Serve lo spazio giusto per imparare il progetto

RIFLESSIONI E PROPOSTE PER LA NUOVA SCUOLA DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI MILANO

di Mauro Sullam

A gennaio 2016, la Scuola di Architettura Civile (Bovisa), la Scuola di Architettura e Società (Leonardo) e quella di Ingegneria Edile-Architettura (Lecco) si fonderanno e daranno vita a una nuova Scuola chiamata Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle costruzioni. Da mesi presidi e docenti sono al lavoro per darle forma.
Non posso entrare nel merito della struttura didattica che assumerà la nuova Scuola perché mi mancano troppi elementi – lo svolgersi del processo di accorpamento, d’altra parte, non è stato reso particolarmente accessibile, per esempio attraverso un sito o una serie di dibattiti pubblici, aperti a una platea più vasta – né intendo mettermi nella polemica sulla chiusura di Bovisa.
Voglio invece partire dal tema degli spazi in cui la didattica si svolge, e aprire una riflessione che a mio parere gli studenti potrebbero condurre, fino a trasformarla in una dirompente rivendicazione di cambiamento, ancora più significativa perché concomitante con l’apertura di una nuova Scuola.
Ho sempre pensato che le Facoltà di Architettura, qui al Politecnico, non offrissero degli spazi adatti a insegnare, e soprattutto a imparare, il progetto d’architettura. In senso dialettico, penso anche a come parte della docenza, frantumata da divisioni settarie oltreché più incline alla cattedra che al banco da lavoro, abbia finora favorito l’uso di spazi parcellizzati, aule “a tempo” del tutto inadeguate ad ospitare dei veri corsi di progettazione, e cioè dei luoghi dove gli studenti possano lasciare i propri plastici e i propri disegni e ritrovarli il giorno dopo, o tornare a lavorarci di notte.
La continuità, il fatto che gli strumenti e gli oggetti del proprio lavoro rimangano nello stesso luogo, maturando visibilmente giorno dopo giorno, è alla base di ogni pratica progettuale, sia in molte Facoltà estere sia – soprattutto – negli studi di progettazione.
Oltre al problema delle aule, c’è quello dei laboratori “veri e propri”: laboratori di modelli, laboratori di materiali, laboratori di disegno. Resta tutt’ora misterioso come mai non si trovino al centro della Facoltà, come mai non ne costituiscano il cuore pulsante, artigiano, aperto giorno e notte. In molte altre facoltà funziona esattamente così, e l’effetto sulla qualità del lavoro e dei rapporti fra studenti è di assoluto rilievo: ti affezioni al progetto, conosci la materia e gli utensili, sei in continuo confronto con chi ti circonda e con quello che sta facendo proprio di fianco a te.
E ancora, tutto quello che sta fra le aule e i laboratori: spazi d’incontro, luoghi attraversabili e vivi che non siano semplicemente corridoi di accesso alle aule, cioè a quei piccoli mondi isolati, che aprono e chiudono come fossero uffici postali e nei quali ogni docente coltiva la propria visione personale delle cose, non armonizzata nei temi e nei tempi rispetto a un programma comune. L’unico spazio che davvero funziona come condensatore sociale è il cosiddetto “patio” che dobbiamo alla grande sensibilità di Vittoriano Viganò. Ogni tanto, inoltre, vengono organizzate mostre congiunte, come quelle di “Riformare Milano”: sono occasioni importanti ma al contempo si respira la mancanza di una consuetudine quotidiana al dibattito, al confronto reale fra studenti: la mostra chiude e dal giorno dopo si ritorna divisi.

Yale School of Architecture
Yale School of Architecture – spazi comuni e revisioni aperte (dentro l’edificio di Paul Rudolph)

A proposito di mostre, lo spazio espositivo “Guido Nardi”, peraltro bellissimo, occupa una posizione periferica e non entra in contatto con i flussi di studenti: sarebbe bello affiancarvi uno spazio d’incontro, ad esempio un caffetteria, altro tipico e fondamentale luogo di dibattiti informali che qui manca.
La questione degli spazi, ne sono convinto, è quella che permetterebbe agli studenti di farsi protagonisti di un’istanza di cambiamento, di rivoluzione quasi, di cui la nuova Scuola ha bisogno per non morire (come è già successo a Bovisa) o quantomeno per non cristallizzarsi nell’opacità di un ambiente ostile alla sedimentazione di qualsiasi esperienza di formazione sul progetto. Si tratta di abbattere muri, collegare spazi, renderli flessibili e aperti al lavoro intenso ed appassionato, fondato sul confronto, di cui ogni futuro architetto ha un bisogno assoluto (anche se a volte non ne è consapevole). Nel 2010 ho partecipato attivamente a un paio di occupazioni della Facoltà di Bovisa e, con molti compagni e compagne di strada, abbiamo sperimentato direttamente cosa significhi vivere ogni minuto e ogni centimetro dell’edificio che ci ospitava, connettere esperienze, sperimentare alla scala 1:1 delle idee di spazio e di rapporti sociali.

Bovisa - Assemblea in cui si decise l'occupazione del 3-4 dicembre 2010
Bovisa – Assemblea in cui si decise l’occupazione del 3-4 dicembre 2010

La questione degli spazi è solo in apparenza una questione squisitamente spaziale: riflette, come accennavo sopra, un’idea di insegnamento, che qui si propone aperto e saldamente radicato nello spirito laboratoriale che il progetto d’architettura presuppone. Risignificare gli spazi della scuola, cambiarne i connotati distributivi e l’impiego temporale vuol dire risignificare l’esperienza della formazione e, in buona sostanza, formare architetti migliori.
Abbattere le barriere fra i laboratori porterebbe nella pratica, e non solo nella teoria, i docenti e gli studenti al confronto, al lavoro di squadra, a rifondare un percorso didattico in senso corale.

Solo gli studenti possono farsi promotori di questo cambiamento (anche se non ne sarebbero, e giustamente, i soli attuatori): dagli studenti può venire la forza di rompere i mille legacci burocratici, il buon senso apparente di chi dice sempre “non si può fare”. Gli studenti possono riappropriarsi degli spazi per riappropriarsi della propria formazione. L’Italia è il posto giusto dove farlo, senza attendere messianicamente l’Erasmus di turno o la fatidica emigrazione professionale dopo la laurea. L’Italia è il posto giusto perché è il nostro qui e ora, e perché i cambiamenti più profondi avvengono esattamente dove appaiono meno plausibili.
Concludo con una possibile piattaforma di proposte, nella speranza che da essa nasca un dibattito sia fra gli studenti sia con docenti e amministratori.

  • Aule fisse per i laboratori di progettazione, in cui gli studenti possano lasciare e ritrovare i propri materiali. Questo vuol dire ripensare gli orari e la distribuzione dei corsi in funzione di una maggiore compattezza. Ad esempio, i laboratori potrebbero avere la durata di due mesi ma occupare tutti i cinque giorni della settimana universitaria.
  • Laboratori e utensilerie più grandi, diversificate e sempre aperte, con un portafoglio di materiali a disposizione di ogni corso di progettazione per la costruzione di plastici e di altre prove. Questo significa anche re-immettere corsi approfonditi di modellazione e rappresentazione all’interno dei programmi didattici.
  • Revisioni ed esami pubblici, il più possibile centralizzati in unica parte della Facoltà, in modo da infrangere il muro di isolamento dei singoli corsi e istituire appuntamenti di confronto fra studenti, docenti, progetti.
  • Laboratori ad annualità simultanee: studenti di anni diversi potrebbero frequentare alcuni laboratori in comune in modo da aumentare il livello di scambio fra i vari anni e livelli di esperienza.
  • Armonizzazione dei temi di progetto fra i vari laboratori e anni di corso, in modo da definire terreni di confronto che siano davvero condivisi e intellegibili.
  • Progetti per la città, per la Facoltà, nella città e nella Facoltà: cogliere ogni occasione reale per trasformarla in tema didattico; sviluppare il più possibile, come già fanno alcuni docenti, laboratori itineranti ed esperimenti diretti sulle aree di progetto e dentro gli spazi universitari. Le idee per trasformare gli spazi dell’università e i luoghi urbani che la circondano potrebbero essere molte, e sicuramente costerebbe molto meno attuarle con la partecipazione attiva degli studenti, senza parlare dell’altissimo valore didattico di tale operazione.

1 dicembre 2015