RUBRICA SCUOLE | Università di Trieste

Una bella riflessione sulla condizione della società contemporanea, attraverso un progetto di laurea.
Forse è proprio questo che vogliamo dalla scuola. Forse è proprio a questo che dovrebbe servire il progetto accademico.
Grazie a Samuel e a Giovanni per la partecipazione e per il prezioso contributo.
FA

Studente: Samuel Iuri
Docente: prof. Giovanni Damiani
Università degli Studi di Trieste
ex Facoltà di Architettura – Corso di Laurea triennale in Scienze dell’architettura
Tesi di laurea triennale discussa nel 2013
Valutazione 110L

Un buco nell’acqua. Manifesto retroattivo per l’isola del Giglio

Che vi fosse una potenza architettonica celata in questa faccenda era probabilmente la prima cosa da mostrare per poter costruire un qualsiasi ulteriore sviluppo del lavoro.

Qui, per ragioni di spazio e data l’impronta più narrativa, quel segmento non viene riportato, elidendo pertanto alcune necessarie premesse e considerazioni sulla genealogia del prodotto finale. Una mezza storia per sole figure è però reperibile qui: http://issuu.com/samueliuri/docs/ss_issuu

Una volta esplorate le possibilità e determinato quali sentieri si aprissero a seconda dell’approccio scelto, sono state definite poche regole su cui il progetto avrebbe dovuto impostarsi [il cosa solidificare, le geometrie, i rappporti tra volumi e forme] e poi si è lasciato che tutto evolvesse un po’ sotto forma d’indagine grafica e un po’ come ragionamento architettonico coerente con la tesi di fondo.

L’output è stato un progetto, a modo suo e non nei termini che delineano i “veri” progetti architettonici – evidentemente – ma che voleva offrire delle suggestioni circa le possibilità di rispondere in modo “altro” a certe questioni, o quantomeno di rispondere in modo architettonico a problemi “altri”. Le immagini non sono immediate, ma riflettono [o, perlomeno, ci provano] i ragionamenti che hanno portato a questo risultato, anche nella forma in cui si presentano.

In verità, si commette un grossolano errore di valutazione nel voler indicare con il generico termine «crisi» un’altrettanto generica carenza, mancanza, scarsità [di denaro? di mezzi? di possibilità?] che sembra inevitabilmente perseguitare il presente; pare invece il contemporaneo sia ricco di frangenti critici che trascendono gli oramai consunti ritornelli delle «crisi economico-politico-social-demografic-occupazionali» e sono piuttosto configurati in quegli eventi che al grido di «disastro», «catastrofe» e simili sottraggono per qualche istante le prime pagine alle crisi già citate, siano essi di natura idro-geologica, vulcanica, bellica, nucleare, trasportistica oppure, come in questo caso, navale.

Contemporaneo denso di «criticità» dunque, ma ancor più popolato dai detriti che questi eventi lasciano sul campo, e che nel tentativo di ristabilire un ipotetico ordine sono fatti oggetto dei più macchinosi piani per la loro rimozione ed il loro smaltimento, indipendentemente da quali e quante siano le risorse necessarie per la loro attuazione, indipendentemente da quale sia la loro efficacia in rapporto al problema iniziale.

Ed è così che si sancisce l’avvio di un circolo vizioso che prende la forma di un’incessante corsa alla riparazione, il più delle volte venduta sotto le spoglie della «messa in sicurezza», come ad implicare altrimenti il rischio di minare una presunta normalità. Appare evidente come questa fatica di sisifo alla continua ricerca dell’«equilibrio» [appartenente ad un mondo più onirico che umano] sia l’alibi perfetto per una prova di forza della pratica ingegneristica che vorrebbe dimostrare d’essere in grado di sovvertire la sovversione, ma che ben presto rivela la sua vera identità, del tutto incapace di abbandonare il set di schemi comportamentali e procedurali su cui, dogmaticamente, essa stessa si fonda.

E se è vero che «l’Architettura ha inizio dove termina l’ingegneria» una possibile via d’uscita si prospetta non appena si prende coscienza del fallimento ingegneristico.

Lo spostamento dell’obiettivo dalla risoluzione di un problema per cancellazione, allo sviluppo, costruzione [come implicito nel nome stesso della nostra disciplina] soprattutto in virtù dei residui rimasti sul campo, apre inevitabilmente a delle possibilità di trasformazione se possibile del tutto estranee ad esperienze passate proprio a causa dell’unicità dell’input del processo.

È necessario considerare però come ciò debba dichiarare una radicale indipendenza dalle pratiche perbeniste che si attuano sotto l’egida del «ri-»: il rischio insito nel passare per riuso o riciclo che siano è inevitabilmente quello di creare l’aspettativa di un risultato necessariamente «migliore» delle condizioni di partenza, ovvero che tutto il processo abbia sempre funzionato con un rendimento più alto possibile. Dal momento però che stabilire dei criteri universalmente riconosciuti per un’imparziale valutazione di questo dato non è possibile, a meno di non voler scivolare in banali [e ahinoi diffusissime] demagogie, si porrebbe la sindacabilità a priori degli esiti dei processi di trasformazione e di conseguenza irrimediabilmente limitarne l’evoluzione.

Ed è probabilmente la componente di elevata imprevedibilità dello sviluppo di queste trasformazioni a suscitare maggiore interesse [o preoccupazione?] in un’epoca che più che da crisi sembra essere affetta da una irriducibile stasi.

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Per quanto riguarda le vostre domande, preferisco non rispondere o, meglio, preferisco mettere in fila alcuni pensieri più o meno a tema.

Non credo che quella in cui mi trovo si possa definire scuola di architettura, salvo che scuola non sottintenda proprio l’impostazione scolastico-liceale più “commerciale” [fai i compiti, quindi ricevi una ricompensa]. Forse se ne poteva intravedere una quando diversi anni fa ormai ci sono piombato dentro, più o meno per caso, ma allo stato attuale diverse inconsistenze [strutturali, eonomiche, geografiche] sia interne che dell’ambiente in cui è inserita mi fanno inevitabilmente dubitare delle sue potenzialità residue.
Non voglio naturalmente dire che non salverei nulla di quanto fatto là dentro durante questi anni, innegabilmente ci sono state diverse esperienze e persone di valore, ma difficilmente vedo le condizioni perché possano ripetersi e riproporsi in futuro. E questo coinvolge sicuramente in modo verticale ed orizzontale tutti i piani e le questioni.
Ci tengo a sottolineare che con quel che scrivo non intendo dare colpe a nessuno, ciascuno ne ha la sua parte, politici, amministratori, docenti e, perché no, studenti; sembra proprio che nessuno abbia capito o voluto capire che piccolo poteva diventare una nicchia, e non necessariamente un nulla in cui cercare di mantere un indefinito status quo.
E in questa situazione, che non si capisce a chi in realtà giovi, tutto seguita ad andare alla deriva senza in realtà naufragare per poi ripartire su altre rotte.
Cosa che non escluderei sia applicabile al sistema nella sua interezza…

19 febbraio 2016

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