheatfields

Come la storia e il passato, anche la natura brilla sempre di più per la sua assenza sull’orizzonte delle nostre città. E quanto più è assente, e tanto più sembra diventare a sua volta «la principale preoccupazione, anzi la principale attività, della Città Generica» e dei suoi operatori.

Il rapporto tra città e natura è sempre stato problematico. La città è nata come rifugio dalle insidie della natura, in una certa misura in assoluta antitesi rispetto alla natura. Ma l’ha anche a lungo inglobata, come una parte di sé che esisteva ma che al tempo stesso era del tutto secondaria, di cui poco occuparsi e preoccuparsi. Sarà soltanto con il Settecento che, sempre più emarginata dall’uso sociale, la natura inizierà ad avervi ruolo sotto forma di parchi urbani pubblici. Ma il Settecento è anche il momento in cui la natura incomincia a trasformarsi in ideologia. La riduzione della città a “fenomeno naturale” da parte dell’abate Laugier (ciò che Manfredo Tafuri in Progetto e utopia ha definito la «città come foresta») segna il punto d’inizio di un atteggiamento che tenta di mascherare il carattere artificiale della città, per un verso, e tende a identificare nella natura un valore, per un altro.

Il secondo di tali atteggiamenti avrà la maggiore fortuna nei secoli successivi, di pari passo con la progressiva sparizione della natura dalla città. Nel “sogno” della Ville Radieuse di Le Corbusier essa ridiventa una giungla che avvolge i grattacieli cartesiani distanziati 400 metri l’uno dall’altro. Ma è soprattutto nell’ideologia capitalista che conforma i reali sviluppi metropolitani successivi – più ancora che nelle romantiche ma sterili battaglie ecologiste – che la natura assume il proprio ruolo cardine: elemento d’imbellettamento, di camouflage, da spargere lungo i viali o da concentrare in qualche piazza a fini di “decoro” – o d’igiene – urbani, e poi sempre più di frequente utilizzato come marcatore di “classe” e come strumento di copertura delle operazioni immobiliari più disinvolte e redditizie.

La natura a questo punto viene evocata come un elemento salvifico proprio da parte di coloro che hanno compiuto ogni sforzo per espellerla dal contesto urbano. Al seppellimento di questa patente contraddizione chi agisce in tal senso è sempre molto attento. Se infatti la mancanza di qualcosa può legittimamente provocare un sentimento nostalgico nei suoi confronti, ciò non può essere in nessun modo accettato da parte di chi è responsabile di tale sparizione. L’evocazione della natura, in questo contesto, deve sempre essere guardata più che con sospetto – con la certezza di trovarsi di fronte a un malcelato inganno.

A Milano, a pochi anni – e a pochi metri – di distanza dalle due torri di cemento volute da Hines, la multinazionale texana del Real Estate, punteggiate qua e là da elementi vegetali e propagandisticamente battezzate “Bosco Verticale”, si annuncia ora la nascita di un secondo intervento “naturale”: Wheatfield (campo di grano) dell’artista  americana di origini ungheresi Agnes Denes. Voluta dalla Fondazione Riccardo Catella (il cui presidente Manfredi Catella è il patron dell’intera operazione immobiliare in zona Garibaldi-Isola), in collaborazione con Fondazione Nicola Trussardi e Confagricoltura, l’installazione artistica riesuma il mito di un’Arcadia bucolica e rurale in cui i cittadini milanesi vengono invitati a concelebrare il rito stagionale della seminagione. Secondo le promesse, nel giro di qualche mese le spighe imbionderanno i cinquantamila metri quadrati di terreno del nuovo Eden metropolitano, fornendo uno straniante – ma al tempo stesso consolante – commento alle “catena montuosa” di Porta Nuova. In nome dell’antica alleanza tra natura e artificio, entrambi troveranno così la loro validazione reciproca.

Il frutto del lavoro dei campi, liberato dal faticoso onere della coltivazione, si presenterà come il dono della terra elargito agli abitanti della metropoli direttamente dai rappresentanti degli dèi della Montagna. In tal modo il lavaggio – o meglio, il greenwashing – della coscienza risulta loro garantito, al pari di quello delle mani e di tutto il resto. Per la loro definitiva “assunzione” in un empireo ulteriore – Paradiso fiscale con benefits inclusi – non resta che attendere luglio, in occasione della festa del raccolto.

Wheatfields1

8 marzo 2015