ElasticoFarm | Stefano Pujatti. Due libri di LetteraVentidue Edizioni

di Paolo Conrad-Bercah

Non succede tutti i giorni di leggere pubblicazioni prive di tutte quelle nauseanti retoriche che avvelenano da oltre un quarto di secolo il discorso intorno alla forma di architettura, oggi caduta prigioniera degli imperativi (incessanti) del turbo-capitalismo globalizzato. Ma il caso non smette mai di sorprendere, e il caso ha voluto che addirittura due pubblicazioni di questo tipo – vuote cioè di retoriche deliranti – siano stati stampati in Italia nel Dicembre 2023 per i tipi di LetteraVentidue edizioni, un raro caso di editore di qualità rimasto nella penisola: un editore capace di promuovere l’evoluzione della cultura operando dal suo centro culturale più meridionale – Siracusa – in un coraggioso tentativo di rinnovarne i suoi fasti millenari in modo contemporaneo per il piacere del lettore informato come per quello non informato ma interessato a informarsi.

È lecito pensare che l’argomento trattato in entrambi – il corpo di lavoro architettonico accumulato nel corso di due decenni da ElasticoFarm e del suo direttore Stefano Pujatti – sia responsabile di questa inaspettata condizione di felicità di lettura per chiunque abbia a cuore la forma di architettura e le straordinarie implicazioni culturali che essa stessa genera nei sempre più rari casi in cui riesce a prendere corpo. Questo fatto risulta evidente in entrambi i libri in questione che riescono a dimostrare l’unicità di pensiero di un’officina di architettura tra le più interessanti tra quelle attive oggi in Europa: Building Stories, una conversazione (per la collana Loqui) tra Davide Tommaso Ferrando e Stefano Pujatti, il cui nome è anche il titolo del secondo libro, un saggio scritto con sofisticata maestria da Michela Falcone per la collana Imprinting della stessa casa editrice.

Si tratta di due libri in qualche modo complementari, che riescono a evidenziare l’unicità di un modo colto di fare architettura in un tempo culturalmente depresso. Si tratta di un modo controcorrente, e cioè di un modo «coraggioso, spericolato, fastidioso, non conformista», che riflette la tenacia apparentemente inarrestabile di Pujatti, cowboy nostrano, e del team di “fattori” che quotidianamente coltivano (letteralmente) la Fattoria da loro abitata sulle colline ad est di Torino.

Nelle due pubblicazioni non si trova infatti traccia, di algoritmi, green wash, politically correct, strategie “inclusive”, cancel culture, tecno-feticismo e tutte le altre (pseudo)categorie di marketing travestite pretenziosamente da progetti culturali che il mondo intero ripete acriticamente senza sosta, scimmiottando (al ribasso) fake rhetorics da conferenza stampa della valle del Silicio in scadenza. 

Al contrario, si può sostenere senza tema di smentita, che il contributo principale di queste pubblicazioni è quello di far emergere la miseria intellettuale delle categorie imperanti oggi attraverso un garbo e un “understament” indossati con una naturalezza e nonchalance che nessuno ha mai associato alla figura di un cowboy, nostrano o foresto. In entrambi i libri si parla infatti di temi (progettuali) precisi: il ruolo dell’acqua, il rapporto con il paesaggio, la tensione alla compressione delle forme, l’importanza dei plastici, del disegnare a matita, dello sperimentare con il clima e in genere delle crisi e degli imprevisti che caratterizzano ogni progetto che, se interpretati criticamente, possono generare idee luminose, se non fulminanti, come ad esempio succede nel caso dell’Atelier Fleuriste, che, come sottolinea giustamente Falcone, è «il prodotto di una serie di errori gestiti così bene da diventare l’essenza stessa del progetto». 

A ragione la stessa Falcone sottolinea quella che è forse la chiave principale per leggere in modo appropriato il modus operandi di Elastico: «Invece di ricominciare daccapo per cercare una via sterilizzata da ogni possibile incidente, l’errore è stato coltivato: questa rettifica ha aggiunto molte qualità all’idea iniziale e ha reso il progetto multisensoriale». In un mondo che ha demandato ogni scelta e ogni responsabilità alla tecnologia con la premessa di eliminare addirittura la possibilità di errori o ingiustizie, il lavoro di Elastico dimostra l’importanza di saper coltivare l’errore e di provare a ribaltare, rifiutandole, retoriche prive di qualsivoglia interesse intellettuale in arrivo dalla sponda occidentale dell’Atlantico.

Inversione, sospensione, trasformazione, intersezione: queste le categorie discusse in entrambe i libri. Sono categorie di pensiero derivate dal fatto tecnico e dal fatto geometrico che stanno alla base di ogni intelligenza progettuale. Sono categorie di pensiero teorico derivate da pratiche costruttive, che punteggiano una gravitas davvero “elastica”: un’agilità di pensiero aperta che permette alle opere di vivere come organismi in evoluzione, sia durante la fase di cantiere che dopo la fine dello stesso. Si tratta di categorie che coltivano il terreno fertile su cui il fruitore delle opere assiste a performance ecologiche inaspettate, performance dettate dalle stagioni e dai tempi della natura, dai suoi imprevedibili “capricci” che Pujatti, a differenza di altri “santoni ecologici” del nostro tempo, non ha nessuna intenzione di “addomesticare” o (peggio) di “mettere in scena”, come se davvero qualcuno potesse credere che la forma di architettura possa ridursi ad una spettacolarizzazione del mondo vegetale, come se gli esseri umani avessero bisogno di “abitare” (o di curare a pagamento?) un enorme vivaio di piante in competizione tra loro.

Non si vuole entrare qui nello specifico dei progetti che animano entrambe le pubblicazioni per non privare il lettore del gusto della descrizione (presente in entrambe) dei temi che gli stessi pongono sul tavolo senza false remore. Ma sarebbe scorretto non sottolineare la particolare sensibilità che il lavoro esprime nel rapporto con il clima (che può diventare, come suggerisce il caso (importante per Elastico) di Venezia, occasione di gioco e di alfabeto, di oggetto a reazione poetica piuttosto che campanello d’allarme assordante; oppure il rapporto che la forma architettonica istituisce con il terreno e con il cielo, che si evidenzia nel corpo di lavori presentati.

Come afferma lo stesso Pujatti nella conversazione con Ferrando, «i nostri progetti partono sempre all’idea che gli edifici deformano il terreno e accorciano il cielo». È questo sicuramente il caso di alcuni dei progetti prediletti da chi scrive: il complesso a Jesolo (Le batiment descendant l’escalier), la casa a Cambiano (Hole with a house around) o il progetto non realizzato delle terme di Grado. Ed è anche il caso del progetto di concorso per l’estensione del MAXXI di Roma (prodotto con i compagni eretici Servino e Peluffo) che emerge come uno dei progetti più interessati (e ironici) visti in Italia nell’ultima decade, progetto a cui la ghigliottina del perbenismo vegetale ha ovviamente tagliato la testa “per lesa maestà”, non avendo gli strumenti intellettuali per capirne la “sprezzatura”.

«I poeti se sono genuini, devono anche continuare a ripetere “non lo so”,» si legge nel Manifesto contenuto in uno dei due libri. La frase di Wislawa Szymborska descrive in modo convincente l’approccio progettuale di Elastico, nomen omen, nome e messaggio concettuale dello studio e del suo direttore. La consapevolezza di non avere certezze in un mondo che non tollera l’incertezza, rimane infatti la cifra vera di un’autorialità oggi vilipesa un po’ ovunque e purtroppo anche in Italia, dove negli ultimi tempi è aumentato a dismisura il numero di persone che confondono i fini con i mezzi o, come direbbe il nostro amato Omero di un secolo fa, non sembrano essere consci di utilizzare l’urna come pitale, o il pitale come urna. In questa situazione, per gli happy few rimasti che ancora apprezzano l’autorialità, non rimane che ringraziare la provvidenza della possibilità di apprezzare (in situ) l’agilità geometrica e mentale delle opere depositate sul territorio dall’intelligenza ed ironia da questa eretica «fattoria di poeti di architettura». Dopotutto, come ha ammonito Moravia, «i poeti sono rari, ne nascono due o tre ogni generazione. E vanno preservati». Come l’orango di Sumatra. O il leopardo di Amur.

Non si potrebbe lanciare un appello per includere la figura del “poeta di architettura” tra gli animali in via di estinzione nel mondo e in Italia?