The Resistance | #CiòCheManca

Quanto segue è una delle proposte selezionate nel contesto del concorso “Ciò che manca” indetto da Gizmo lo scorso maggio. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere al quesito “cosa manca nelle nostre città?” attraverso qualunque tipo di forma comunicativa, formulando soprattutto un’idea.

An Impossible Vision: ipertrofia comunicativa (or what if)
An Impossible Vision: ipertrofia comunicativa (or what if)

The Resistance
di Federico Puggioni

Where do we are now.

Centoquaranta caratteri. Il tweet, il post. La riduzione del tutto a uno: dell’emozione, dell’evento, del pensiero. A uno, rapido e immediato; a uno e ripetibile. A uno e ripetibile e moltiplicabile. Un’espressione che è immagine; immagine che non è necessariamente visiva, ma che diviene una strettoia, una sintesi o anche una stoccata rapida e più o meno articolata, che, a esser letta in un certo verso, può dirsi armonica.

Monos, ridurre a uno. Il tutto, a uno. E’ in questo ambito, nella questione dell’uno e del tutto, del singolare e del ripetibile, dell’aura e/o della serialità che si consuma il grande inganno della contemporaneità. Inganno perpetuato tra molteplici amanti (gli utenti dei social), molteplici promiscuità reiterate (tweetta, refresha la home, posta qualcosa) e pratiche perverse (il cui bestiario annovera talent che vanno avanti a colpi di like, contest che adibiscono la visibilità a conio), feticiste (lo zibaldone qui invece ha come caposaldo il prolificare di giornalismo d’inchiesta basato sull’interattività social…). Non si tratta dualismo tra armonia e dis-armonia, ma tra l’uno e la molteplicità: un inganno perpetuato tra l’utopia democratica, comunicativa, partecipativa e la distopia del caos, dello stupire, del doublethinking1.

E’ in questa paradossale constatazione che la contemporaneità pare basarsi e auto consumersi. Il lecito diritto di ognuno di poter dire (condividere), fare (taggare, taggando, venendo taggati), esprimersi (twittare) è così ridotto ai minimi termini e svuotato della sua essenza viene veicolato tramite medium che sono motore e veicolo dalle potenzialità infinite. Liberta è (ancora) partecipazione, o pratica/esercizio dell’apparire?

Ma essere (non) è apparire.

Il pluralismo, quindi, mentre tende alla sua infinita potenzialità diviene paradossalmente un monos armonico. L’infinita molteplicità, posta in contraddizione nel suo habitat di crisi (perpetua) diviene massa. Massa non pensante, nella quale conta il maggioritario. La minoranza, spesso demonizzata, vede ridotto il suo potere contrattuale all’immediatezza del con me/contro di me. Senza spazio al ragionamento e al dibattito. All’ascolto. La massa non pensante è la negazione dei motivi della nascita del pluralismo di opinione democratico. E’ una deriva di totalitaristica memoria, è una paradossale contraddizione nel quale la modernità pare insediarsi.

Al suo interno, lo smodato e reiterato uso di modi di dire contemporanei diviene artefice di un’ulteriore riduzione delle idee, ridotte a pseudo spiegazioni/giustificazioni sintetiche/banalità rumorose. L’eccessivo uso de “Il popolo di twitter s’indigna”, “e nel web infuria la protesta” e di altri neologismi contemporanei compiono sul lungo termine una raffinata quanto perversa operazione comunicativa che sa’ della migliore tecnica di restauro non filologico: puntellamento dei concetti, messa in sicurezza dell’episodio, svuotamento del significato, ricostruzione in stile con un falso palese unificante. Se concetti, contenuti, idee, argomentazioni mancano o vengono taciuti, bypassati, ridotti ai minimi termini, il dialogo (ancor di più se risolto mediante social) non diviene oggetto ed esplicitazione della sostanza dei fatti, ma sua immagine sbiadita e limitata. Pregna solo di consenso.

Torna alla memoria quanto detto da Argan sul Seicento, il secolo sospeso tra rinascimento ed epoca illuminista: “Persuadere, insomma, è ora assai più importante che dimostrare”.2 Questo sentimento, insediatosi tra il fervore artistico, gli slanci scientifico/filosofici differenti (oltre alla sistematizzazione e all’organizzazione delle scienze in discipline) si sovrappone allo spirito imperante del XXI secolo, che fa della persuasione e dell’illusione il fil rouge dell’economia turbo-capitalista. Persuasione come iconografia del dio profitto, legato al consumo e all’accumulazione di beni, oggetti, servizi (e loro trasformazione in strumenti finanziari evoluti e articolati). In un’epoca dove la contemporaneità è un’enorme e liquida metropoli, dove ogni luogo e ogni periferica sono un centro dotato di nanotecnologie, intelligenze artificiali e augmented reality viene quindi conseguente nominare la parola “crisi”.

D’altronde, le radici della parola “crisi”, krisis e krinein, derivano da selezione, scelta, discernimento. Nella loro accezione originale sono stati studiati e riferiti nel campo dei rapporti comunitari: non in quelli privati.3 Discernimento è vedere, distinguere, giudicare: scegliere.

In quest’ottica di discernimento, scelta e rapporti comunitari, il ruolo dell’architetto è (in linea teorica) ancora cruciale. La realizzazione di volontà, la materializzazione di una necessità o la soluzione a un problema mediante progettazione architettonica sono decisioni che non possono solamente esser legate a ciò che ha fatto nascere architettura: non può mai essere una questione introversa, perché fa continuamente i conti con la complessità dei fatti e dei rapporti tra persone, e tra persone e cose. In una parola, con la città. Anche per questo, il ruolo dell’architetto non è solo quello di esecutore e la scelta da compiere, quindi, non può non essere critica.

Essere è resistere.

In questa condizione contemporanea di ipertrofia comunicativa e sincronica riduzione dei contenuti, si delineano nell’orizzonte dell’architetto alcune scelte da compiere. E alcune fallacie da dover districare, evitare, o cavalcare sapientemente. Andare oltre le parole, oltre i –ismi delle esibizioni contemporanee4, concentrandosi sull’essenza del ruolo dell’architetto.

Di che futuro occuparsi, dopo aver accertato la natura del problema storico?

Una non scelta è una scelta. (così come l’antipolitica è politica?). Non occuparsi del problema. Esistere, tralasciando ogni implicazione di vita collettiva. Agire per frammenti 5 inseriti in un più frammentato e scoordinato progetto di territorio. Frammenti narcisistici, auto-riferiti, non comunicanti tra di loro, episodici. Non è una questione di scala ma, appunto, di scelta: i frammenti auto-referenziali, con l’aiuto della politica, degli affari e delle istituzioni possono crescere a dismisura, elevandosi fino al rango di esposizioni internazionali nelle quali “the exhibition content is, in the main, as vapid as the architecture is extravagant”.6 Esistere, continuando a fluttuare nel chiacchiericcio.

Oppure: scegliere e resistere, in qualche modo.

Che non significa necessariamente scegliere di resistere.

Accettazione (?). Terapia

Ci possono essere infinite terapie a riguardo, con multipli approcci, senza ovviamente la minima certezza sull’esito.

Medicalmente, il contesto di esposizione alla malattia è spesso fattore critico, ed è costituito principalmente dall’ipertrofia comunicativa e dalla facilità del poter disporre del tutto, subito. Su di esso si innesta la patologia turbo-capitalista e dell’apparenza illusoria e persuasiva, erosiva di contenuti. Conseguentemente, la storia di riferimento del paziente influenzerà le terapie. Scelte sulla base della casistica.

Si consideri, ad esempio, la scelta che ha come punto di partenza le condizioni ambientali e propone come esplorazione conoscitiva e progettuale il porre rimedio a una realtà post-apocalittica da affrontare radicalmente, ridisegnando le intere basi della società post-apocalittica in un disegno onnicomprensivo7. E compiendo quindi la scelta8 in modo definitivo.

Oppure si consideri chi sceglie di resistere agendo sulle condizioni contemporanee. Occupandosi dell’immediatezza, dell’emergenza. Dell’agire su un territorio distrutto e martoriato. Occuparsi di città di quantità, senza qualità, vittime del proselitismo di centinaia di Edoardo Nottola. Periferie e centri replica(n)ti che fagocitano 55 ha di suolo ha al giorno, con percentuali di costruito che arrivano fino al 70-80% in alcune aree, unendo Sud e Nord in una condizione simile9. Su questo fronte aperto, dopo decenni di perdite, si registra una reazione data dalla quantità di movimenti a favore del recupero del costruito, dell’abbandono, del territorio in senso generico (sia delle destinazioni agrarie sia della porzione urbanizzata). Recupero più o meno inscritto in una strategia generale, più o meno frammentato, ma che ha spesso dalla sua le dinamiche partecipative e le piattaforme open-source, oltre che il concetto di cittadinanza-attiva, che spesso pone al servizio della causa le abilità manuali dell’architetto-homus faber, noto negli anni ’10 del XXI secolo come il DIY architect.

Si consideri chi invece opera sul bene comune. Nozione stabile, unica e al contempo frammentata.10 Che include anche il paesaggio, il grande malato d’Italia11. Con la sua complessità, include a sua volta la biodiversità, che è un tema legato al numero di superficie forestale, al numero di specie endemiche 12. Ma include anche l’intero patrimonio storico-architettonico nazionale. Questa vastità riguarda anche il rischio idrogeologico elevato, che in un Paese composto per il 75% da montagne e colline, tocca il 9,8% della superficie e il 9,6% della popolazione, quasi 6 milioni di persone13. Temi complessi, da far scattare sull’attenti la coscienza civile, da divenire agenda primaria di ogni grado di governo territoriale di ogni ordinamento nazionale. Eppure, la stessa complessità e la stessa urgenza espone l’argomento a un grave rischio: le tematiche del landscape, del territorio, del futuro delle città, all’interno di questo framework, devono andare ad agire su fattori strutturali cruciali e porre in discussione numerosi equilibri.

Confusi nell’iper-specializzazione delle discipline, nel loro lacunoso collegamento reciproco, in una radicata e congenita difficoltà di azione/carenza di spesa/debolezza (in quanto si tratta di azioni impopolari, principalmente), gli interventi divengono intenti sciolti nel vuoto, da rilanciare a ogni evento di cronaca (nel mentre che si attende la stima dei nuovi ulteriori danni). Facendo dimenticare e  rimandare ogni scelta, ogni resistenza.

In questo scorcio di vastità ancora più esteso, c’è comunque in tutti il carattere principale della malattia: un problema storico, una necessità. La resistenza da opporre, confrontandosi con una metropoli molteplice, liquida e continua, fatta di frammenti, che appiattisce ogni differenza così ambivalente. La resistenza, così unica e multipla, può anche trovarsi al di fuori dei termini del problema delineato. E’ possibile compiere la scelta strategica di impadronirsi delle dinamiche della malattia di e usare la sua stessa struttura per sconfiggerla: “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”. Il controllo del passato avviene riappropriandosi di concetti, approfondendo materiali, figure, Fundamentals14, addirittura non arrivando alle soluzioni15. “Istruitevi, abbiamo bisogno di tutta la vostra conoscenza.”16

E’ così: con le esperienze scientifiche, con la ricerca, con la resistenza continua verso l’appiattimento e verso la riduzione del tutto a uno che la scienza sta insieme alle idee.

Ed è solo così che idee e scienza, tecnica e umanistica sono fuse nella complessa e resistente figura dell’architetto.

 


[1] La negazione e l’affermazione contemporanea di un fatto, un evento.

[2] Giulio Carlo Argan, L’Europa delle capitali – 1600 – 1700, Skira, Milano, 2010.

[3] Sintesi sul pensiero aristotelico in chiave comunitaria in Leslie G. Rubin, Justice vs. Law in Greek Political Thought, Rowman & Littlefield Publishers, 1997.

[4] «(…) nel momento in cui un’idea di forte rottura si configura come un -ismo, perde la sua spinta innovativa con l’aumentare della sua notorietà e i suoi discepoli tendono a diventare sempre più semplicistici e dogmatici. Si può dunque sostenere che l’esposizione milanese non sia affatto improntata alla sostenibilità, quanto piuttosto al sostenibilissimo.(…) » Francesco Bacci, in “IL PARCO DELL’ASSENSO – A proposito di Expo Milano 2015”.

[5] La figura del frammento, dell’episodio, nella sua contrapposizione con quella della continuità. In Bernardo Secchi, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari, 2010.

[6] , Olivier Wainwright , in “Expo 2015: what does Milan gain by hosting this bloated global extravaganza?” The Guardian, Online version, 12 May 2015.

[7] Alessandro Melis, Emmanuele Jonathan Pilia, Lezioni dalla fine del mondo – Strategie urbane di sopravvivenza agli zombie ed alla crisi climatica, Deleyva Editore, Monza, 2014.

[8] La scelta è anche un riferimento al diffuso saggio del 2007 di Al Gore, La scelta, che costituisce pietra angolare di un new deal ambientalistico su scala global-local.

[9] Il primo comune con più suolo consumato è il Comune di Casavatore (Provincia di Napoli), con l’85,4%. Il settimo è il comune di Lissone, in provincia di Monza e Brianza, con il 64%. Dati provenienti dal capitolo 2 del Report governativo Il consumo di suolo in Italia – Edizione 2015, ISPRA, Roma, 2015

[10] “Capitolo III. Cultura ed etica della tutela: una storia italiana” in Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi, Torino, 2010

[11] Introduzione, in Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi, Torino, 2010

[12] Riferimenti desumibili dalla mole di documenti governativi consultabili presso www.isprambiente.gov.it/it/temi/biodiversita/documenti

[13] Dati del 2011 del CRESME, Centro Ricerche Economiche e Sociali di Mercato per l’Edilizia e il Territorio, consultabili su www.lastampa.it/medialab/data-journalism/dissesto-idrogeologico

[14] I materiali di Aldo Rossi, le figure di Secchi, i Fundamentals di Koolhaas alla Biennale 2014.

[15] “(…) la maggior parte delle volte il problema della tesi non viene poi risolto. Non viene risolto perché la soluzione della questione, la maggior parte delle volte, non consiste nel risolvere la questione, ma nel metterla in discussione. Si tratta di realizzare che, nel modo in cui il problema era stato formulato, c’era qualche assunzione implicita e pregiudiziale che doveva essere abbandonata” Carlo Rovelli, in Paolo Pecere, “La scienza può fare a meno della filosofia e della storia?”, in L’Internazionale, 23 Maggio 2015.

[16] Antonio Gramsci, in L’Ordine Nuovo, anno I, n. 1, 1° maggio 1919.