Architetti in Quarantena. L’abbandono politico del progetto.

di Marson Korbi*

Da quando siamo tutti in quarantena, l’allargarsi del tempo domestico porta a porci delle domande sulla professione. Lo “stare a casa”, con la rinuncia dell’abito quotidiano da lavoro e il cappotto appeso dietro la porta d’ingresso da diversi giorni, induce a interrogarci sul senso della professione e del lavoro che tutti facciamo. Certamente, il ritorno allo spazio più conflittuale che ci sia, quello della casa, offre una consapevole visione del progettare da capo e alla lettera una nuova quotidianità casalinga tra lavoro, ozio e cura familiare, ma più largamente facilita il pensiero e la riflessione—considerando il tempo a disposizione—sulla crisi della professione, tra cui quella architettonica.

Nel saggio Creazione e anarchia: L’opera nell’età della religione capitalista, Giorgio Agamben sostiene che qualsiasi lavoratore (come l’architetto, il cantante, l’artigiano, il fabbro), si definisce tale nel momento in cui, avendo il potenziale di operare, non opera, quando cioè resiste alla potenza-di fare, dunque alla sua potentia potentiae[1]. In parole povere, richiamando l’opuscolo del pittore sovietico Kazimir Malevič, L’inoperosità come verità effettiva dell’uomo, Agamben argomenta facendo capire che il professionista, come ad esempio l’architetto, si definisce comunque come architetto nel momento in cui non opera e resiste al suo potenziale istinto di mettere in opera, nel caso dell’architetto, di disegnare, schizzare, pensare all’architettura o fare progetti.

Una paradossale definizione, specialmente quando si pensa a tutti quei colleghi annoiati in occasione di eventi (di lezioni o seminari pubblici), assorbiti nel disegnare qualsiasi cosa di “creativo” nei loro generici taccuini Moleskine o Muji. Così come i tanti “stakanovisti” social dei collage e della miriade di immagini “stile collage” senza progetto (c’è anche chi dipinge), delle foto amatoriali e non—perfettamente eseguite, con tanto di lunghe didascalie ben scritte—che popolano in giornate di prigionia domestica i social networks di vario genere. (Dietro questa sfera, basti pensare anche ai docenti universitari, in Italia, assorbiti perlopiù dalla macchina burocratica, dall’amministrazione, alienati dal progetto architettonico e confusi rispetto al mondo reale—forse già da tempo in quarantena). Riferendosi alle prime categorie, da ben prima della quarantena virale di Covid-19, sembra che tutte queste produzioni continue di cose immateriali siano accomunate da qualche necessità di apparire, di dimostrare la propria presenza e, soprattutto, il proprio potenziale come creativi e lavoratori, ma innanzitutto, tutti questi colleghi sembrano essere tutti accomunati dalla “mancanza del progetto”, l’imperativo par excellence del definirsi architetto.

Ma l’intento di Agamben è di tutt’altra natura. Seguendo il ragionamento del filosofo romano, oltre all’architetto, il potenziale dell’operare si riferirebbe oggi a tutti quei professionisti definibili come “lavoratori della conoscenza”: non solo architetti ma anche altri intellettuali simili, come giornalisti, artisti, ricercatori universitari, ed altre professioni di recente invenzione. In questo senso, architetti, creativi, artisti, filosofi, scrittori, di tutto il mondo sono alla pari tra loro e semmai accomunati da condizioni di precarietà e incertezza economica, domestica e vitale, e da modi di vita genericamente uguali. Smettere di fare (stando in casa), smettere di scrivere per giornalisti e filosofi, di dipingere e creare per artisti e blogger, e di fare il progetto per gli architetti, significa, prima, liberarsi dal lavoro per conto di altri, poi, innalzare il lavoro stesso su un livello politico più alto, rendendolo disponibile “per quella particolare assenza di opera che siamo abituati a chiamare ‘politica’ e ‘arte’”[2].

Per immaginare uno scenario simile, servendosi delle immagini spettrali delle città italiane e mondiali di questi giorni, basta immaginare gli spazi del lavoro di tutti i giorni svuotati da quella linfa vitale che ne da il senso e ne definisce il limite spaziale e formale tra vita lavorativa e vita domestica: i lavoratori. Le città e i suoi luoghi del consumo e della riproduzione sociale, quelli della produzione, quali università, uffici, scuole, fino al banale bar in cui si lavora per qualche ora con il laptop, le sue strade e i vicoli attorno alle stazioni e agli aeroporti così lasciati ne danno un assaggio di quello che sarebbe con un’eventuale smettere istantaneo di lavorare da parte di tutti.

Cosa ne sarebbe dunque di una fabbrica senza lavoratori o di uno studio professionale di architettura se i suoi non-pagati o mal-pagati architetti, stagisti o tirocinanti, decidessero, globalmente, d’un tratto, di abbandonare il lavoro? Oppure, cosa ne sarebbe di una università se i suoi ricercatori precari e studenti facessero lo stesso? Cosa accadrebbe se si fermasse la produzione intellettuale e materiale, se si svuotasse dunque la fabbrica metropolitana?Sarebbe forse una reminiscenza dell’ottobre bolscevico?

Per questi lavoratori e per diversi architetti di recente generazione che, come affermano Antonio Negri e Michael Hardt, sono ben distanti dal Capitale, di cui si può addirittura sostenere che sono ben distanti anche dalla gerarchia a loro successiva, dei semplici datori di lavoro, professori ordinari, ecc., l’organizzazione autonoma sulla base di una produzione autonoma, Comune, del lavoro, è ancora possibile[3]. Tuttavia, la sfera urbana stessa si compone di quella architettura della città dei vecchi ordinamenti borghesi, ma ancora istituzionalizzata nella tutela dei loro esponenti ideologici più celebri, quelle figure riconoscibili nell’architetto-capo dello studio professionale in centro città, nel docente ordinario proveniente dalla Torre d’Avorio accademica con tutte le sue bacchette di potere e tutto quel circuito gerarchico di figure (per dirla con Marx e Weber, di lavoratori servili vicini alla bacchetta del capo ordinario)—tutti legittimati ad espropriare i frutti del lavoro di questi invisibile men, di questa intera razza di precari invisibili.

Tornando al quesito di prima, lo svuotamento dei luoghi dove si manifestano queste forme di sfruttamento gerarchico comporterebbe una prima via d’uscita, ma non certo la soluzione. Lo stare a casa di questi giorni non è nulla di nuovo rispetto a ciò che accade da tempo: di quel passaggio al capitalismo post-fordista che, almeno da quando esiste il laptop, ha portato il lavoro a subentrare nella sfera domestica e dell’intera vita. (Qualcuno spieghi, a questo proposito, che cosa significa smart-working?) Da quando è uscito dalla fabbrica industriale, il lavoro all’interno del Capitalismo Bio-Cognitivo—come viene definito da Andrea Fumagalli—è “lavoro cognitivo e relazionale”. Richiede tutte le capacità relazionali, affettive, intellettuali, corporee, sapere tacito e professionale, e tutto il potenziale di metterlo a disposizione della macchina (“il divenire macchinico dell’umano”) e, soprattutto, costituendosi come capitale fisso (macchina), lo espone alla “espropriazione gratuita” da parte del capitale[4].

Dentro tale apparato, non è nemmeno una novità l’emergere di una intera generazione di collettivi di architettura, anche se ancora una moltitudine invisibile, che provano a sperimentare forme alternative del lavoro da quello dell’università, dell’ufficio tecnico statale o dello studio professionale. Passare serate, domeniche, giornate feriali, in connessione su Skype, connessi da città diverse della Terra, con la voglia politica di riformare la divisione del lavoro su una nuova base non-gerarchica (e tanto meno capitalistica, senza nessuna base di reddito), per lavoratori come i compagni del collettivo Concrete—CNCRT e di molti altri collettivi emergenti, non è di certo una novità; semmai essi rappresentano un sostrato latente e diffuso di come la produzione avviene già nella sfera di una città completamente svuotata: quando si lavora, lo si fa nel cuore della luna piena[5].

Per questi collettivi, sempre più orientati alle forme sociali del lavoro e alla produzione di immagini e piccoli oggetti scenici (quasi solo concorsi e mostre), il rapporto tra progetto e non-progetto è paragonabile al rispettivo rapporto tra capitalista e lavoratore, totalmente distanti, operanti quasi come due figure antitetiche. Il progetto dell’opera realizzata è già scomparso e rimasto preda esclusiva dell’élite (corporation e archistar)—è quest’ultima ad aver espropriato i collettivi e i freelance precari da esso.

Tacciono, in tale contesto, gli architetti in quarantena. Docenti ordinari, professionisti e capi di studi professionali (quelli simili ai call-center albanesi per intenderci)[6], nonostante l’eccezionale interruzione quasi-globale di questi giorni della produzione, nel pieno del comfort domestico, dentro le loro torri d’avorio, avendo a disposizione tutto il tempo necessario per contribuire intellettualmente all’emergenza della situazione, potendo studiare, scrivere —esprimersi!—, alla pari dei medici in corsia, tacciono, a differenza forse di qualche astuto che vede già lo sbocco speculativo per vendere i suoi brand, così come alcuni venditori di quel nuovo concetto neoliberista della “forestazione” verticale e orizzontale[7]. (Inoltre, assorbita dall’estetismo eccessivo, è dai tempi di Foucault che la ufficiale scuola di architettura ha smesso di porsi domande progettuali sulle architetture utili alla nuova società post-foucaultiana: ospedali, carceri, istituzioni.) Il lavoro telematico di chi è impegnato in lezioni universitarie online, oppure di altri che consigliano un libro da leggere o un autore da studiare[8], lungi dalla discutibile qualità didattica e intellettuale che ne possa emergere dalla mancanza di uno spazio fisico, è una forma di cooperazione che avviene in rete, supera limiti, e pone alla pari tra loro docenti, studenti, professionisti e precari—rimane comunque il vantaggio non-disciplinare della disobbedienza individuale.

Tacciono in quarantena coloro che, alla luce della situazione, dovrebbero essere in grado, alla pari del medico, del giornalista e del filosofo, di dare un contributo immediato, in funzione del Comune. L’abbandono del progetto, già avvenuto da parte della moltitudine di architetti precari, freelance, intermittenti e dei collettivi, che da tempo ormai hanno già ibridato e sovrapposto la professione con altre professioni (in termini di competenze e saperi, con quelle classiche e con altre di recente invenzione) e con l’ambito domestico dell’abitazione, porta a pensare il superamento della professione dell’architetto[9]. Forse è solo ponendo il progetto in secondo piano, in funzione di un discorso più elevato, educativo, intellettualmente utile e potenzialmente rivoluzionario, che si riuscirà a cambiare abitudini politiche e usi ideologici quotidiani.

Solo, probabilmente, abolendo il progetto come unico compito dell’architetto…

[1] Giorgio Agamben, Creazione e anarchia, L’opera nell’età della religione capitalista (Vicenza: Neri Pozza, 2017), 44.

[2] Ibid., 51.

[3] Michael Hardt e Antonio Negri, Assemblea (Firenze: Ponte delle Grazie, 2018).

[4] Andrea Fumagalli, “Metamorfosi del rapporto capitale-lavoro: l’ibridazione umano-macchina”, Effimera, http://effimera.org/metamorfosi-del-rapporto-capitale-lavoro-libridazione-umano-macchina-andrea-fumagalli/#_ftn17 [Consultato il 11 Marzo 2020].

[5] Si veda http://cncrt.eu/collective/.

[6] Arlind Qori, “Dai call center alle miniere, prove di autonomia sindacale”, Il Manifesto Online, https://ilmanifesto.it/dai-call-center-alle-miniere-lautonomia sindacale [Consultato il 11 Marzo 2020].

[7] Si veda commento di Stefano Boeri, “Forestare le città è pure un aiuto sanitario. Sogno un festival degli abbracci.”, in “Coronavirus e Milano, fermarsi e progettare il domani.”, https://www.corriere.it/speciale/cronache/2020/coronavirus-e-milano-fermarsi-e-progettare-il-domani [Consultato il 12 Marzo 2020]. Sembra che l’architetto milanese abbia ben inteso come inserire il suo discorso forestale (boschi verticali e non solo) in un momento che mette in forte discussione, salute ambiente e politica. Politicamente curioso ed interessante invece il suo approccio social, come quello di qualche altro architetto italiano, nel cimentarsi in lezioni virtuali a commentare libri di architettura e figure di architetti della storia.

[8] Si veda nota precedente.

[9] Parlo della professione, non dell’architetto come figura. Il discorso rimane valido per tutte quelle professioni classiche, cosiddette da “colletto-bianco”, frutto ideologico della vecchia borghesia fordista e post-fordista.

* Marson Korbi è architetto e PhD Researcher presso il Dicar (Politecnico di Bari) e membro di Collective—CNCRT