Bello-brutto o stupido-intelligente?

Pubblichiamo una riflessione inviataci dall’architetto Pietro Derossi.

Bello-brutto o stupido-intelligente?

photo by Wei Siong Low
Dubai skyline, photo by Wei Siong Low

Per avviare una reazione (forse necessaria) della critica d’arte, sia da parte degli specialisti che delle persone “normali” che hanno un interesse per l’arte, sarebbe opportuno vietare per un certo tempo (non so dire quanto) di usare le parole “bello” e “brutto”.

In effetti queste parole, forse anche oltre la volontà di chi le pronuncia, esprimono un giudizio forte, quasi con la pretesa di essere definitivo, che prescinde dal distendersi della riflessione sul tema osservato.

Questo “désir d’absolu” così spesso espresso nei giudizi correnti o nelle critiche affrettate, di fatto suppone l’azione fare arte prodotta da un’“illuminazione” che si manifesta in modo chiaro ed evidente e che, nei casi riusciti, produce il “bello”. In assenza di questa illuminazione non si può che produrre il “brutto”.

L’alternanza di queste parole, se assunte come espressioni del giudizio, esclude rigorosamente qualsiasi ulteriore mediazione e dà il diritto di usarle per esprimere il proprio giudizio, un giudizio esaustivo, in un certo senso, che acquieta chi lo pronuncia.

Proprio per mettere in crisi questa procedura di giudizio proponiamo di “vietare” l’uso delle parole “bello” e “brutto” trattando di opere d’arte, e di sostituirle con le parole “stupido” e “ intelligente”. Cercheremo di giustificare questa proposta.

Parliamo della parola “intelligente”.

Non ci riferiamo a una qualità dell’intelletto determinata dal DNA, come un regalo della natura nel suo evolversi genetico. E neanche alla qualità del genio, personaggio anche lui straordinario per natura, come è stato celebrato da alcuni filosofi di scuola kantiana.

Ci riferiamo all’intelligenza come frutto di una capacità di essere nel mondo, cioè d’immergersi nel denso conflitto di tradizione e futuro, accettando il presente come attimo sospeso tra questo continuo e dinamico conflitto.

Si tratta di una condizione che richiede attenzione, ricerca, lavoro mosso dalla curiosità e dall’angoscia. La curiosità di capire e l’angoscia di non capire. L’intelligenza si realizza partecipando all’avventura dell’esserci (Heidegger), ed è proprio il “ci” che limitando apre alla profondità. È il particolare, il qui e ora, che permette di accedere a qualche visione del generale. Può un artista essere tale senza aderire a questa avventura?

Questa modalità di essere “intelligente” nel suo curioso ricercare trova, ovviamente, l’umanità e i suoi percorsi, e in questa ricerca è indotto a individuare i riferimenti che gli sono più propri, con cui approfondire la conoscenza e il dialogo.

Per cui l’intelligenza deve riconoscere i suoi interlocutori e a sua volta deve da questi essere riconosciuta.

Ottenere il riconoscimento da parte degli interlocutori è una condizione fondamentale dell’intelligenza. La fuga nella solitudine e nel silenzio richiede, forse, una condizione particolare, di difficile interpretazione, in quanto assomiglia molto alla morte.

L’intelligenza dell’arte di cui qui parliamo promuove per sua natura l’azione; esprime continuamente le sue intenzioni, confrontandole con i suoi referenti. Non può fare a meno di partecipare all’avventura dell’esistenza.

È proprio il dinamismo insito in questa partecipazione che dà al prodotto artistico un carattere di instabilità, quasi di provvisorietà. So che con questa osservazione apre un discorso rischioso che forse può trovare pochi consensi. In troppi sostengono che l’avvenimento dell’arte debba manifestarsi in un clima di isolamento assoluto, dove possa astrarsi dalla storia che l’ha generato e dai suoi effetti futuri.

Il suo valore, e anche la sua bellezza sta in questa sospensione offerta alla contemplazione.

È chiara la matrice idealistica che ancora oggi comanda nell’arte. Inserire l’arte nel fluire del processo storico pare sia un modo di relativizzarla e perciò di escludere il suo valore. L’arte deve essere un oggetto (e non una cosa) che risplende per la sua assoluta unicità.

Si può leggere con indulgenza questo “désir d’absolu” ma è forse questa deriva idealistica che apre il volgersi dell’arte verso quell’atteggiamento a cui attribuisco la definizione alternativa all’intelligenza, cioè la stupidità.

Un chiarimento: la parola stupidità deriva da stupore, la cui derivazione etimologica è “stupire”, “sbalordire”.

Si può accettare che la stupidità sia una condizione che può procurare stupore anche senza l’ausilio dell’intelligenza, anzi spesso in forza di questo distacco.

L’operare con intelligenza comporta riflessione, fatica, ma anche perplessità, incertezza. È un fare che coinvolge l’autore e che richiede un’intenzione forte di dare soluzione (anche se provvisoria) a un problema, che per l’arte è sempre un problema di comunicazione.

Se veniamo alla specificità del fare architettura è facile individuare la complessità dei temi che un architetto deve affrontare per definire un suo progetto.

L’architetto agisce nella città, un luogo in cui si svolgono quasi tutte le attività della vita.

È chiaro che per accettare questa fatica è necessario essere mossi da un particolare interesse per le vicende umane. Leggere la storia, confrontarla con l’attualità è una procedura appassionante. Senza questo interesse non c’è comprensione e non si produce un’intelligente azione.

È comprensibile che si siano creati dei “luoghi” in cui l’impellenza e la remunerazione del fare non possa permettere questi tempi di riflessione. Purtroppo di questi luoghi ce ne sono molti, dove si incontrano finanziarie multinazionali, grandi imprenditori, grandi studi di progettazione, dirigenti istituzionali.

È da alcuni anni che il capitale finanziario a livello internazionale ha scoperto che la produzione della città è un buon affare che può dare alti redditi e che il campo di azione è assai aperto e disponibile. Il disegno strutturale che sottintende consiste nel fornire anche alle amministrazioni occasioni di reddito.

Questo connubio tra grandi finanziarie e amministrazioni pubbliche, costretto dai tempi imposti dal denaro a procedere velocemente, esclude gli spazi per verifiche, relazioni, riflessioni, cioè i tempi e i modi dell’intelligenza.

Gli architetti (o società di progettazione) chiamati a progettare devono adeguarsi alle procedure e ai tempi: il compito principale che si attribuisce loro è di dare all’operazione una forza pubblicitaria, cioè creare stupore, cioè ancora accettare la stupidità, condizione necessaria per ottenere velocemente reddito e consenso. Il compenso sociale agli architetti per l’adesione a questa attività sta nella remunerazione economica e nell’ingresso nel mondo riverito delle star.

Facciamo un esempio: se si tratta di edifici alti (i cosiddetti grattacieli), che sono edifici con strutture semplici e ripetitive, si impone, per richiamare l’attenzione, d’introdurre movimentazioni plastiche e facciate originali, cioè di ridurre la ricerca dentro gli aspetti più banali della tradizione architettonica.

Con l’arroganza che gli è permessa dalla forza speculativa che li protegge, questi edifici si rivolgono alla città, il luogo dove si svolge la complessa attività dell’abitare, come a un mondo estraneo condizionato agli interessi dei grandi rapporti finanziari.

L’illusione, più o meno consapevole, è che in questi nuovi edifici (che possono anche non essere edifici alti) si concentri progresso e futuro, garantiti da una banca o da un ente pubblico che assumono il ruolo di promotori innovativi.

Il resto della città è escluso dai “valori” rappresentati dalle nuove mosse del capitale finanziario in azione. I grandi interventi alla ricerca dello stupore hanno anche la forza di seduzione verso gli architetti solitari che, sfalsando le aperture o inclinando una facciata e magari uno sbalzo, aspirano alla celebrità creando stupore.

Se queste ipotesi sostenute sono ragionevoli, ne deriva che una certa architettura, nel tentativo di creare stupore, sostenuta da pressanti interessi finanziari, estranei ai temi della complessità dell’abitare, nella sua banalità, può essere collocata in un’area alternativa all’intelligenza, cioè nella stupidità.

Si può giustificare la proposta di sostituire i giudizi correnti sull’architettura che si esprimono col binomio bello-brutto con un nuovo binomio intelligente-stupido?

Si tratta di una proposta provocatoria che, esclude le ovvie mediazioni, ma che può indurre gli autori del mondo dell’arte (autori e critici, e anche pubblico) a riproporre il tema del senso e del valore dell’attività artistica, senso e valore oggi un po’ rimosso.

Questa situazione che qui riconosciamo nella sua parte pragmatica come simbiosi opportunistica, tra politica e finanza, si sostiene anche per una superficiale interpretazione delle linee attuali del pensieri socio-filosofico.

La ormai famosa dichiarazione di Lyotard, la caduta dei grandi racconti, a cui corrisponde la possibile revisione delle regole generali accettate e date per acquisite, con la sostituzione di un’accentuazione delle responsabilità delle scelte dei singoli con i loro percorsi interni, ha creato uno smarrimento della dinamica dei rapporti.

Se da una parte è legittimata la “decostruzione” delle regole e dei canoni dati per assoluti, dall’altra si apre un mare di possibilità per le scelte individuali.

Ogni atto è un ricominciamento che richiede un’interpretazione.

Se si accetta che non esistono fatti ma solo interpretazioni, la vita (e anche l’architettura) diventa un’avventura e nell’avventura il binomio stupido-intelligente diventa una drammatica alternativa.

In alternativa alla ricerca intelligente che si assume tutto il peso della responsabilità che gli deriva dalla riapertura degli spazi di interpretazione si può gestire questa “libertà” come vuoto da riempire con un gesto che richiami attenzione, che crei stupore, che sia stupida. È quest’ultima la condizione prevalente nell’architettura contemporanea, almeno quantitativamente vincente?

Vediamo profilarsi due condizioni a cui si può attribuire il primato della stupidità nella progettazione della città. L’una può essere definita un malinteso concettuale che fa del ripensamento dell’ordine una licenza del disordine; l’altra, certo connessa alla prima, che concede alle forze finanziarie il diritto di progettare, anche attraverso il condizionamento della politica, le trasformazioni territoriali a fini speculativi.

Sembrerebbe che la “caduta dei grandi récit” con l’apertura a nuove letture e nuove interpretazioni necessiti di un grande sforzo di intelligenza (con la relativa passione), forse una richiesta eccessiva a cui la società attuale ha difficoltà ad aderire. Il richiamo che alcuni fanno a un nuovo realismo forse parte proprio dalla lettura di questa difficoltà. Per questa ragione riteniamo utile, diciamo una piccola strategia, proporre un gioco di parole: non più brutto-bello, ma stupido-intelligente.

Ma allora la bellezza oggi così declamata e desiderata!

Possiamo chiamare bellezza il risultato di un pensiero-azione intelligente se si conviene che è una qualità provvisoria, leggibile come evento dentro lo svilupparsi di un processo.

La bellezza così intesa non ferma ma apre, non definisce ma mette in discussione.

Il significato che propone è provvisorio ed è in attesa di sempre nuove interpretazioni. È sottoposta alla continua attenzione dell’intelligenza.

Pietro Derossi 

16 novembre 2015