Architettura, media e pubblicità (1945-2000)

di Gabriella Lo Ricco

Plurimi e sfaccettati sono i rapporti che intercorrono tra architettura, media e pubblicità. Alcuni aspetti di tali rapporti possono essere compresi partendo dal presupposto che si tratta di ambiti caratterizzati ognuno da attori, logiche interne, obiettivi, processi e tempi di produzione profondamente diversi e che esistono però tra essi dei punti di tangenza che a volte evidenziano alcune questioni in essere, altre – soprattutto nel corso dell’ultimo decennio – hanno delle ripercussioni sulla produzione dell’architettura. Inoltre, analizzare tali punti di tangenza dal Secondo Dopoguerra agli anni Duemila implica l’assunzione di mutevoli punti di vista che variano in ragione di diversi momenti culturali e storici e della consapevolezza di compiere un ragionamento attraverso l’esposizione di frammenti.

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Nel secondo dopoguerra è il nuovo clima democratico della ricostruzione a innervare l’attività degli architetti italiani e ad alimentare una diffusa necessità di innescare un processo di condivisione con i cittadini, con coloro che fruiscono dell’architettura, della città e del territorio. In un paese caratterizzato da un substrato sociale e costruttivo variegato e contraddittorio, gli architetti e gli urbanisti individuano come medium privilegiato per instaurare un dialogo con la collettività la pellicola cinematografica. In effetti, in pieno boom economico, le città italiane sono soggette a profonde trasformazioni e l’opera cinematografica, per le sue caratteristiche, offre delle ampie possibilità di comunicazione con un pubblico culturalmente molto diversificato.

Obiettivo condiviso è quello di creare un’opinione pubblica e di compiere un’azione culturale e politica di massa, attraverso comunicazioni chiare e incisive, partendo dai fatti, dalla realtà, dalla città, evidenziandone le contraddizioni, per poi proporre, caso per caso, delle idee e delle possibili soluzioni concrete.

Piero Bottoni, ad esempio, alla luce del carattere paradigmatico che il progetto del Quartiere QT8 doveva assumere nella costruzione dei futuri interventi all’interno della città, per documentarne la costruzione realizza due film, Il quartiere sperimentale modello della Ottava Triennale di Milano “QT8” ed Esperimenti di prefabbricazione, che nel corso del 1948 e del 1949, immortalano alcune fasi di costruzione delle abitazioni del quartiere, mostrano i sistemi di prefabbricazione impiegati e la consegna degli appartamenti. L’afflato che innerva tali pellicole è chiaro: si tratta di una sperimentazione progettuale che, attraversata da motivi di semplicità, razionalità, economicità che possono contribuire alla ricostruzione fisica e morale in atto, va conosciuta e discussa. Ludovico Quaroni, Giancarlo De Carlo e Carlo Doglio, nel 1954, attraverso Cronache dell’urbanistica italiana da una parte immortalano gli agglomerati di fortuna che affastellano le periferie delle città, le baracche costruite dopo la guerra, i panni stesi sulle reti di recinzione provvisorie e i volti malinconici delle persone che abitano in tali luoghi; dall’altra mostrano il Villaggio della Martella: la soluzione abitativa elaborata da Quaroni per gli abitanti dei “Sassi di Matera” che reinterpreta quel sistema di relazioni soprannominato ai tempi “la vergogna d’Italia”. Posizione dell’architettura, un documentario del 1953 di Angelo Mangiarotti e Carlo Bassi, si propone invece di avvicinare alla comprensione del grande pubblico l’architettura moderna italiana, tracciandone le genealogie con l’opera di Edoardo Persico, Giuseppe Pagano e Giuseppe Terragni. «Il futuro delle nostre città sarà come noi l’avremo voluto». É questo il principio che attraversa molte delle pellicole realizzate dagli architetti italiani nel corso degli anni Cinquanta e che innerva anche Cronache dal futuro: la Città, una puntata della serie “Orizzonti” commissionata dalla RAI di Torino a Giovanni Astengo nel 1956.

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Nel 1963 mentre il film Le mani sulla città di Francesco Rosi evidenzia la presenza di logiche speculative ben più forti di qualsiasi volontà civile, Quaroni al convegno RAI come servizio pubblico, seppur parlando dell’urbanistica a confronto con i mezzi della televisione, evidenzia la presenza di una profonda frattura tra la cultura italiana e le masse popolari: le grandi potenzialità del medium televisivo di creare un’informazione pubblica non vengono sfruttate dagli urbanisti che per Quaroni si sono accontentati «di essere un’élite, di essere intellettuali sterili e incapaci di creare una pubblica opinione sui problemi della città». Quaroni sottolinea inoltre come l’esistenza di dozzine di riviste specializzate, di istituti e associazioni che aggiornano i dibattiti attraverso convegni e congressi, di cattedre universitarie specializzate, abbia una vita autonoma rispetto a una in realtà che si trasforma seguendo logiche altre. Tale scissione raggiunge il suo apice negli anni Ottanta quando diviene perfettamente visibile attraverso l’analisi dei palinsesti televisivi. I canali RAI trasmettono numerosi documentari di taglio storico, su Andrea Palladio, su Weimar, su Bernini, su Antonio Gaudì, su Ernesto Basile ecc… Compaiono nuovi format televisivi per consigli “fai da te”, come ad esempio Filo diretto: l’architetto risponde. Mentre i canali Fininvest trasmettono a rotazione per 9 anni una serie di film che tratteggiano il profilo di un architetto sprovvisto del suo ruolo sociale. In La voglia addosso, ad esempio, Bobby Lee Burnett è un architetto benestante che compensa la frustrazione delle sue migliori aspirazioni giovanili –privo di qualsiasi interesse, lavora per l’edilizia di consumo – nell’acquisto di potenti macchine sportive e in una coinvolgente avventura extra coniugale. La donna della domenica è invece un giallo che ruota attorno all’omicidio dell’architetto Garrone, «uomo di dubbie risorse e di modi lascivi». Persino la campagna pubblicitaria della Findus, già nel 1982, immortala un bambino che forse da grande deciderà di fare l’architetto: al momento si diletta a costruire un castello di sabbia.

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I media per tutti gli anni Ottanta comunicano al grande pubblico il logorarsi del ruolo sociale dell’architetto. Ciò avviene in concomitanza alla scelta di numerosi architetti di concentrare la propria attività sul design di prodotti industriali, all’interno di una generale disillusione e a fronte di un progressivo assottigliamento dell’area di incidenza dell’architettura nelle città italiane.

“Cosa stanno architettando per il 2000…” è il titolo di un articolo comparso all’interno de «L’Unità» il 1 giugno 1982 che si apre con un commento caustico di Manfredo Tafuri relativo al convegno Architettura, istituzioni e potere: «Se io fossi un giornalista comincerei chiedendomi una cosa: perché se vado a un convegno di cardiologi sentirò discutere delle malattie e delle terapie per il cuore mentre se vado ad un convegno di architetti tutti cominciano a parlare di “farfalle” al posto di case e di città?». La risposta è implicitamente contenuta nel successivo intervento di Giulio Carlo Argan: l’architettura all’interno delle città italiane è pressoché assente. E viene riportata come esempio la costruzione della nuova sede dell’Università di Roma: «essa non sarà progettata da architetti […]. Così al posto di avere un centro culturale avremo qualche casermone per le facoltà, avremo un motel in disuso come casa dello studente e un nosocomio abbandonato a fare da policlinico. Non è questione di bello e di brutto. La verità è che questa “cosa” che nascerà non avrà alcun significato».

Articoli Milano2

Questo clima di inemendabilità della realtà delle città italiane e di assenza di architettura è perfettamente interpretato dal mercato immobiliare che nel frattempo si appropria di quegli strumenti comunicativi con cui la cultura architettonica non interagisce per le più svariate ragioni. In tale ottica un caso emblematico è rappresentato dalla costruzione di Milano 2 a cui, tra il 1972 e il 1973,  il «Corriere della Sera» dedica una serie di articoli a pagina intera e recanti i seguenti titoli: “Milano 2: la città dei numeri uno”; “Milano 2: come nasce una città”; “Milano 2: un nuovo modo di costruire”; “Milano 2: una città per vivere”; “Milano 2: una città per i bambini”; “Milano 2: una villa all’ultimo piano”; “Milano 2: operazione aria pulita”; “Milano 2: una proposta che convince”; “Milano 2: il momento di investire”. L’interesse di questi articoli e della costruzione di Milano 2 non risiede solo nell’indicare su quali desideri o bisogni il mercato immobiliare ancora oggi operi, ma anche nel comprendere quali siano le modalità di ideazione di questo tipo di interventi. Le costruzioni di Milano 2 sono caratterizzate da un collage di elementi: alcuni sono propri dell’immaginario popolare, altri sono principalmente noti a una precisa fascia di utenti e desunti infatti dalle architetture milanesi messe a punto negli anni precedenti da Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti, Ignazio Gardella e BBPR. In mancanza di contenuti altri, gli operatori del mercato immobiliare puntano sullo strumento linguistico delle costruzioni che è gestito come congegno espressivo per surclassare la concorrenza.

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A partire dalla metà degli anni Novanta, nel clima post-tangentopoli e sulla scia degli interventi architettonici attuati nelle città di Madrid, Barcellona, Parigi, Berlino e Bilbao, si assiste alla volontà da parte delle istituzioni di innescare un processo di trasformazione delle città italiane attraverso l’apporto dell’architettura. L’analisi dei media evidenzia una rinnovata presa di coscienza della realtà: ricompaiono immagini che immortalano lo stato delle periferie e dei paesaggi italiani, emergono chiaramente nuove questioni da affrontare, come ad esempio l’assenza di luoghi di accoglienza per gli immigrati, la carenza di musei e di abitazioni per le classi meno agiate, la conversione di ex-aree produttive che con il loro “mutismo” nei tessuti urbani testimoniano il passaggio dalla realtà delle fabbriche alle prestazioni immateriali del terziario, del design, della moda e della finanza. D’altra parte, nei quotidiani, nelle riviste, nei programmi televisivi e all’interno delle pubblicità si assiste a un’esponenziale crescita di immagini di edifici “firmati” da professionisti internazionali. Così le questioni ereditate dagli anni precedenti s’innestano all’interno di un sistema di comunicazione dell’architettura che aderisce a una delle leggi cardine della società dei consumi: l’eccesso di informazione perpetuata tramite immagini e formule. Tale eccesso di informazione, lavorando sul piano dell’immaginario, futuribile o desiderabile che sia, ha delle ricadute nella realtà: la committenza associa determinate immagini di architettura alla garanzia di positive operazioni di marketing urbano e il grande pubblico a un agognato aggiornamento italiano. Non a caso le città italiane salutano il 2000 con la realizzazione di numerose architetture di archistar© pensate secondo le logiche di ideazione di Milano 2, ma questa volta attingendo a un immaginario “globale”.

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Il testo è stato scritto in occasione della mostra Comunità Italia. Architettura / Città / Paesaggio 1945-2000 e pubblicato all’interno dell’omonimo catalogo. La mostra, a cura di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi, è visitabile  fino al 6 marzo 2016 presso La Triennale di Milano.

Milano, 9 gennaio 2016