Storie di una comunità eclettica

di Valerio Paolo Mosco 

Claudia Gallo-Comunità Italia

Se c’è una cosa che risulta evidente nella mostra alla Triennale dedicata all’architettura italiana curata da Alberto Ferlenga e Marco Biraghi (Comunità Italia. Architettura, città, paesaggio 1945-2000) è l’accettazione di un fatto ormai evidente che da anni, per ragioni ideologiche e di mercato culturale, viene tacitato, ovvero la natura eclettica della nostra architettura. In essa, dal dopoguerra ad oggi, troviamo un po’ di tutto: dall’iper-modernità ai ritorni all’ordine, dal ruralismo al futurismo, dalla esaltazione tecnologica al costruire elementare. È difficile muoversi in questo ginepraio che sembra convalidare quanto andava affermando negli anni ’50 Guido Piovene in quella che ancor oggi è una delle più convincenti narrazioni del nostro paese, Il viaggio in Italia, in cui Piovene in più passi continua ad affermare, quasi a voler giustificare la naturale incompletezza del suo racconto: “…ma l’Italia è contraddittoria”.

Ferlenga e Biraghi, assunta la contraddizione come un dato di fatto, articolano la mostra per sezioni che percorrono le scuole, l’editoria, l’ingegneria, il disegno e così via e in ognuna delle sezioni la contraddittorietà, ma anche la ricchezza espressiva, è palpabile. Per comprendere la mostra e apprezzarla è necessario soffermarsi innanzitutto sul collage che introduce la mostra in cui si affastellano oggetti architettonici disparati. Il collage può essere visto come un manifesto dell’eclettismo, come un rebus di forme irrisolvibile.  Al collage è necessario affiancare il grande disegno di Steinberg che campeggia alla fine della mostra, un grande bandone in cui si affastellano questa volta cupole di chiese, monumenti smarriti, traffico petulante e oggetti edilizi che rappresentano nel complesso l’impossibilità per l’architettura di esplicare compiutamente il proprio compito rappresentativo. È la lezione di Roma, ma non la lezione descritta da Le Corbusier in Verso un’architettura, ma una lezione più sottile, probabilmente quella che avevano compreso Goethe e Freud, sulla contraddizione endemica della condizione umana tradotta in forme urbane.

Città analoga meets Città analoga-Foto Léa-Catherine Szacka

L’architettura in Italia, più dell’arte e più della filosofia, ha saputo rappresentare questa contraddittorietà di cui non riusciamo a comprendere fino in fondo le cause, ma di cui a stento intravediamo per frammenti le forze esogene ed endogene che l’hanno nutrita. Esiste un parallelo tra le vicende della nostra architettura e le coeve vicende politiche del nostro paese. Alcuni anni orsono, dopo la caduta del muro di Berlino, uscirono allo scoperto le spie che avevano collaborato con il duopolio alla base della guerra fredda. Alcune di esse, tra cui molti giornalisti di grido, confessarono che il più delle volte i loro datori di lavoro non gli chiedevano altro che la spiegazione delle intricate vicende nostrane, incomprensibili a chi non fosse stato all’interno delle stesse. Ciò è valido anche per l’architettura.

Prendiamo tra i tanti casi quello della Università delle Calabrie, il famoso progetto del Gruppo Gregotti, il grande ponte abitato che campeggia nella valle del Crati. Se non si conoscessero le vicende degli anni ’60 e ‘70 italiane, il mito keynesiano della grande dimensione, la politica industriale di stato, la questione meridionale, l’avversione alla resa pulviscolare del governo della Democrazia cristiana da parte dei nuovi gruppi dirigenti, di certo non si comprenderebbe quello strano ponte che oggi appare lì, non certo privo di magnificenza, come rudere di un’epoca ormai lontana che però lascia ancora irrisolti i problemi che intendeva risolvere.

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E poi la cultura dell’emergenza. Nella sala iniziale della mostra un video scorre in sequenza una serie di eventi drammatici degli anni passati; non si può fare a meno di ricordare tutte le azioni e reazioni che gli stessi hanno innescato ed è logico pensare che una delle cause dell’endemico eclettismo sia stata propria quella cultura dell’emergenza che ci portiamo appresso. Il pensiero va allora a una coincidenza significativa: la famosa mostra del 1978, Roma interrotta, una kermesse che apriva la stagione postmoderna non solo in Italia, viene inaugurata lo stesso giorno dei funerali di Aldo Moro; da un lato abbiamo la rappresentazione emergenziale di un paese intriso di tensioni sociali e politiche, dall’altra la rappresentazione della volontà di sbarazzarsi delle stesse attraverso il disimpegno ludico.

Emergenza e immediata reazione dimenticante quindi come un pendolo che ha scandito le nostre stagioni. Dietro l’eclettismo dunque la nostra storia e le sue ambiguità: una storia che da un punto di vista figurativo è ancora oggi riferibile alla duplicità all’apparenza incolmabile, tra metafisica e futurismo: una duplicità che a ben vedere si è nutrita non del conflitto, ma essenzialmente delle ibridazioni tra le due componenti.

Superstudio_morte

Ricordo anni fa una mostra a Salerno sull’architettura italiana non memorabile, ma il cui titolo era significativo: Conflitti. La mostra faceva reagire in senso conflittuale le aporie della nostra produzione architettonica, e il risultato era banale: vedendo infatti solo i conflitti emergevano le parti peggiori della nostra produzione. Dimenticate invece le opere che del conflitto, aggirandolo, facevano una risorsa. Queste opere – pensiamo al PAC di Gardella a Milano o al Girasole di Moretti e alla Torre Velasca di BPR – hanno neutralizzato il conflitto esorcizzandolo con forme non paradigmatiche, ma evocative di significati non del tutto congruenti tra loro ma tessuti in una rete di rimandi e sfumature che le rendono ancora vive, e non memento di mondi ormai lontani.

La mostra milanese ci racconta tutto ciò sospendendo il giudizio, prendendosi cura essenzialmente di proteggere questo eclettismo e di considerare lo stesso come una risorsa. Oggi, in un panorama internazionale che dopo la sbandata globalizzante dei nuovi media riscopre una certa identità nazionale, o se non altro delle appartenenze di area, se confrontiamo la nostra produzione con quella tedesca, francese o inglese, ad esempio, ci accorgiamo che nonostante alcune arretratezze, l’architettura italiana, proprio in ragione del suo endemico eclettismo, riesce a presentare un’offerta molto più argomentata rispetto a quella degli altri paesi europei con cui quotidianamente ci confrontiamo.

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Questo è un valore, e tale valore trova ancora più argomenti nel fatto che, nonostante i profeti del paese senza architettura, la produzione generale, se da un lato ha perso l’impatto ideologico che in passato l’aveva caratterizzata, dall’altra ci propone una non indifferente quantità di progettisti capaci di realizzare opere di rispettabilissima fattura.

La domanda allora, dopo aver visto l’enciclopedica mostra milanese, sorge spontanea. C’è qualcosa che sta dietro all’eclettismo a cui poter far riferire almeno un frammento di identità? Se c’è, personalmente penso che sia riferibile a quella commensurabilità di cui parlava Roberto Longhi scrivendo della pittura italiana del quindicesimo e sedicesimo secolo, ovvero quella capacità relazionale tra le cose per cui le stesse è come se si legittimassero a vicenda, e ciò sia per contrasto che per analogia e mimesi.

Rivedendo insieme i tanti progetti esposti a Milano mi sembrava che i più convincenti, al di là della loro caratterizzazione stilistica, fossero proprio quelli capaci di  commensurare la propria presenza non solo con  il proprio intorno fisico, ma anche con quello delle idee che in Italia ancora oggi non mancano.

Comunità Italia-Foto Silvia Micheli

26 gennaio 2016